L'uomo e il mondo naturale
di Gottlieb - 13/04/2006
Fonte: filosofia-ambientale.it
Il confronto con le tematiche politiche e le emergenze poste dagli ambientalisti non è
estraneo alla riflessione filosofica. Un’analisi scientifica per essere tale non può presumere la
completezza o il possesso del vero. Le chiusure e le assolutezze sono paranoie. Le angolazioni
possono essere reali. D’altre parte il livello di serietà di un’indagine è data dalla sua opinabilità;
l’opinione è quell’idea che ha tanta umiltà da disporsi sempre a revisionarsi. Ogni filosofia,
ogni pensiero è la risultante della propria epoca. Si può ricordare la nota leggenda che ci narra
della risposta di Pitagora al re Leonte, che gli chiedeva in che consistesse l’attività del filosofo.
Pitagora per illustrare il suo essere filosofo, fece un confronto con ciò che accadeva in
occasione dei giochi di Olimpia. Vi partecipavano atleti, che cercavano fama nella vittoria;
mercanti, che speravano di arricchire i loro traffici commerciali, dato il grande afflusso di
gente; e spettatori, che venivano per osservare e applaudire gli atleti. Il filosofo è come uno
spettatore. Con questa metafora Pitagora voleva richiamare la tendenza contemplativa propria
del filosofare che la differenzia dalla altre forme di attività. “la filosofia non è
sonnambulismo…è la più desta realtà” ha scritto Hegel, non è qualcosa di astratto e lontano
dalla vita, il contemplare come gli spettatori non significa distacco dalle cose che si fanno, anzi, è un momento di riflessione su tali cose proprie per poterle fare meglio.
Resta difficile comporre in un quadro sintetico le sollecitazioni che il nostro tempo ci
consegna, in relazione a una tematica cosi coinvolgente come quella ecologica. Tempo di crisi a tutti i livelli, al punto che mi azzarderei a dire che alla crisi dei valori si è sostituito il valore
della crisi. 1 La globalizzazione con le nuove economie di mercato, le diversità culturali,
inducono alla ridefinizione di un nuovo modello antropologico, come pure una nuova logica
delle categorie di spazio e tempo. Lo spazio assume contorni illimitati con la globalizzazione e il tempo diventa una realtà virtuale con l’informatica. Si rileva un’accelerazione dei tempi e
quindi un’altrettanto accelerata possibilità di incontro tra culture diverse. Si è cominciato a
parlare di nuove logiche in grado di gestire una realtà complessa e varia che non si lascia più
ridurre in maniera univoca. Il tema dell’ecologia ci permette di parlare di umanità e di vita
dell’umanità senza che questo assuma contorni metafisici. L’idea di umanità, di fronte ai rischi
globali, assume una dimensione operativa, poiché in quanto insieme di individui, si condivide
una stessa condizione di debolezza e vulnerabilità di fro nte agli effetti del nostro stesso agire.2
Emmanuel Lévinas sottolinea a più riprese la situazione di estremo disagio in cui versa
l’umanità del nostro tempo:«le guerre mondiali, il nazismo, lo stalinismo, le camere a gas, il
terrorismo e la disoccupazione: è molto per una generazione sola, anche se essa ne fosse stata
solo testimone….in nessun’altra epoca l’esperienza storica ha fatto sentire con più forza il suo
peso sulle idee». 3 La riflessione di Lévinas sembra assumere una valenza politica, tuttavia non ha nulla a che fare con gli schieramenti politici del momento, dato che si qualifica soprattutto come consapevolezza critica volta a rimettere in discussione l’agire umano. Rivendica il primato dell’etica sulla politica e nel caso della tematica ecologic a assume un’importanza non priva di significato. Nell’ultimo decennio la difesa dell’ambiente, in passato appannaggio di gruppi minoritari, ha invece fatto registrare una forte crescita di sensibilità. I dati statistici forniti dagli ecologisti hanno attirato l’attenzione dei filosofi per le importanti implicazioni che essi comportano sul piano concettuale e normativo.4 Il tema ecologico pone in discussione la rifondazione del sistema dei valori. Al centro dell’attuale dibattito sono in primo luogo le questioni epistemologiche e metodologiche, siccome l’agire umano, gli atteggiamenti, rimandano ad immagini diverse dell’uomo e del suo rapporto col mondo, si fa sempre più insistente una revisione delle tradizioni di pensiero, concezioni, credenze della nostra cultura.
La cultura occidentale, la giudaico-cristiana e scientifico moderna sono state generalmente
estranee al rispetto della natura. In questa ottica ci si chiede se la civiltà umana sia
strutturalmente basata sul dominio della natura o se è possibile ipotizzare, per l’umanità
tecnologizzata un rapporto con l’ambiente che non sia di sfruttamento e manipolazione, oppure fino a che punto è lecita la manipolazione. Non dimentichiamo che gli esperimenti sulla
clonazione ci rendono responsabili del destino della terra.5 È evidente l’istanza di una nuova
moralità, la ridefinizione di valori etici, giuridici e politici. Una maggiore responsabilità per il
presente e il futuro del genere umano che ri-comprenda un allargamento della sfera morale.
