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Prima della manifestazione dell’universo non vi era che l’Essere-Coscienza-Beatitudine

di Francesco Lamendola - 12/02/2010

 

Qual è la relazione  fra noi, creature finite, e l’Essere infinito, assolto, eterno, da cui tutto promana e tutto è destinato a fare ritorno?
Non è questione che possa decidersi solo sulla base del Logos razionale, le cui caratteristiche precipue sono quelle della strumentalità e del calcolo, vale a dire l’attitudine a porsi in un rapporto egoico, avido, possessivo e manipolatorio nei confronti del reale.
Le filosofie dell’Oriente, e specialmente quelle dell’India, sanno, da sempre, che il solo Logos razionale è del tutto inadeguato a sondare tali abissali profondità: perché non sono soltanto profondità speculative, vale a dire gnoseologiche (concernenti la conoscenza), ma altresì ontologiche (concernenti l’Essere in quanto tale). E che cosa è mai il nostro pensiero: limitato, imperfetto, presuntuoso e arrogante, a confronto delle inconcepibili profondità dell’Essere, rispetto alle quali esso è meno di niente?
Accanto al pensiero strumentale e calcolante, è necessario attivare un pensiero contemplativo, spassionato, accogliente ed equanime; ed accanto e oltre tale forma superiore di pensiero, è necessario affidarsi ad una facoltà diversa, ma niente affatto inferiore, cioè all’intuizione profonda, essenziale, luminosa e beatifica, senza la quale le porte della visione dell’Essere non si socchiudono nemmeno, ma noi siamo costretti a rimanere fuori, almanaccando vanamente su ciò che si trova oltre.
La maggior parte dei filosofi occidentali si sono sempre rifiutati di intraprendere una tale strada, se pure si sono posti il problema in questi termini; per essi, tutto ciò che sta al di fuori del Logos razionale è indegno di fiducia quale strumento di conoscenza, perché si tratta - secondo loro - di cose che stanno al di sotto della ragione. E lo scientismo oggi dominante li ha ancor più rafforzati nel loro ottuso pregiudizio razionalista.
Ebbene: i grandi Maestri dell’India, e tutti i filosofi che hanno avuto l’ardimento concettuale di spingersi al di là del pensiero strumentale e calcolante e di affidarsi alla luminosa corrente dell’Essere, concordemente riferiscono che, una volta spinta la meditazione al centro di se stessi, ciò che si trova è precisamente il cuore pulsante di tutto ciò che esiste, che è esistito, che esisterà: l’Assoluto e l’Eterno, di cui noi stessi siamo delle schegge luminose (con il piccolo particolare che, il più delle volte, ignoriamo di esserlo).
C’è un diamante luminoso e d’impareggiabile valore, proprio nelle profondità abissali del nostro essere; e, sebbene nascosto e ricoperto da densi strati di scorie d’ogni genere e circondato da spessi veli di nebbia e d’ignoranza, esiste sempre la possibilità che noi, attivando il processo del risveglio spirituale,  ne acquistiamo consapevolezza e ci dedichiamo all’opera di disperdere la nebbia e le scorie, onde riportarlo in piena luce e permettergli di rischiarare il mondo, e noi stessi, con il suo meraviglioso fulgore.
«Tat Tvam Asi», «Tu Sei Quello»: così recita la sapienza antichissima dell’India. Come dire: non cercare l’oggetto al di fuori di te; tu e l’oggetto siete una sola e medesima cosa; e non cercare Dio al di fuori di te; tu e Dio siete una sola e medesima cosa.
Arthur Avalon (pseudonimo di  Sir John Woodroffe, che non si considerava l’unico autore dei suoi eccellenti libri), ha così riassunto la questione ne «Il potere del serpente» (laddove il “serpente” è, naturalmente, Kundalini, l’energia divina raccolta nelle nostre stesse profondità; traduzione italiana di Franco Pintore, Roma, Edizioni Mediterranee, 1968, 2002, pp. 30-32, 33):

