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Ghino di Tacco. Eroe ghibellino di Radicofani

di Luca Leonello Rimbotti - 17/01/2010


 

 

La via Francigena, che collegava Roma con l’Oltralpe, era la principale arteria medievale, ritagliata sul tracciato della romana via Cassia. Vi transitavano frotte di pellegrini diretti a Santiago di Compostella, mercanti, armigeri, carriaggi. Nel punto in cui giunge al confine tra Lazio e Toscana, giusto in mezzo tra l’Amiata e il Cetona, lungo una variante disegnata dai Longobardi nella valle del Paglia, si apre un paesaggio insolito per asprezza e imponenza: crete, calanchi e squarci rocciosi fanno corona all’alta rupe di Radicofani. Un blocco di basalto sul quale torreggia poderosa la rocca già carolingia. Uno scenario superbo, che d’Annunzio definì “il più virile d’Italia”, e che si presta magnificamente a fare da quinta alle gesta eroiche di un personaggio leggendario. Alla fine del Duecento, questo fu infatti il teatro della straordinaria saga di Ghino di Tacco. Era questi un nobile cavaliere nato verso il 1265 a Torrita in Valdichiana dall’illustre famiglia feudale dei Cacciaconti, inurbatasi a Siena. Un audace ribelle che, per sfuggire all’atroce morte inflitta ai membri del suo casato dal giudice senese Benincasa, un guelfo, si dette alla campagna diventando masnadiero, si impadronì del castello di Radicofani – allora bastione avanzato dei domini papali – e ne fece un’imprendibile base di resistenza armata. Ma per sopravvivere ne fece anche il punto di partenza per sequestri, taglieggiamenti e rapine.

Storia personale e schieramento politico si intrecciano nella vicenda di Ghino di Tacco, fino a farne un eccezionale esempio di onore familiare e di fedeltà feudale ai principi ghibellini di libertà, da vicino minacciati dalla crescita dei Comuni, in quel momento per lo più di obbedienza guelfa e decisi a smantellare l’ordinamento tradizionale rappresentato dal feudalesimo.

Ghino di Tacco tenne la rocca di Radicofani per soli tre anni, dal 1297 al 1300. In questo breve periodo, il “Falco della Valdorcia”, accompagnato da pochi fedelissimi ribaldi, terrorizzò i passanti, operando la spoliazione di chiunque, isolato o in carovana, si avventurasse a transitare nel fondovalle. Ma occorre dire che si trattò di un singolare bandito, che toglieva ai ricchi per dare ai poveri, e sempre senza infierire sulle sue vittime. Le cronache lo dicono generoso, comprensivo e anche affascinante. Tanto che spesso i derubati se ne andavano quasi contenti. Narrano le fonti d’archivio che Ghino amasse spogliare in specie pingui prelati e ricchi mercanti – rappresentanti di quella grassa borghesia che era la principale nemica delle antiche famiglie feudali –, convincendoli con abili argomenti che ciò che toglieva loro non era maltolto, ma giusta distribuzione dei beni. Il ricco e il potente, alleggeriti dei due terzi dei loro averi, si giudicavano fortunati che venisse loro consentito di trattenere l’altro terzo, e soprattutto la vita. E, sotto sotto, ammiravano quel singolare cavaliere, di aspetto così nobile: alto, fiero, forte. Questa specie di Robin Hood italiano – ma, a differenza del suo omologo inglese, realmente esistito – usava anche  riempire le tasche dei poveri: ad esempio, quando veniva catturato qualche studente spiantato, non esitava a rifornirlo di cibo e monete. Guadagnandone una fama di magnanimità che crebbe a dismisura.

Ciò che rese Ghino di Tacco un raro esempio di audacia fu la sua spedizione contro il giudice guelfo, nel frattempo rifugiatosi presso la corte papale di Roma. La vendetta fu consumata con un’azione da vero commando. Accompagnato da quattrocento armati – tutti ghibellini della bassa Toscana – irruppe a Roma di sorpresa, penetrò senza ostacoli in Campidoglio e qui, davanti a una folla di gente allibita, decapitò il giudice che aveva sterminato la sua famiglia, innalzandone la testa sanguinante su una picca. La stessa che poco dopo, rientrato senza danni a Radicofani, fece esporre sul più alto pennone del cassero. Questo fatto mise Ghino al primo posto tra i nemici di papa Bonifacio.

Dall’alto degli spalti del castello di Radicofani, da cui lo sguardo nelle giornate serene spazia dagli Appennini al mare, l’occhio del fuoriuscito e dei suoi fidi scrutava l’avvicinarsi dei viaggiatori alla distanza di chilometri, permettendo di predisporre per tempo il piano per tendere gli agguati.

Finché un giorno, a passare in lento convoglio di cavalcature e di famigli, fu la volta dell’illustre e potente abate di Cluny, uno dei prelati più ricchi della cristianità. Subito catturato col suo seguito, l’abate venne rinchiuso sotto scorta armata fino a quando Ghino, venuto a sapere che l’importante ospite era malato di stomaco, ne stabilì una rigida dieta, che presto lo guarì. Ma la riconoscenza dell’abate divenne stima e amicizia, quando Ghino narrò al potente amico di Bonifacio VIII  tutte le sofferenze patite, l’uccisione del padre, l’esilio e la vita da bandito cui era costretto. Questo racconto commosse il prelato, che ottenne il perdono del papa e la riabilitazione morale di Ghino. E di qui partì tutta un’operazione diremmo di verniciatura “ideologica” del signore di Radicofani. Che, da ghibellino, si trovò ad essere rappresentato come un fedele del papa. Dopo il 1300, infatti, le notizie certe cessano, ma iniziano le leggende. Cui contribuirono personaggi come Benvenuto da Imola o il guelfo Boccaccio, che ne fece materia per una novella del Decamerone. Il lieto fine, orchestrato in chiave papalina, prevedeva che Ghino di Tacco fosse stato nominato Priore dell’Ordine degli Spedalieri, che divenisse membro autorevole della corte papale e che, in occasione dell’episodio dello schiaffo di Sciarra Colonna a Bonifacio VIII ad Anagni, Ghino si trovasse tra i difensori del papa. La medesima leggenda vuole che il Cacciaconti, tornato nella natìa Valdichiana, rimanesse vittima di antichi rancori, pugnalato a morte a Sinalunga.

Dante ne accenna di sfuggita e senza simpatia nel XX canto del Purgatorio. Si capisce: era amico del giudice Benincasa, proprio quello decapitato da Ghino. Boccaccio ne fa un guelfo. La storiografia leggendaria cinquecentesca, idem. Il Guerrazzi, nell’Ottocento, da romantico neo-ghibellino, nel suo romanzo storico La battaglia di Benevento lo esaltò invece come un eroico cavaliere fedele agli Svevi. Ghino è stato protagonista in romanzi storici, rievocazioni popolari e narrazioni di cultura contadina che a lungo divulgarono la storia di un eroe buono, che usa la violenza a fin di bene, amico del popolo e vendicatore del padre armi in pugno. E perciò piacque anche al Pascoli socialista. Questa figura di nobile fiero e solitario si integra perfettamente con la roccia su cui sorge Radicofani, tanto da farne un binomio inscindibile. L’audace castellano, figura di eroe popolare, sarebbe un perfetto simbolo di grandezza d’animo e di fedeltà alla tradizione e alla famiglia parentale, oggi in via di liquidazione. Invece, quel poco di fama che ha oggi, Ghino di Tacco lo deve al fatto che Bettino Craxi usava firmare certi suoi corsivi sull’Avanti! con questo nome. Quando si dice la miseria della modernità…