Scienza e saggezza filosofica L’uomo edonistico della società industriale e capitalista coltiva l’ideologia del benessere, ideologia partorita dalla civiltà tecnologica, intesa come civiltà predatrice di uomini e cose.
Come si può capire “questo mondo” tecnologico che presenta tratti di agonia drammatica? Fa
esclamare a Lorenz «…sminuimento graduale di tutte le qualità e le doti che fanno dell’uomo
un essere umano»6.
Leggo gli Atti del convegno romano, organizzato il 5 giugno 1989 dall’Accademia Nazionale
dei Lincei e dall’Accademia Nazionale delle scienze forestali sul tema “ L’acidità atmosferica e il suo impatto ambientale”. Il bosco muore sotto forma di corrosione diffusa. I sintomi di questa agonia, dell’ecosistema boschivo, sono di tre tipi: a) riduzione dell’accrescimento della flora, senescenza precoce delle foglie, perdita di massa fogliare; b) accrescimento anomalo della vegetazione tenera, alterazioni morfologiche della foglia; c) sintomi legati a stress idrico. Tutto questo porta ancora una volta a mettere sotto accusa il concetto di “progresso”. Ceronetti parla di “filosofia dell’inquinamento”. Un passo del suo saggio «il fenomeno tecnologico è come una frenetica neoplasia di rimedi a tutto, che rimediando alcune cose scatenano mali imprevedibili, sempre più catastrofici, vere galassie di sciagure… dall’incantesimo che ci avvinghia non è possibile uscire. La potenza raggiunta mette a nudo il proprio contrario, e il dondolio del ragnatelo rivela l’avvicinarsi del divoratore che si nasconde»7; anche Sermonti calca le stesse note dolenti sui mali ecologici «…e la natura rifiuta questo dispotismo totalitario, con una cupa silenziosa protesta, fatta di abbandono e di morte, riporta a galla sulle acque contaminate le scorie che avevano tentato di nascondere, e fa ricadere dai cieli insudiciati una cappa di fuliggine e gas soffocanti che avevano sperato di offrire ai venti dell’immenso»8. Occorre una serena riflessione sul concetto di progresso e sulla fondamentale domanda “che cos’è l’uomo”. Resta da vedere se il progresso sia ipso facto progresso dell’uomo integrale e progresso del genere umano. Ad esprimersi sulla questione non dovrebbe essere soltanto la scienza, ossia senza l’apporto di un illuminazione etica e saggezza filosofica che orientano le scelte umane. Non si rassegnano i nostalgici della civiltà bucolica ad accogliere lo schematismo della scienza come condizione essenziale della mentalità moderna, e in campo economico, politico e in campo morale. È significativo quanto osserva Mumford «con la fase neotecnica si fanno evidenti due fatti di grande importanza: il primo è che il metodo scientifico, le cui conquiste avevano riguardato soprattutto la matematica e le scienze fisiche, ha fatto propri altri campi dell’esperienza; il secondo è che anche l’organismo vivente e la società umana sono divenuti oggetto di investigazione sistemica, e benché il lavoro in questi settori sia stato spesso deformato dalla tentazione di adottare le categorie mentali, il modo di indagine e tutto il particolare apparato dell’astrazione quantitativa, elaborata per il mondo fisico in senso stretto…. l’estensione della scienza ha avuto conseguenze molto importanti per tutta la tecnica»9. Questa osservazione di Mumfordi ci riporta alla domanda posta prima: perché l’incomprensione dell’uomo contemporaneo nei confronti della natura? La risposta potrebbe essere questa: l’uomo contemporaneo non comprende più la natura perché ciò che gli sta di fronte, a detta della scienza e della cultura moderna, non è esperienza reale ma una rappresentazione artificiale tradotta in termini di linguaggio matematico e convenzionale.
Sembra assurdo e paradossale, eppure il mondo teorico ha assorbito in sé quello reale. Non
dimentichiamo le virtualità dell’informatica! Chi sono stati Galileo e Newton? Geni della
matematica e della fisica che ci hanno prestato, per così dire, una lente speciale per leggere e
interpretare i fenomeni del mondo in termini di misura e calcolo, facendo passare in
second’ordine l’aspetto emotivo e fantastico del nostro rapportarci ai boschi, al chiaro di luna,
alle cime dei monti e il cielo stellato. L’affermarsi della mentalità scientifica ha sminuito il
mondo arcaico e mitologico, vissuto come esperienza qualitativa personale del nascere,
crescere e morire. La mentalità arcaica legava la natura alla divinità, il mondo scientifico è
essenzialmente pragmatico. Ne consegue che dove prima si sperimentava la natura come
luogo dell’umano destino degli uomini in termini di sacrificio, lotta, vittoria e dolore, oggi si
rinviene l’operato dell’uomo che fa del mondo un bottino da preda a scopo di lucro e vanità. La ricerca scientifica senza supporto etico rischia di ritorcersi contro l’uomo, quando abusa
sconsideratamente della natura e del rispetto della persona umana, e ancora una volta il
pensiero corre all’ingegneria genetica e alle realtà virtuali.