«Il Veda dice: “Tutto ciò (cioè il mondo nella sua molteplicità) è (l’unico) Brahman.” (Sarvam  khalvidam Brahma). Come il molteplice ossa essere uno è spiegato in maniera diversa dalle differenti scuole. L’interpretazione datane qui è quella contenuta  negli Shkta Tantra o Agama. In primo luogo, che cosa è quest’unica Realtà che appare in aspetti molteplici?  Quale è la natura del Brahman nella sua essenza (Svarupa)? La risposta è Sat-Chit-Ananda - cioè Essere-Coscienza-Beatitudine. Coscienza o sensazione, come tale (Chit, o Samvit), è identica all’Essere come tale.  Sebbene nell’esperienza comune siano strettamente congiunti, pure divergono, o sembrano divergere.  L’uomo per sua natura crede ostinatamente in una esistenza oggettiva  esterna ed indipendente da lui. Questo finché , essendo uno spirito racchiuso in un corpo (Jivatama), la sua coscienza  è velata o contratta dalla Maya.  Ma al limite estremo dell’esperienza, che è lo Spirito Supremo (Paramatma), la divergenza sparisce, poiché in esso coincidono in un tutto indistinto  colui che l’esperienza, l’esperienza e l’oggetto dell’esperienza. Comunque, quando parliamo di Chit come Sensazione-Coscienza, dobbiamo ricordare che ciò che noi conosciamo ed osserviamo come tale è soltanto  una manifestazione limitata e mutevole di Chit, che è nella sua essenza il principio infinito e immutabile  base di ogni esperienza. Questo Essere-Coscienza è la Beatitudine assluta (Ananada), definita “il riposo nel sé” (Svarupa-vishranti). È Beatutudine perché, essendo l’infinito Tutto (Purna), nulla può mancargli.  Questa felice consapevolezza è la natura ultima e irriducibile di Svarupa, o forma propria della Realtà unica, che è nello stesso tempo il Tutto in quanto Reale irriducibile, e Parte in quanto Reale riducibile. Svarupa è la natura di ogni cosa nella sua essenza, ben distinta da ciò che può apparire. Questa Suprema Coscienza  è la Coppia Suprema (Parashiva-Parashakti) che non cambia mai, ma rimane eternamente la stessa  attraverso ogni cambiamento che interessi il suo aspetto creatore di Shiva-Shakti.
Ma allora, perché tutto ciò che noi vediamo è associato  a un’apparente incoscienza? perché  il nostro mentale non è, evidentemente,  coscienza pura, ma limitata. ciò che limita deve essere o qualcosa di non cosciente in se stesso, o, se cosciente, capace di produrre l’apparenza d’incoscienza.  Nel mondo fenomenico non vi è nulla che sia cosciente  o non cosciente in senso assoluto. Cosciente e non-cosciente sono sempre fusi insieme.  Tuttavia alcune cose appaiono più coscienti o meno di altre. Ciò si deve al fatto che il Chit, sempre presente in ogni cosa,   si manifesta in diverso grado. Il grado della sua manifestazione è determinato dalla natura e dallo sviluppo del mentale e del corporeo  che lo racchiudono. Lo Spirito rimane lo stesso; il mentale e il corporeo mutano. La manifestazione di coscienza è più o meno limitata secondo lo sviluppo progressivo dal minerale all’uomo. Nel regno minerale il Chit si manifesta  nella più bassa forma di percezione, cioè come riflesso in reazione a uno stimolo, e in quella coscienza fisica che gli scienziati chiamano memoria atomica. La percettività delle piante è più sviluppata, sebbene, come dice Chakrapani nella “Bhanumati”, sia una coscienza inattiva.  Meglio si manifesta in quei microrganismi che sono degli stati intermedi  tra il regno vegetale e il regno animale e possiedono una propria vita psichica.  Nel regno animale la coscienza diventa più centralizzata e complessa, raggiungendo il suo massimo sviluppo nell’uomo, che possiede tutte le funzioni psichiche: la conoscenza, la percezione, il sentimento e la volontà. Ma oltre queste forme particolari e mutevoli di sensazione  di conoscenza vi è l’unico, aformale,  immutabile Chit, distinto, nella sua essenza, dalle forme particolari  della sua manifestazione.
Poiché il Chit, attraverso tutti questi stadi di vita,  rimane lo stesso, esso non si sviluppa realmente. l’apparenza di un progresso si deve al fatto che esso ora più ora meno velato dal Mentale e dalla Materia.  È questo velare, attuato dalla Potenza della Coscienza (Shakti), che crea il mondo. Ma che cos’è dunque che vela la coscienza  e produce l’esperienza del mondo?
La risposta è: la Shakti quale Maya.  Maya Shakti è ciò che, in apparenza, muta il Tutto (Purna) in non-tutto (Apurna), l’infinito in finito, l’aformale nel formale, e così di seguito. È dunque una potenza  che riduce, vela e nega.  Nega che cosa? La Coscienza perfetta.  La Shakti è in fondo uguale o diversa da Shiva o da Chit? È necessariamente la stessa cosa, altrimenti non potrebbero essere tutti l’unico Brahman.  Ma se è la stessa cosa, deve essere anche Chit o Coscienza. […]
Prima della manifestazione dell’universo vi era soltanto l’Essere-Coscienza-Beatitudine, cioè Shiva-Shakti, rispettivamente come Chit e come Chidrupini. Questa è l’esperienza totale (Purna) nella quale, dice l’Upanishad,  “il Sé conosce il Sé e Lo ama”. È quell’Amore che è Beatitudine o “riposo nel Sé”, poiché, come è detto altrove, l’Amore Supremo è beatitudine”. Questo è Parashiva, che nello schema dei Trentasei Tattva  è conosciuto come Parasamvit. Tale monismo presuppone un duplice aspetto dell’unica Coscienza: l’aspetto Trascendente, immutabile (Parasamvit), e l’aspetto creatore e mutevole, che è detto Shiva-Shaktui Tattva.  Nel Parasamvit, l’”I”o (Aham)  e il “Ciò” (Idam) o mondo degli oggetti, sono indissolubilmente fusi nell’esperienza suprema dell’unità.»

