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Vuoto

di Francesco Lamendola - 05/02/2010

 

«Vuoto» è una nozione profondamente estranea al pensiero e alla cultura occidentali.
Nella nostra cultura, essa si associa all’idea di privazione, di mancanza e quindi, in ultima analisi, di indigenza ed impotenza. Si usa dire: «Oggi mi sento vuoto», per indicare uno stato d’animo di triste apatia, di scoraggiamento e di inerzia.  Si dice anche: «una testa vuota», per indicare una persona incapace di ragionare, del tutto negata al pensiero razionale, ma anche priva di valori, di ideali, di autentici punti di riferimento; insomma, una persona sulla quale non si potrebbe mai fare alcun affidamento. Oppure si dice: «Quella è una persona vuota», per emettere un giudizio definitivo e inappellabile sull’intero modo di essere di un individuo, intendendo qualificarlo come totalmente superficiale, frivolo e insensibile. Si dice anche, di una certa giornata, che è stata «vuota», per significare che in essa non è accaduto niente di bello o di desiderabile, niente di interessante o di stimolante, niente di ciò che avrebbe potuto renderla diversa e farla emergere dal grigiore di tante altre giornate, tutte ugualmente opache.
Nella storia dell’arte occidentale si parla anche (con particolare riferimento alla scultura in bassorilievo tardo-antica ed altomedievale) di un vero e proprio «horror vacui», di un orrore del vuoto, che consiste nella tecnica di riempire ogni spazio, ogni superficie, anche la più piccola, con figure, elementi geometrici o naturalistici di carattere decorativo; una vera e propria ossessione da riempimento, come se il vuoto fosse un fattore negativo da neutralizzare ad ogni costo, con fervore quasi religioso. Ne esistono innumerevoli esempi, tanto che si avrebbe l’imbarazzo della scelta nell’indicarne uno quale caso esemplare: il primo che ci viene in mente è la cosiddetta Ara di Ratchis, opera longobarda conservata nel Duomo di Cividale. Ma si tratta, ripetiamo, non di uno stile, bensì di una particolare sensibilità estetica che, dal piano formale, sembra alludere a più profondi significati spirituali. Insomma, l’Occidente rifugge dal vuoto; ne ha un istintivo ribrezzo, quasi una atavica paura.
Se, poi, ci interroghiamo sulle ragioni di questo ribrezzo e di questa paura, che pervadono la filosofia e l’arte,  fino alle varie correnti attivistiche e vitalistiche del pensiero moderno e fino alle più recenti manifestazioni (pseudo) artistiche, come la sedicente Pop Art - che non ha proprio nulla di «popolare» ma è, semmai, una furba speculazione sui riti e miti dell’anonimità industriale, portata ai fasti del riconoscimento internazionale dall’ebreo americano Roy Lichtenstein - non tarderemo ad accorgerci che esse sono strettamente legate alla supervalutazione dell’io, tipica della cultura occidentale.
Ora, l’io che campeggia al centro di tutto, anche quando acconsente a stendersi sul lettino dello psicanalista dell’ebreo austriaco Freud, è l’io arrogante e presuntuoso di origine veterotestamentaria, il quale afferma che il mondo intero gli è stato dato in signoria da Jhwé, e che si è unito con una particolare deformazione dell’io greco, severamente condannata dalla cultura ellenica, vale a dire la «hybris», la dismisura del voler trascendere il limite umano. Non è il Sé liberato e consapevole, ma il “piccolo io” di cui parla il Buddhismo, il falso Ego che ci tiene avvinti alla catena delle rinascite e che ci spinge a reiterare, con stolida monotonia, sempre le stesse dinamiche dispersive e distruttive, sempre le stesse illusioni e gli stessi errori.
Questo piccolo io, ottuso e narcisista (anche quando non si piace) è il responsabile della dimensione illusoria nella quale ci muoviamo e alimenta incessantemente i nostri falsi pensieri, i nostri falsi sentimenti, la nostra falsa coscienza; ci fa correre dietro a mille cose, tutte superflue, e ci distoglie sistematicamente dall’essenziale; ci induce a vivere rintanati nelle oscure e maleodoranti cantine del bellissimo palazzo, pieno di aria e di luce e circondato da un profumatissimo giardino, di cui siamo gli inconsapevoli proprietari.
Il piccolo io ci rende piccoli, ci fa pensare in piccolo e mortifica ogni nostro slancio verso le dimensioni spirituali superiori.
Non occorre, peraltro, essere degli spiritualisti convinti per avvertirne la molesta, incessante invadenza e per deprecare i danni irreparabili che esso arreca alla nostra vera essenza. Anche un materialista radicale come Nietzsche lo aveva individuato come uno dei nostri peggiori nemici e, al tempo stesso, come quello che meglio esprime lo squallore, la banalità e il conformismo tipici della società massificata della tarda modernità.
Vi è, fra i tanti, un brano dello Zarathustra che parla molto chiaro in proposito (Parte terza, «Della virtù che rimpicciolisce», 1; traduzione di A. M. Carpi):