Il rapporto dell’uomo con la natura, con l’ambiente, va anche visto in prospettiva storica. È
all’interno della dimensione temporale che si consolida l’esperienza personale e comunitaria
della responsabilità morale e giuridica degli atti umani, chiarendosi anche la dialettica tra bene
e male che contrassegna il cammino dell’uomo attraverso i secoli. Con questa osservazione
entriamo nel clima della riflessione etica e filosofica sul possibile rapporto dell’uomo con la
natura.
Finalità teleologica dell’uomo nella natura L’uomo e la natura, due termini separabili solo per astrazione, perché l’uomo è natura, ne fa parte al punto che al di fuori di essa difficilmente può essere compreso.
Non l’uomo nella sua dimensione metafisica collocato fuori della storia ma gli uomini di
fronte al mondo nel quale vivono, gli uomini che hanno la particolare inclinazione al
riflettere di fronte alla scienza che studia l’ambiente: l’ecologia. Il filosofo riflette il comune
sentire degli uomini spesso ne anticipa gli eventi, ne prevede gli sviluppi. Bacone si
proponeva il dominio della natura con una precisa formulazione metodologica e che
avrebbe favorito l’avvento del regnum hominis con procedimenti scientifici fondati
sull’esperienza. Si trattava di un progetto che aveva come scopo il trionfo e l’affermazione
dell’uomo sulla natura, a carpirne i segreti con l’osservazione e l’esperimento. I filosofi da
Bacone a Galileo a Cartesio, hanno guardato alla natura da prospettive diverse: o per
dominarla, scoprendone le leggi, oppure inquadrandola in schemi concettuali riducibili al
rigore delle scienze matematiche. Weizsacker10 riferendosi al De nostri temporis di G.B.
Vico compie un importante osservazione. La prevaricazione della scienza fisico matematica
avrebbe finito con l’estinguere la tradizionale distinzione vichiana che il Nostro operava tra
le scienze della natura e le scienze dell’uomo, soprattutto quando si guarda all’attuale conquista della tecnologia moderna. Timore quasi infondato se si considera che l’uomo non
ha la capacità di creare ex nihilo, fino a quel momento la distinzione vichiana dovrebbe
conservare la sua validità. L’autore della Scienza Nuova fondò proprio su questa distinzione
quella che sarebbe stata la separazione, celebre ai nostri tempi, delle due culture, dei due
ambiti del sapere: quello umanistico e quello scientifico. Questo richiamo al Vico non è
senza significato soprattutto nel mondo anglosassone e americano dove la scienza ha
raggiunto dimensioni ipertrofiche, nei quali la tecnologia ha esteso la sua azione
influenzando e condizionando ogni aspetto della vita. Le attuali espressioni della scienza e
della tecnica operano sulla natura sostituendosi ad essa, creando una condizione di
estremo squilibrio fra l’uomo e la natura sfruttandola ad interessi utilitaristici, con
esclusione di ogni altra finalità.
Nel XVIII secolo le scienze, per quanto già fossero pervenute a condizioni di
emancipazione, rimanevano ancora su un piano di formulazione teoric a, lontano dalle
pericolose implicazioni che le avrebbero portate gradualmente a sostituirsi alla natura. I
filosofi guardavano alla natura come a un dominio ancora intatto, nel quale l’uomo avrebbe
costruito il campo delle sue azioni. Furono le premesse di quel secolo che permisero alla
futura tecnologia di svilupparsi, passando da un grado di iniziali tentativi, prima, e di
esperimenti riusciti, poi, la manipolazione del mondo della natura in vista della sua
utilizzazione pratica. Dalla fine dell’ottocento al secondo dopoguerra, nel XX secolo, la
storia dell’umanità ha subito un’accelerazione dei tempi, “trasformazioni rapidissime”
dichiara Hobswam nel suo Secolo breve11 più di quanto avesse fatto prima nel corso dei
millenni. Il dominio della scienza e della tecnica ha inciso in maniera profonda sulle
condizioni di vita dell’uomo e della natura alterando i normali equilibri, apportando
disordine e anarchia, creando le premesse di una futura indisponibilità.
La natura può e deve essere vista in rapporto all’uomo, perché essa costituisce il campo
e lo scenario in cui egli svolge la sua opera. La natura può essere piegata ai bisogni degli
uomini, ma non sfigurata e alterata. L’uomo e la natura si integrano. Kant videva nell’uomo
il punto di arrivo della disposizione teleologica dell’universo, in un rapporto di reciproco
completamento. Nella Critica del giudizio sottolineava espressamente: “tutte le creature
esisterebbero invano, se non vi fossero fra le creature stesse gli uomini…vale a dire che,
senza uomini, tutta la creazione sarebbe un semplice deserto, vano e senza scopo finale”12.
La natura quindi in funzione dell’uomo, ma non strumentalizzata, ma come campo di azione
in cui l’uomo realizza se stesso in quanto essere morale perché scopo finale della creazione.
