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Attiriamo su di noi la fortuna o la sfortuna con le vibrazioni del nostro campo energetico

di Francesco Lamendola - 29/01/2010

 

Da sempre gli esseri umani si interrogano sul ruolo che, nella loro vita, gioca un fattore assolutamente imponderabile e fortuito: la fortuna.
Uno dei più forti pensatori del Rinascimento, Machiavelli, costruisce il suo pensiero politico come risposta ai capricci della Fortuna: ed elabora, per contrastarla, il concetto di Virtù, ossia un insieme di prudenza, lungimiranza, abilità, coraggio e prontezza di riflessi, mediante il quale l’uomo, e particolarmente l’uomo politico, può antivedere o, quanto meno, parare i colpi della sorte avversa. La Fortuna, per lui, è paragonabile ad un fiume che, gonfiandosi per le piogge, straripa e invade i campi, devastandoli; ma l’uomo, mediante la Virtù, può costruire gli argini e così scongiurare, o limitare, i danni causati dalla furia del fiume.
A quanto pare, la cultura occidentale si è sempre mossa all’interno della logica antinomica fortuna-sfortuna: tipico esempio della rigidità concettuale e, al tempo stesso, della ristrettezza di orizzonti che la caratterizzano, frutto di una valutazione esagerata del Logos strumentale e calcolante su ogni altra forma di indagine e comprensione della realtà.
Forse, invece di domandarci perché certe persone siano così fortunate o così sfortunate nel corso della loro vita, faremmo meglio a domandarci se la fortuna esista realmente, nei termini in cui solitamente ce la rappresentiamo; o se essa non sia, invece, solo il nome che diamo alla nostra incapacità di scorgere i profondi legami che allacciano ogni singolo ente al complesso del cosmo vivo in cui tutti si muovono, da un lato; e, dall’altro, all’Essere dal quale ciascuno proviene e al quale ciascuno è avviato a fare ritorno.
Dunque: se ammettiamo, e sia pure come ipotesi di lavoro (ma ne abbiamo già parlato in numerosissime occasioni), di non essere qui per caso; anzi, se ammettiamo che nulla avviene per caso, ma che ciascun ente è chiamato all’esistenza per rispondere ad una chiamata e per svolgere un compito preciso; e se ipotizziamo che tale compito consista in null’altro che nella propria realizzazione spirituale, che coincide con l’armonia dell’ordine cosmico: allora ne consegue che parlare di “fortuna” e “sfortuna”, così come di solito le intendiamo, è semplicemente una cosa priva di senso.
Non esistono la “fortuna” o la “sfortuna”, per il semplice fatto che non esiste il caso; e non esiste il caso, perché tutto risponde a una grande legge universale: la legge del ritorno degli enti verso la dimora dell’Essere, da cui provengono; ritorno che essi devono realizzare con le proprie forze, inciampando e cadendo, se necessario, ma sempre per rialzarsi e riprendere la via, schiarendo via via i propri pensieri ed il proprio orizzonte e aumentando la propria consapevolezza: se non in questa vita, in un’altra. L’universo non ha fretta.
Oltre a ciò, bisognerebbe sempre ricordare che i nostri pensieri non sono che un pallido e debole tentativo di penetrare il mistero dell’Essere; e che, pertanto, il nostro giudizio s’inganna continuamente, perché giudica nell’immediato e secondo le apparenze; mentre la verità delle cose emerge, in molti casi, solo col tempo e ciò che, al primo sguardo, sembrava “sfortuna”, si rivela poi, in prospettiva, la cosa migliore che potesse capitare a quella data persona.
Senonché - e qui il linguaggio tende a tradirci - il punto è che le cose non “capitano”, che gli eventi non piovono dall’alto o da chissà dove, su noi poveri mortai inconsapevoli. Al contrario, ogni cosa viene chiamata da noi stessi, consapevolmente o inconsapevolmente; ogni cosa ci viene incontro oppure si allontana da noi, a seconda di un messaggio ben preciso che noi emettiamo e che, se pure può sfuggire alla nostra facoltà razionale, non sfugge però ai suoi naturali destinatari: cose, animali o persone.
Questo messaggio è formato dalle nostre esigenze e dalle nostre aspirazioni profonde, dalle nostre paure e dalle nostre speranze, dal nostro attaccamento o dal nostro disinteresse; in ogni caso, è un messaggio che raggiunge dritto lo scopo, nel senso che attira su di noi, inevitabilmente, gli effetti impliciti nella sua natura.
In altre parole, siamo noi stessi a chiamare, letteralmente, la nostra fortuna o la nostra sfortuna; o, per dir meglio, a chiamare quegli eventi, quelle persone e quelle situazioni che, in un modo o nell’altro, contribuiranno alla nostra conquista della consapevolezza spirituale, oppure che la ritarderanno, ma sempre assecondando la nostra intima verità. Quindi, noi non possiamo attirare su di noi un destino migliore o peggiore di quello che è commisurato al nostro grado di consapevolezza e al nostro desiderio e alla nostra capacità di verità interiore.
