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La mattina prima di andare a lavorare

di Marco Mazzucchelli - 05/02/2010

 
 
 

Evado. Dalle non-stelle. Dall’era dei parcheggi dei Bennet come sconfinati Ground Zero di provincia. Bagliori radioattivi, albe perenni. Ci prendono per il culo, i campagnoli, per i nostri cieli arancioni. Evado dalla mattina di tredici giorni fa, che uscendo per andare al lavoro ho guardato mia moglie dormire, il viso voltato vero l’armadio. Il suo zigomo pronunciato asiatico nascondeva la cavità oculare e la fronte, col disegno dei capelli, assecondava l’impressione che quella fosse la mezza faccia di un non-essere. Non riconoscevo quella testa, ne mancava un pezzo. Avevo paura che quella cosa si girasse rivelandosi. 
Evado dalla quella vita, dove sulla gente grava un tendone che trattiene tutta la merda che può riversarsi sulle nostre vite. Ho sempre visto un sacco di gente andare in giro sporca di merda, ma io no, sono sempre stato molto attento a tenere separata la mia vita e la merda che ci incombeva sopra. Poi ho avuto una ragazza, mi ha sposato, e queste due cose assieme hanno preso un coltello e hanno squarciato il tendone.
La vita di merda è l’omologazione. è lo stampino che le città moderne spingono verso le nostre teste, verso la settimanale colazione di sabato mattina all’Auchan, seduti vicino l’entrata del supermercato che incalza, vicini a esseri osceni, brutture, i cui figli ne erediteranno le colpe genetiche. Guardavo ciò che pensavo essere la donna della mia vita, addentava croissant con uno sfondo fuori-fuoco di peli lanosi intricati nelle maglie di catenine, smorfie disgustose delle bocche, denti incatramati, pori saturi di sebo, e arroganza, e ignoranza, il mix letale, l’infezione che rende marcescente il suolo che calpestiamo e accoglie le fondamenta delle nostre case. La vita di merda è dover iniziare con gli aperitivi alle dieci di mattina di sabato all’Auchan [mi serviva], è stare in coda in autostrada per andare all’outlet di Serravalle fumando erba, rigorosamente [mi serviva], è chiudere gli occhi e congelare la mente in coda all’ufficio postale mentre chi è allo sportello strilla contro chi ci siede dietro, ancora [mi serviva]. Non potevo far altro che girare per questi grumi di cisti che sono le città, in un perenne stato confusionale.
Quella mattina che sono quasiuellaqqq morto di paura davanti a mia moglie che dormiva, ho aspettato che andasse al mare dai miei suoceri per il weekend, ho presentato dimissioni consegnando le chiavi dello studio e chiesto e ricevuto metà dei soldi che mi spettavano. Ho prelevato e prelevato e prelevato. I soldi che erano di mia moglie e che avrebbero dovuto essere per nostro figlio. Non visto, ho venduto l’oro. Ho ammazzato il gatto, poi l’ho cucinato e mangiato, perché letteralmente mi straziava l’idea di separarmene. Ho salvato su una memoria flash i miei video porno preferiti. Ho pensato se fosse il caso di salutare mia madre e la sua malattia degenerativa, ho deciso che no, non era il caso, così mentre dormiva le ho solo rubato i soldi dal portafogli.
Ecco la rivelazione. Ecco come in queste ultime ore non ho fatto altro che annientarmi, rigettare la parte peggiore di me, mostrarmi. Da giovane non ero niente male, forse fin troppo corretto, e ora eccomi corrotto. Siete stati voi a trasformarmi così, siete stati tu e tu. Mi avete reso vecchio, reso brutto. Ricordo che per voi volevo diventare una persona migliore e ora mi rendo conto che la costrizione del vivere assieme e lì, dove se mi affacciavo per vedere le stelle vedevo solo un enorme sacchetto di plastica arancione che qualcuno mi aveva legato al collo, non ha fatto altro che abbruttirmi. Avete scalfito la corazza delle mie buone intenzioni, avete limato, assottigliato, ma questo non è stato un lavoro che ha impreziosito, perché non lucidava, non smerigliava niente. Mano a mano apparivano in superficie il marcio, le croste, poi i tendini sfilacciati, i tessuti morti. Scotennandomi avevate trovato il vero me stesso, nella scala evolutiva ero l’uomo che regredisce, e regredendo si dirigeva ad est. Nella fattispecie, l’uomo regredito ha guidato verso l’Ungheria, per bagnarsi nel lago Balaton, rinascere nella palude del lago dove le ragazze dopo mezzora che sono fuori di casa hanno già l’alito che sa di cazzo. Ero fermo in coda da cinque ore in autostrada e mi ripetevo che quelle erano le ultime ore della mia vita di merda. Ero sobrio, avevo buttato l’erba dal finestrino.
Ma fatemi solo raccontare del pomeriggio che vi sono arrivato, così è giustificato tutto quello che ho fatto. Fatemi solo dire del guidare sulla strada costiera, dei villaggi che si susseguono come perle lungo una collana, i negozi di articoli per mare, i pochi vacanzieri sulle strisce pedonali, i teli mare appesi fuori dalle case a due piani, le visioni rapide del lago tra gli scorci, le vele dei windsurf, ragazze sorridenti che escono di casa. Lasciatemi dire della natura madida di questo posto, i canneti che iniziano a divorare le spiagge e i villaggi, e dopo, la palude. La natura che si rivela, marcescenze e parassiti abitano le nostre essenze più vere e lì tutti siamo diretti. Il mio arrivo alla parte più nascosta del lago, prima di Keszthely, camminare in questa natura slava, fendere i canneti con le mani giunte, lungo la passerella di legno verso l’acqua stagnante, scoprire il lago a mollo nell’arancione e verde oliva e ocra dei tramonti d’estate. Lasciatemi dire del gulasch per cena e delle voci provenienti da una lontana festa di paese, le sento, voci di ragazze appena uscite di casa. Del mio camminare rasente la strada, nel buio deserto e pesto e pesto e pesto della notte transdanubiana, dell’esserci nulla che illumini oltre il lattiginare dei miliardi di stelle. Non avevo mai visto niente pulsare così. E la boscaglia palpita anch’essa, con le sue cicale e gli effluvi di clorofilla. Rieccomi primigenio, ululante verso il cielo, è giunta l’ora che riaprissi gli occhi di nuovo. Sapete cosa vuol dire, riaprire gli occhi?

[da racconti di periferie09 a cura del Gruppo Opìfice|selezione di Casa Lettrice Malicuvata]