Il Kant della terza Critica, superando contrasti e dualismi, giustificava la conoscenza e
l’agire in rapporto ad una visione complessiva dell’universo, nel quale al vertice si collocava
l’uomo, come soggetto di libertà e moralità. La natura assumeva cosi dignità morale in
quanto disposta a compiersi, e concludeva il suo sviluppo nella costruzione dell’uomo come essere libero.13 Se Kant riteneva che la natura senza le creature sarebbero vane e senza
nome, Nietzsche faceva esclamare a Zarathustra rivolto al sole: “O grande astro! Che cosa
mai sarebbe la tua felicità, se tu non avessi a chi splendere!”14
Tuttavia nel nostro tempo ci sono anche voci come questa: “la natura non poteva
correre un rischio maggiore di quello di far nascere l’uomo…nell’uomo la natura ha distrutto
se stessa e soltanto nella disposizione morale di quest’ultimo ha lasciato aperta un’incerta
possibilità…”15. Jonas ne Il principio responsabilità analizza il rapporto uomo natura
esaminando la situazione che si è creata negli ultimi tempi con l’esplosione tecnologica che
ha investito tutti gli aspetti della vita, in una natura saccheggiata e al limite delle risorse
per lo sfruttamento indiscriminato dell’uomo. Di fronte a questi fenomeni è lecito porsi la
domanda se le tradizionali formulazioni dell’etica rispondono ancora alle esigenze del nostro
tempo, o se queste siano ancora da intendere, in termini baconiani, come campo
dell’azione umana per l’affermazione del suo potere.
all’inizio del XXI secolo non si può più parlare di un generico diritto della natura al
rispetto, perché questa istanza si impone con la forza di un imperativo non più eludibile. È
in discussione l’esistenza di tutte le forme di vita sul pianeta. Kant vedeva una disposizione
teleologica, di subordinazione di una creatura all’altra nell’ordine della natura, non riducibile
a semplice “prodotto di quel meccanismo della natura”16. Sottolinea ancora più oltre che la
conoscenza più saggia e profonda di questo mondo, dell’organizzazione di questo regno,
suscita sempre questa domanda: “perché esistono queste creature?” se si risponde che
esse esistono per il regno animale che se ne nutre alla fine ci si potrebbe porre la domanda
“a che servono questi animali con tutti i precedenti regni della natura?” la risposta di Kant
non avrebbe dubbi: “per l’uomo, per i diversi usi che la sua intelligenza gli insegna a fare di
tutte le creature… perché egli è lo scopo ultimo della creazione… solo l’uomo, in quanto
essere morale è l’unico essere a cui non si può domandare perché esiste…l’unico essere il
quale possa farsi il concetto di scopo. L’uomo è lo scopo finale dell’universo…”17. Kant nella
terza Critica offriva una visione conclusiva dell’universo, nel quale le singole parti
acquistano significato nel tutto, perché è il tutto che determina la qualità delle parti, in cui
momento teoretico e riflessione pratica si incontrano consentendo all’uomo, in quanto
essere morale, e perciò dotato di libertà, di sottrarsi al condizionamento della natura, pur
facendo parte di essa, ma tuttavia emergendone per la sua struttura ontologica,
consentendogli un’apertura al sovrannaturale. È chiaramente una visione teleologica
dell’universo, e per quanto nella natura ogni creatura occupi un posto in un rapporto
ascensivo, nell’insieme però, nella totalità della natura, si intravede la presenza di un
ordine spirituale, di un disegno, un fine, che ne costituisce il filo conduttore, che si conclude
nell’uomo. Se la santità della natura umana esclude ogni subordinazione e
strumentalizzazione, la totalità degli esseri dell’universo, per quanto asservibili all’uomo,
lasciano trasparire una finalità latente, una spiritualità, che si realizza nell’uomo e che
questi può cogliere solo nella forma del giudizio riflettente estetico, e non con quello della
scienza.18 Le creature dell’universo acquistano in questa ottica un significato che le svincola
dal determinismo causale, costruito dalla scienza, per acquistare una loro dignità, che ne
impone la subordinazione all’uomo ma anche il rispetto. L’uomo nato dalla natura è un
prodotto della natura, ed oggi rappresenta la minaccia più pericolosa alla sua
sopravvivenza. Egli che per natura è il meno dotato dei viventi, incapace di sopravvivere in
qualsiasi ambiente, per mancanza di organi e istinti specializzati, ha trovato nella tecnica lo
strumento per sopravvivere e dominare la natura. La tecnica ha consentito all’uomo di
sopravvivere, ma gli ha anche conferito un potere distruttivo.19
Il trionfo dell’economia di mercato, la globalizzazione hanno accelerato nell’ultimo secolo
la forza espansiva della scienza e della tecnica determinando il sorgere di vasti movimenti
di opinione pubblica riconducibili all’ecologia, a movimenti ambientalisti, aventi a loro scopo
la tutela dell’ambiente e dei viventi. Tuttavia l’uomo nella sua dimensione storica non
poteva non andare incontro al progresso e alla conseguente trasformazione di se stesso e
del mondo. Gli strumenti della tecnica hanno prolungato in maniera smisurata la capacità di
azione dell’uomo, facendolo cadere nell’uso eccessivo di questa. Che fare? Un ritorno a
un’economia rurale autarchica? Un ritorno alla terra, con la conseguente distruzione della
civiltà, della tecnologia, che hanno portato l’uomo a liberarsi, almeno in parte da miserie,
malattie e superstizioni? Nessuno lo ritiene possibile, e tuttavia il dilemma rimane: o si
ferma l’attuale corsa verso l’abisso bloccando gli eccessi della tecnologia, contenendola in
limiti tollerabili, o l’umanità prepara la propria fine. L’umanità di oggi ha una visione più
concreta dei problemi che concernono il mondo, è fiduciosa nelle capacità della scienza e
della tecnologia, e tuttavia questa fiducia sconfinata ed ingenua costituisce il suo punto di