Ciò non significa che le disgrazie siano il risultato dei nostri “peccati”, come esemplificato nella pedagogia ebraica del Libro di Giobbe. Le disgrazie - ammesso che siano veramente tali, e che non appaiano tali per un nostro difetti di prospettiva - sono l’effetto di energie negative che il nostro campo emozionale attira su di sé, come un abito nero attira i raggi solari in misura maggiore di un abito bianco.
Attenzione: non si tratta semplicemente di un fatto della volontà, come vorrebbero farci credere molti sedicenti esperti di tendenza New Age e molti improvvisati maestri della liberazione interiore. Attrarre energie positive non è una questione di tecnica; o, se lo è, lo è solo in via subordinata e accessoria. Il fatto è che noi attiriamo energie positive quando noi stessi emettiamo energie positive; e che attiriamo energie negative allorché, a nostra volta, produciamo energie negative. Ma la volontà, in tutto questo, c’entra poco o niente; perché il nostro campo energetico non è il risultato di una strategia da tavolino, ma di tutto un modo di essere, che si realizza attraverso un determinato cammino spirituale e che si paga in moneta sonante, attraverso i severi esami della vita, giorno per giorno e ora per ora.
Si impara cadendo, ferendosi e collezionando cicatrici; altri metodi, più o meno “soft”, non ce ne sono, checché dicano certi pretesi “maestri” a un tanto l’ora. Chi afferma il contrario o è uno sciocco, o è un ciarlatano; oppure entrambe le cose insieme.
Comunque si giri o si rigiri la questione, si torna sempre alla stessa conclusione: noi dobbiamo imparare a diventare il nostro proprio maestro interiore; e lasciamo perdere il “channeling” e tutte le altre discutibili pratiche basate sulla ricerca di facili (ma pericolose) scorciatoie, come se la chiarificazione interiore potesse venirci data dall’esterno, per mezzo di qualcun altro. Questa sarebbe una contraddizione in termini, lo capisce perfettamente anche un bambino: la chiarificazione interiore non può venire che da dentro.
Uno degli esempi più impressionanti in proposito è contenuto nel bel libro di Jim Corbett «Il leopardo che mangiava uomini» (titolo originale: «The man-eating leopard of Rudraprayag», Oxford University Press; traduzione italiana di Pietro leoni, Milano, Mondadori, 1951, 1967, pp. 208-209) e gli fu raccontato da un pundit indiano.
Precisiamo che non si tratta di un racconto fantastico, ma di una esperienza assolutamente vera e reale, riferita - oltretutto - da un uomo che, qualche tempo dopo, subì personalmente un attacco da parte del leopardo antropofago e che ne uscì vivo per miracolo, grazie alla sua eccezionale prontezza di riflessi; insomma, di una storia narrata da un soggetto tutt’altro che impressionabile e che conosceva bene le circostanze ambientali di cui parla.
«Uno dei suoi racconti riguardava una donna che aveva conosciuta e che aveva abitato in un villaggio più lontano, lungo la strada. Dopo aver fatto, un giorno, visita al bazar di Rudraprayag, quella donna erra arrivata a Golabrai la sera tardi. Temendo di non poter raggiungere la sua casa prima che annottasse,  ella pregò il pundit di permetterle di passare la notte nel ricovero. Ciò le fu concesso, e il pundit le suggerì anche di dormire davanti alla porta del magazzino in cui egli teneva i generi alimentari che venivano comprati dai pellegrini, poiché, così aveva detto il pundit, sarebbe stata allora protetta, da un lato, dalla stanza, e dall’altro lat da cinquanta o più pellegrini che passavano la notte ne ricovero.
Il ricovero era costituito da una tettoia coperta di paglia, aperta dal lato più vicino alla strada, e difesa da una palizzata dal lato più vicino alla collina. Il magazzino era situato a metà della tettoia, ma era addossato verso la collina, e non ingombrava il pavimento della tettoia stessa.  Perciò, quando la donna si coricò vicino alla porta del negozio, vi erano file di pellegrini coricati, fra lei e la strada. A un certo momento, durante la notte, una delle donne dei pellegrini si mise ad urlare, e disse di essere stata punta da uno scorpione. Non vi erano lanterne sotto mano, ma, con l’aiuto di alcuni fiammiferi, il piede della donna fu esaminato, e fu trovata su di esso una piccola graffiatura. Brontolando che la donna aveva fatto gran rumore per nulla, e che in ogni caso il sangue non sarebbe mai sgorgato dalla puntura di uno scorpione, i pellegrini tornarono a coricarsi e si riaddormentarono.