«Quando Zarathustra fu di nuovo sulla terraferma, non si diresse subito alle sue montagne e alla sua spelonca, percorse bensì molte strade e pose molte domande, e s’informò di questo e di quello, tanto che disse, scherzando, di se stesso: “Ecco un fiume che con molti meandri ritorna alla sorgente!”. Giacché egli voleva fare esperienza di ciò che nel frattempo fosse avvenuto dell’UOMO: se fosse diventato più grande e più piccolo. E una volta vide una fila di case nuove; allora si meravigliò e disse: 
- Che significano queste case? In verità, non le edificò una grande anima, a propria immagine!
Le tirò fuori un bambino scemo dalla sua scatola dei giocattoli? Se un altro bambino le riponesse nella sua scatola!
E queste calde stanzette e camere: possono entrarvi e uscirvi degli UOMINI? Mi sembrano fatte per bambole di seta e per gatte golose, che si danno volentieri al’altrui golosità.”
E Zarathustra si fermò a pensare. Alla fine disse turbato: - È diventato TUTTO più piccolo!
Dappertutto vedo porte più basse: chi è della MIA specie  ci passa ancora, sì, ma deve piegarsi!
Oh, quando ritornerò nella mia patria, dove non mi DEVO più piegare; non mi devo più piegare DAVANTI AI PICCINI! -. E Zarathustra sospirò e guardò lontano. »