forza ma anche la sua debolezza, di fronte ai pericoli che incombono su di essa. L’uomo
rimane sempre il dominatore dell’universo, ma deve sviluppare una convivenza di vita con i
viventi che lo circondano, una più umana partecipazione alla vita del tutto. Il rispetto per la
natura, per la vita in tutte le sue forme, per acquistare efficacia dovrebbe tradursi in un
imperativo della coscienza ed essere, in quanto tale, universalmente valido. Sulla scorta
dell’ispirazione della norma kantiana: “agisci in modo da rispettare in te e negli altri, la
natura di cui fai parte, sempre come fine e mai soltanto come mezzo”. Se l’uomo
rappresenta in sé un fine assoluto, il solo a cui non si può chiedere perché esista, in quanto
già in sé possiede la propria finalità, la natura a sua volta, pur se considerata nella sua
disposizione teleologica, realizza in ogni essere un’intrinseca finalità, che le conferisce un
significato in rapporto al tutto.20 Il rispetto che si chiede per la natura dovrebbe rispondere
ad un ‘esigenza che scaturisce dalla coscienza degli uomini, in quanto ordine e finalità,
perché rientra nella vita del tutto, che nell’insieme, come nelle singole parti, dà il suo
contributo alla continuazione della vita. Un imperativo non limitato al presente, ma
proiettato nel futuro, in vista della salvaguardia delle generazioni future, alle quali non si ha
il diritto di precludere la gioia di venire al mondo. Che può fare la filosofia? Tentare di
risvegliare le coscienze appunto, far sentire agli uomini che se nell’ordine delle creature si
riscontra una disposizione teleologica, una subordinazione dell’una all’altra, ciò non
giustifica la loro sopraffazione da parte dell’uomo. Se è utopistico pensare di tornare
indietro, può essere realistico pensare invece di fermarsi, per non sconvolgere
ulteriormente il già alterato equilibrio che la natura ha faticosamente costruito nel corso di
millenni. Nella terza Critica dove Kant si occupa della finalità esterna o, meglio, relativa
della natura, distinta non solo dalla finalità soggettiva ed estetica di cui parla nella prima
parte, ma anche dalla finalità interna, ossia da quella finalità che sta alla base degli esseri
viventi, degli organismi, siano essi piante, animali od uomini. Mentre tratta del concetto di
finalità relativa, definita come “la convenienza di una cosa per un’altra”21, finalità relativa
che sta alla base, che fonda scienze quali la geologia, la paleontologia, l’anatomia
comparata e la geografia fisica e antropica, compie alcune importanti affermazioni
ecologiche che possono essere sintetizzate col dire che l’uomo va visto sempre all’interno
della natura, in quanto essere morale può venire considerato lo scopo finale della
creazione. L’aspetto che ci riguarda è quello morale. Lo afferma lo stesso Kant in alcuni
passi significativi. “anche il giudizio più comune degli uomini è concorde nel ritenere che
l’uomo può essere lo scopo finale della creazione, in quanto essere morale, qualora il
giudizio venga lasciato soltanto su questa questione. Lo scopo finale è soltanto un concetto
della nostra ragione pratica che non trova riscontro nella realtà empirica in vista di un
giudizio teoretico della natura”22. Non è possibile nessun uso di questi concetti, se non per
la ragione pratica secondo leggi morali. Che vuol dire questo? In questi passi la natura ci
viene presentata come un “fine” per cui l’uomo non è autorizzato a fare scempi che recano
sempre maggiori danni all’umanità. Anzi, Kant ci dice, l’uomo deve fare in modo che
“terreno coltivabile” si estenda, per sé, per le piante e per gli animali: deve aiutare la
natura a crescere e a procreare. Afferma ancora: “i fiumi trasportano varie terre utili alla
crescita delle piante, che depositano talvolta all’interno dei paesi, spesso anche alla loro
foce. I flutti spandono in questo fango sulle coste del paese o lo depositano sul lido….la
maggior parte degli accrescimenti di terreno sono stati compiuti in questo modo dalla
natura stessa, la quale continua ancora, sia pur lentamente, questo lavoro.”23 Dunque le
affermazioni Kantiane hanno un ben preciso significato ecologico, denuncia l’azione
irresponsabile dell’uomo sulla natura e contro la natura. “per dare un esempio della
convenienza di certe cose della natura come mezzo per altre creature…non c’è terreno più
favorevole ai pini di un terreno sabbioso. Ora l’antico mare, prima di ritirarsi dalla terra, ha
lasciato molti strati sabbiosi sulle nostre contrade del Nord, sicchè su questo terreno, prima
così inadatto ad ogni coltura, hanno potuto crescere varie foreste di pini, e ci si può
chiedere se questo deposito primitivo di strati di sabbia era un fine della natura a vantaggio
delle foreste di pini possibili su questo terreno”24. Kant era solito riprendere queste tesi
nelle sue lezioni di geografia fisica, che tenne dal 1756 al 1796, quando era ancora “libero
docente”. In queste lezioni il filosofo danese affrontò il tema delle cause dei movimenti lenti
ed uniformi che si verificano sul nostro pianeta. Egli era solito parlare di cinque cause dei
cambiamenti lenti che ha subito la terra e che in parte durano ancora. Le cause di questi
movimenti sono costituite: la prima dai terremoti e dai vulcani, la seconda dalla pioggia e
dalla neve, la terza dai fiumi, e infine, la quarta dal mare e la quinta dai venti. Alla quinta
ed ultima causa, costituita dai venti, Kant afferma esplicitamente che spesso i venti
“spianano monti interi, particolarmente quando questi sono di un suolo leggero…. e quando
gli uomini sono stati abbastanza sconsiderevoli da sterminare i boschi” 25. Non è senza
significato questa affermazione kantiana dell’opera umana sulla natura e che offre un
mirabile esempio tra conoscenza scientifica e riflessione filosofica.