Al mattino, quando i quindi arrivò dalla sua casa sulla collina, al di sopra dell’albero di mango, vide un “sari”, di solito portato dalle donne delle colline,che giaceva sulla strada davanti al ricovero, e su quel “sari” vi erano macchie di sangue. Il pundit aveva dato alla sua amica quello che considerava il post più sicuro in tutto il ricovero, eppure, con cinquanta e più pellegrini coricati attorno a lei, il leopardo aveva camminato su tutti i dormienti, aveva ucciso la donna e, ritornando sulla strada, aveva fortuitamente graffiato il piede di un’altra donna che faceva parte del gruppo dei pellegrini. La spiegazione data dal pundit circa la causa per la quale il leopardo aveva scartato tutti i pellegrini e che aveva portato via la donna della collina fu che questa era l’unica persona del ricovero che portasse quella notte una veste colorata. Questa spiegazione non è convincente e, se non fosse per il fatto che i leopardi non cacciano servendosi dell’olfatto, la mia spiegazione sarebbe stata invece che, fra tutte le persone del ricovero, la donna della collina era la sola che avesse un odore familiare, cioè casalingo. Non s trattava che di cattiva fortuna, o e destino? O forse, essendo quella donna l’unica fra i dormienti che capisse veramente il pericolo proveniente dal dormire in una tettoia aperta, aveva, in qualche modo inspiegabile, palesato il suo timore allo stesso antropofago, attirandolo su di sé?»
Questo è uno di quei fatti - fatti, come piacciono ai positivisti, non teorie - che illustrano nella maniera più chiara i concetti che ci siamo sin qui sforzati di esporre.
Perché mai un leopardo antropofago dovrebbe andare a scegliere la sua prossima vittima in fondo a una massa di oltre cinquanta persone, con il rischio di farsi scoprire e di dover battere in ritirata a mani vuote (si fa per dire)? Perché mai non dovrebbe accontentarsi di una vittima qualsiasi, la più esposta ai suoi artigli, la più facile da catturare: insomma, una di quelle persone che dormono sul lato esterno del portico? Perché camminare, letteralmente, su decine di corpi addormentati, facendo ricorso a un vero miracolo di leggerezza e di agilità, sia all’andata che al ritorno, al solo scopo di afferrare la donna che dorme nella posizione più sicura: la più interna e riparata; e ciò contro ogni ragionevole convenienza e perfino, in apparenza, contro il suo più profondo istinto della caccia e perfino della conservazione?
Sono domande che esigono una risposta e cui l’amante dei fatti, il materialista in primis, dovrebbe sentirsi sfidato a trovare una risposta.
Corbett ci informa che i leopardi non vanno a caccia con l’ausilio dell’olfatto: bisognerebbe escludere, perciò, la pur facile spiegazione che la paura possieda un suo proprio odore, e che il nostro organismo, quando siamo spaventati, secerna determinate sostanze chimiche, il cui odore sfugge al nostro olfatto, ma non a quello, acutissimo, degli animali da preda. Del resto, non si dice la stessa cosa dei cani feroci: che essi attaccano gli uomini che mostrano paura avanti al loro minaccioso abbaiare e ringhiare? E i cani, si sa, hanno una vista debole, ma un olfatto molto sviluppato. Tuttavia, ripetiamo, un esperto cacciatore ci assicura che l’olfatto non è lo strumento di cui si serve principalmente il leopardo per andare a caccia. E allora?
A un livello più profondo, l’odore della paura non è altro che la manifestazione fisica di un atteggiamento mentale e spirituale. Il fatto che solo quella donna, fra tutti i cinquanta e più pellegrini che dormivano sotto la tettoia, fosse realmente consapevole del pericolo rappresentato dalla belva che si aggirava nei paraggi, può aver fatto di lei un catalizzatore involontario di energie negative.
Ella era impaurita, terrorizzata e si aspettava, in un certo senso, quel che poi le è accaduto: è stato questo suo campo energetico negativo, a bassa frequenza, ad attirare su di lei l’attenzione del leopardo; su di lei e non su uno qualsiasi degli altri esseri umani che si trovavano lì accanto a lei, in quella notte. Senza saperlo e senza volerlo, la donna ha letteralmente chiamato il leopardo; e questi ha ricevuto il messaggio e vi ha risposto.
Quante volte, nella nostra vita, noi ci comportiamo come quella donna: ci mettiamo, cioè, nello stato d’animo di chi si aspetta pericoli, contrarietà e sofferenze; e poi, regolarmente, facciamo l’esperienza di quelle cose, come se ci fossero venute incontro in seguito ad una nostra, paradossale chiamata?
Ecco perché è importante assumere un atteggiamento lieto e positivo nei confronti della vita, colmo di stupore e gratitudine per le meraviglie dell’esistente; e non permettere che la negatività, per quanto derivante da situazioni reali, finisca per dominare ossessivamente i nostri pensieri ed i nostri sentimenti.
«Chiedete e vi sarà dato - è scritto nel Vangelo -; bussate e vi sarà aperto; cercate e troverete.» Certo, dobbiamo imparare e cercare nella giusta direzione, e a chiedere nel modo giusto. Non è forse questo il significato del nostro pellegrinaggio terreno?