Anche il nostro modo di porci davanti alla malattia e alla morte risente della nostra ossessione egoica.
Prendiamo il caso del cancro (e ci rendiamo conto della terribile serietà del’argomento). Come lo affronta la nostra sedicente scienza, se non con una crociata basata sull’aggressione militare delle cellule impazzite? Invece di domandarsi di che cosa esso sia la spia e che cosa lo produca; invece di studiare i rari, ma significativi casi di regressione spontanea, specialmente nella connessione corpo-mente, tutte le energie sono rivolte all’offensiva: bisogna distruggere il cancro, bisogna debellarlo, bisogna annientarlo! È come se quello stesso piccolo io, che ha provocato, con la sua distorsione esistenziale e con la sua ossessione di primeggiare, l’insorgenza della malattia, o quantomeno l’ha enormemente favorita, continuasse a gridare, anche mentre sta lottando corpo a corpo con essa in una battaglia disperata per la vita e per la morte: Io, io, io!
Ma torniamo al concetto di vuoto.
Una volta che noi avremo incominciato a comprendere che la nostra vera essenza non si identifica, o almeno non si identifica totalmente, con il piccolo io che sempre vuole, vuole, vuole ciecamente, ma, al contrario, con l’Essere luminoso e raggiante, dal quale ogni cosa proviene e ogni cosa aspira a ritornare, ecco che l’idea del vuoto cesserà di angosciarci e di terrorizzarci e ci apparirà, invece, come la porta che ci consentirà di lasciare le buie cantine e di salire le scale dello splendente palazzo, per poi uscire nel tripudio di piante, di uccelli, di acque zampillanti e di libero cielo del vastissimo giardino.
Questa è la prima disposizione d’animo che si richiede a colui il quale, con animo limpido e purificato, voglia intraprendere il cammino della liberazione interiore.
La meditazione, intesa come tecnica specifica per favorire la consapevolezza dell’unione del Sé individuale con l’Assoluto, è certo un elemento importante; ma, come tutte le tecniche, non deve essere sopravvalutata e, soprattutto, non deve essere scambiata per il fine, mentre essa è soltanto ed unicamente un mezzo per raggiungere il fine.
In ogni caso, non avrebbe molto senso impadronirsi di una efficace tecnica di meditazione per sperimentare alcuni minuti di consapevolezza interiore, nel contesto di una vita che continui ad essere dominata dalla fretta, dall’inseguimento di false immagini di bene: in una parola, dall’idolo del falso Ego.
Diciamo piuttosto che l’esercizio e la pratica della meditazione dovrebbero accompagnare, ed eventualmente coronare, tutto uno stile di vita, tutto un modo di porsi davanti a se stessi e alle persone e alle cose circostanti. Diversamente, sarebbe come aspettarsi qualche effetto benefico per la propria salute dal fatto di dedicare una mezz’ora quotidiana alla corsa o agli esercizi ginnici, per poi riprendere a fumare sigarette, a bere superalcolici e a ingozzarsi di carne, per assumere una quantità spropositata di calorie.
Dunque: il vuoto.
Quando la mente, bonificata dai pregiudizi egoici, si pone in uno stato di serena contemplazione e di equanime benevolenza, libera da brame e da timori, limpida, tranquilla, aperta e spassionata, allora essa incomincia a oltrepassare la sfera del pensiero strumentale e calcolante e, poi, la sfera del pensiero in quanto tale.
All’inizio è difficile: i pensieri si accavallano turbinosamente e cercano, con imperiosa insistenza, di conservare la loro signoria su di noi. Non vorrebbero andarsene; e, cacciatone uno, subito un altro si affretta a prenderne il posto, come richiamato dalla potente magia di un illusionista. I pensieri rampollano l’uno sull’altro senza fine, tanto da dare l’impressione che la mente non potrebbe mai vivere senza di essi; che essi le sono necessari come lo è l’ossigeno ai polmoni. Ma non è vero.
I pensieri non sono affatto indispensabili e la mente può benissimo farne a meno; anzi, è solo quando essi vengono alfine debellati, che la mente incomincia veramente a capire, a vedere e a udire. Ma non sarà più un vedere corporeo e non sarà più un udire materiale; al contrario, sarà come entrare in un altro campo di realtà.
Bisogna solo imparare a vincere la paura. La paura che, lasciando andare i pensieri, ci perderemo; la paura che, sbarazzandoci delle illusioni del falso Ego, precipiteremo nel nulla. La paura che ci tiene attaccati, convulsamente attaccati, strenuamente, disperatamente attaccati alle nostre ingannevoli abitudini mentali.
Si osservi la corrente di un fiume che scorre limpida all’ombra dei frassini e delle acacie, levigando i ciottoli del fondo, in un bel giorno di primavera.
Si osservi la corrente che scorre via incessantemente, in un perenne movimento così leggero, così naturale, che dà quasi l’impressione di coincidere con la stabilità. Una vola che l’occhio sia rapito dal movimento veloce e sempre uguale della corrente, anche la mente verrà rapita insieme a lui; e, per un momento, proverà come un brivido di paura. È il momento in cui la grande maggioranza delle persone, istintivamente, decide di rompere l’incantesimo e di staccare lo sguardo, onde recuperare la rassicurante prospettiva abituale, che restituisce l’impressione di permanenza delle cose: il fiume, le sponde, gli alberi, le nuvole, il cielo.
Se noi, invece, resistiamo a quel senso di vertigine e al senso istintivo di paura che produce, e acconsentiamo a lasciarci trascinare via dal movimento sempre uguale della corrente, allora ci verrà dato di vivere un’esperienza privilegiata: quella del temporaneo abbandono della prospettiva del falso Ego, basata sulla illusoria persuasione che le cose siano ferme e stabili, per entrare nella grande, meravigliosa corrente dell’Essere, ove tutte le cose si incontrano e si fondono in una esplosione di luce.
È così che l’esperienza del Vuoto diventa l’esperienza del Tutto; è in questo modo che, spogliandoci del piccolo io e delle sue tenaci forme di attaccamento, possiamo scendere al centro di noi stessi: e scoprirvi il mistero dell’Essere.
Qualcuno disse che, per ritrovarsi, bisogna prima perdersi; che, per acquistare la ricchezza di ciò che è essenziale, occorre spogliarsi delle cose superflue.
Noi vorremmo arrivare a capire, ad essere felici, ma senza rinunciare a nessuno o quasi nessuno dei tanti, piccoli fardelli che ci portiamo dietro, primo fra tutti il nostro piccolo io.
Ma non si può; non è dato.
Dobbiamo fare una scelta, necessariamente.
Forse, ne vale la pena.