La prospettiva teleologica nella concezione kantiana della natura è richiamata con forza,
in virtù della presenza degli esseri in cui “nulla è inutile e tutto è funzionale”. Ma quale è lo
status epistemologico di questa finalità? Non c’è una risposta definitiva e data una volta per
tutte, perché il fatto di pensare un organismo, o l’intera natura, in una prospettiva
teleologica, non mi fa conoscere nulla di più di quanto già conosco; tuttavia senza di essa
non potrei pensare e comprendere nessuno dei due come un tutto, e mi mancherebbe la
molla euristica per completare la spiegazione meccanica. Le due prospettive si situano su
piani diversi, incontrandosi però su quello metodologico che potrebbero dar luogo ad una
feconda sinergia, o quanto meno fornire il filo conduttore della ricerca, la molla della
creatività scientifica, che intravedendo un’ipotesi di unità affiderebbe all’osservazione e
all’esperimento il compito di metterlo alla prova. Sia l’uomo comune sia lo scienziato non
possono fare a meno di guardare la natura organica come ad un grande sistema razionale,
anche quando si rifiutano di pronunciare la parola “finalità” e di fare ipotesi sul posto
occupato dall’uomo nella natura. Kant aveva visto l’insufficienza della scienza del suo
tempo di fronte alle grandi domande sul cosmo e sulla vita. È interessante confrontare le
sue intuizioni con quelle emerse dal fronte della ricerca fisica più avanzata sui temi della
complessità, del tempo e dell’irreversibilità. Per esempio Prigogine, prospetta una “nuova
alleanza” tra le scienze dell’uomo e quelle della natura, il cui centro di gravità si
sposterebbe sulla chimica e la biologia, sullo studio delle “strutture dissipative”. In questi
casi, in condizioni lontane dall’equilibrio, si assiste ad uno spontaneo emergere dell’ordine
dal disordine, che si alimentano di un flusso di energia provenienti dal mondo
esterno:«oggi ci scopriamo in un mondo in cui la reversibilità ed il determinismo si
applicano soltanto a semplici, limitati casi, mentre l’irreversibilità e l’indeterminazione sona
la regola»26. La “nuova alleanza” mira a superare l’antica contrapposizione tra una scienza
della natura che ignora l’uomo e il suo mondo e la gnosis che si propone come un sistema
assoluto.
Senso filosofico della questione ecologica
La filosofia è chiamata a riflettere non solo su considerazioni di ordine etico, filosofico e
sociologico, ma anche sui nuovi parametri scientifici. Infatti il riconoscimento della crisi
ambientale è conseguenza dello sviluppo della scienza e della tecnica, ambito che viene
posto sotto accusa quale responsabile degli squilibri dell’habitat. Tuttavia è possibile
individuare nella storia della scienza del nostro secolo numerose trasformazioni concettuali
che preludono ad un diverso atteggiamento nei riguardi del mondo naturale.
La scienza del XX secolo ha preso coscienza dei propri limiti, ossia i limiti delle
descrizioni che essa può elaborare del reale; la fisica atomistica si è vista costretta a
rivedere i propri principi in relazione alle nuove teorie, la meccanica dei quanti e la
relatività. Ma mentre la biologia ha abbandonato il modello cartesiano del mondo come
macchina, assumendo il modello evolutivo che comprende il mutamento e il discontinuo, in
fisica questo ha significato la rottura della linearità. La fisica quantistica e la relatività
generale riconoscono, ormai, esplicitamente, l’inaccessibilità di certe zone, :«il mondo
oggettivo sembra non esistere al di fuori della coscienza che ne determina le proprietà;
l’universo che ci circonda diventa sempre meno materiale»27. La vera novità non consiste
nella sostituzione di una teoria scientifica a un’altra, ad esempio della teoria della relatività
alla fisica newtoniana, ma nella scoperta che tutte le teorie scientifiche sono solo
approssimazioni della vera natura della realtà, e che ogni teoria è valida solo per un certo
ambito di fenomeni. 28 Qualsiasi teoria fisica è sempre provvisoria, nel senso che è solo
un’ipotesi, cioè una teoria che non può mai essere definitivamente provata. Per quante
volte i risultati di esperimenti si mostrino in accordo con una teoria, non si può mai essere
sicuri che un prossimo risultato non la contraddica. D’altra parte, si può confutare una
teoria trovando anche una sola osservazione che sia in disaccordo con le sue predizioni.
Scrive testualmente Popper: «sono pienamente d’accordo che non c’è alcuna certezza
nelle teorie (che possono sempre venir confutate) e sono d’accordo che sono strumenti
[….] che i nostri controlli non possono mai essere esaurienti»29. La fisica moderna ci rivela
la struttura dell’universo e ci dimostra che non si può scomporre il mondo in unità esistenti
indipendentemente. Mano mano che penetriamo nella materia la natura si mostra come un
complesso tessuto di relazioni fra le varie parti di un tutto unificato.30
La scienza è chiamata a dare il suo contributo revisionando i parametri che hanno
guidato le ricerche, integrandoli con nuove conoscenze e abbandonando, dove occorre, gli
errori epistemologici, ad esempio il paradigma dualistico indicato da Prigogine come la
causa profonda della falsa interpretazione del rapporto uomo-natura. Indubbiamente la
tendenza a intendere la realtà dualisticamente è una forma di organizzazione mentale di
chiara origine cartesiana, ma impedisce di cogliere la totalità e il giusto valore di ciascuna
parte, non tiene conto delle connessioni globali tra la gestione dell’ambiente e il
funzionamento delle relazioni sociali. L’ecologia, sostiene Morin, deve integrare
nell’ecosfera la sfera antroposociale, ossia ciò che lo sviluppo antroposociale esercita
sull’ecosistema e la biosfera.31 In questo modo l’ecologia induce a mutare consuetudini di
vita assumendo carattere esistenziale, contribuendo alla trasformazione non solo
dell’immagine della natura, ma anche di quella dell’uomo nel mondo. L’ambiente, come
sottolinea Salvatore Veca, è un veicolo primario della socialità, ossia l’elemento della
comunicazione intersoggettiva, perché è nell’esperienza dell’ambiente, nelle sue coordinate
spaziali e temporali, che si costituisce l’estraneità corporea, la comunicazione e quindi la
cultura.32
È risaputo secondo una massima vichiana che, quando la visione dominante che
cementa una cultura entra in crisi, la coscienza regredisce a contenuti più antichi, cercando
fonti di sopravvivenza che offrono spunti di rinascita.33 Il primitivismo tende a mitizzare la
natura suggerendo una sorta di nuova religiosità e proponendo una rappresentazione della
natura incontaminata che ricorda un paradiso perduto. Capra stesso prendendo spunto da
un’analisi dei caratteri scientifici della nostra epoca scrive che: «l’idea che l’individuo sia
connesso al cosmo si rinviene nella radice latina della parola religione, religare, che vuol
dire legare, fissare 34, e individua le radici di una nuova sensibilità nelle grandi tradizioni
spirituali, come per esempio il taoismo, che associa la coscienza ecologica al rifiuto di tutti i
valori delle società moderne. Questo ritorno alla natura che determinerebbe «il passaggio
dalla crescita materiale alla crescita interiore»35 si identifica in un bisogno psicologico della
nostra epoca, epoca di crisi delle ideologie e dei fondamenti. Questi estremismi altro non
sono che esasperazioni di uno dei due modelli concettuali che sono all’origine della
riflessione filosofica contemporanea sul rapporto con la natura e sulle sue degenerazioni,
ossia l’analisi heideggeriana del dominio tecnico sulla natura quale esito fallimentare nella
storia dell’occidente, e la Scuola di Francoforte con la sua “critica della ragione
strumentale”, la quale, pur argomentando, che la “razionalità scientifica”, assunta come
modello del progresso, costituisce una negazione dell’uomo e della natura nella loro
essenza autentica, perché si propone il solo obiettivo del dominio, riconosce che la società
tecnologica genera “l’uomo a una dimensione” e concepisce la natura soltanto come
strumento per l’incremento del potere. Tuttavia riconosce che questo modello concettuale è
insostituibile. Un mondo senza tecnica è un’utopia, anzi, essa è necessaria per affrontare i
dissesti ecologici.
Piuttosto che demonizzare l’idea di progresso, potrebbe essere opportuno orientarsi
verso una visione culturale che percepisce l’uomo come una monade co-appartenente al
cosmo e alla natura perché «l’individualità che si assolutezza è sempre una coscienza
infelice»36. Occorre un ripensamento della storia degli ultimi secoli di progresso scientifico:
se la spinta al dominio della natura trova il suo compimento nell’autodistruzione, il risultato
di una condotta che si è supposta ispirata alla razionalità, imputata, allora, non è la
“razionalità scientifica” ma il suo uso distorto. La vera razionalità è venuta a mancare
quando, non si è tenuto conto dell’insieme, ossia della totalità delle interconnessioni
complessive, e si è optato per una parcellizzazione rispondente a interessi particolari.
È giusto allora riecheggiare l’invito di G. Von Wright, ossia un “razionalismo
demitizzato”.
La crisi dell’idea di progresso non vuol dire rinuncia, ma un «richiamo ad una forma di
razionalità che si è atrofizzata nell’eccessivo sviluppo della ragione nel suo uso
strumentale»37.
Attualmente la cultura dell’esperienza sta riscoprendo la dimensione della naturalità
orientandoci verso una visione ecologica, è sempre più forte la voce della natura che
richiama ad un recupero della naturalità della vita. Forse il problema è di un mutamento di
coscienza, adattando e non distruggendo il progresso, adeguando le conquiste tecniche
all’esigenza di naturalità dell’uomo.
Aticolo inserito nel sito di
www.filosofia-ambientale.it
nell’aprile 2006
1 Crisi del valore o valore della crisi, considerazioni sul diritto e lo stato dei nostri tempi”, in”1989 Rivista di diritto
pubblico e scienze politiche” 1996, pp. 273-292.
2 Cfr. Paura globale – Trasformazioni della paura nell’età della globalizzazione, in S. Maffettone, Etica delle relazioni
internazionali, Luiss University Press, Roma 2003.
3 E. LÈVINAS, Nomi propri, 1976, tr. it. a cura di F.P. Ciglia, Marietti, Torino 1984, pp.3-4.
4 J.PASSMORE, La nostra responsabilità per la natura, Feltrinelli, Milano 1986.
5 È significativo quanto osserva Lorenz nel suo saggio «…una sorta di meccanismo nevrotico coatto, ovvero la
semplice possibilità tecnica di realizzare un progetto viene scambiata con il dovere di porlo effettivamente in atto». K.
LORENZ, Il declino dell’uomo, Arnoldo Mondadori, Milano 1994, p. 16.
6 K. LORENZ, Il declino dell’uomo, op. cit. p. 7.
7 G. CERONETTI, Difesa della luna e altri argomenti di miseria terrestre, Milano 1971, p. 125.
8 G. SERMONTI, Il crepuscolo dello scientismo, critica della scienza pura e delle sue impurità, Milano 1971, p. 245.
9 L. MUMFORD, Tecnica e cultura, tr. it. Milano 1968, p. 238.
10 Cfr.: C.F. von WEIZSACKER, L’immagine fisica del mondo, Milano, Fabbri editore 1967, pp.274-276.
11 E. HOBSWAM, Il secolo breve dal 1914 al 1991, BUR Editore, Milano 2001.
12 I. KANT, Critica del giudizio, a cura di Alberto Bosi, UTET Torino 1993, pp365-366.
13Cfr. I. KANT,Critica del giudizio, op. cit., pp. 370-372.
14 F. NIETZSCHE, Così parlò Zarathustra, trad. it. di Alberto Romagnoli, Roma, Casini, 1955.
15 H.JONAS, Il principio responsabilità, un’etica per la civiltà tecnologica, trad. it. di Paola Rinaudo, a cura di Pier
Paolo Portinaio, Einaudi, Torino 1990, p. 177. V. HOSLE, Filosofia della crisi ecologica, trad. it. di P. Scibelli, Einaudi,
Torino 1992.
16 . Cfr. KANT, Critica del giudizio, op. cit., p. 340.
17 . Cfr. KANT, Critica del giudizio, op. cit., pp. 395-396-404-405.
18 . Cfr. KANT, Critica del giudizio, op. cit. 353-354.
19 Cfr. A. GELHEN, L’uomo, la sua natura e il suo posto nel mondo, trad. it. di C. Mainoldi, Feltrinelli, Milano 1983,
pp.100-112; M.T. Pansera, L’uomo progetto della natura, Studium, Roma 1990, p. 21.
20 Cfr. KANT, Critica del giudizio, op. cit. 240-253.
21 Cfr. KANT, Critica del giudizio, op. cit. 337-340.
22 Cfr. KANT, Critica del giudizio, op. cit. 341-343.
23 Cfr. KANT, Critica del giudizio, op. cit., p. 338.
24 Cfr. KANT, Critica del giudizio, Ibidem.
25 Cfr. KANT, Critica del giudizio, op. cit., pp. 380-385.
26 I. Prigogine, La nuova alleanza, metamorfosi della scienza, Einaudi, Torino 1999, p. 10.
27 J.GUITTON, Dio e la scienza, verso il metarealismo, Bompiani, Milano 1994, p. 4.
28 F. CAPRA, The Turninq Point, New York, Simon and Schuster 1982, tr. it. Il punto di svolta, Feltrinelli, Milano
19912, p. 87.
29 K.POPPER, Scienza e filosofia, Torino 1998, p. 23.
30 Cfr. F. CAPRA, The Turninq Point, op. cit. pp. 69-70.
31 Cfr. E. MORIN, L’écologie généralizée, Paris, Seuil 1980, tr. it. Il pensiero ecologico, Firenze 1998, p. 93.
32 S. VECA, Implicazioni filosofiche della nozione di ambiente, “Aut aut” n. 105-6, 1968, p. 176.
33 Cfr. J. HILLMAN, Saggio su Pan, Editore Adelphi, Milano 1991, p. 11.
34 F. CAPRA, The Turninq Point, op. cit. p. 340.
35 Ibidem, p. 341.
36 D. CROCCO, La natura allo specchio, Sul senso filosofico della questione ecologica, “Paradigmi”n. 23-1999, p.
342.
37 G. VON WRIGHT, Il mito del progresso, “Paradigmi” n. 22-1990, p.176.