Impressionanti le analogie fra questa dottrina dello Yoga tantrico e le intuizioni di alcuni filosofi occidentali, sia antichi e medievali che moderni.
Come non mettere in relazione l’idea che nel regno minerale giaccia una forma embrionale di Coscienza, sua pure allo stato più primitivo, con la teoria di Schelling circa il mondo minerale come Spirito pietrificato?
E come non ricordarsi, di fronte alla affermazione delle Upanishad che «il Sé conosce il Sé e Lo ama», di quei famosi versi di Dante («Paradiso», XXXIII, 124-126):

«O luce eterna che sola in te sidi,
sola t’intendi, e da te intelletta
 e intendente te ami e arridi!».

Tutto sta, dunque, a oltrepassare il “velo di Maya” e liberarsi dalla credenza illusoria nella realtà separata e autosufficiente degli enti. Questo è il vero peccato delle moderne filosofie materialistiche: aver posto gli enti come separati gli uni dagli altri e come capaci di sussistere - a somiglianza del funambolo sulla corda - fra il nulla che li precede e da cui compaiono,  ed il nulla che li segue e in cui scompaiono.
Gli enti non sono separati, ma sono tutti intimamente collegati fra loro, perché non sono altro che aspetti manifestati dell’unica realtà autosussistente: l’Essere non manifestato, perfetto, imperituro, luminoso, consapevole e beato.
Perciò, colui il quale riesce a liberarsi dall’illusione della realtà sensibile e a cogliere, al di sotto di essa, l’immutabile ed eterno splendore dell’Essere, trova anche, automaticamente, la suprema consapevolezza e la suprema beatitudine. Ed è così che, cercando la verità, egli riceve in premio anche la felicità: felicità piena e perfetta, che nulla e nessuno potranno strappargli.
Tale è anche il sorriso del Buddha.
È il sorriso, unico e inimitabile, di colui il quale, dopo aver molto cercato e lottato, ha scoperto che la verità si trova allorquando ci si lascia trasportare, con piena fiducia e con totale abbandono, dalla corrente dell’Essere, come dalle acque cristalline di un ampio fiume che corre maestoso verso la pace del mare.
Il nostro errore è quello di volerci aggrappare. Ci vogliamo aggrappare alle cose, alle emozioni, ai sentimenti, ai pensieri; alle paure e alle speranze, agli odî e agli amori: ciecamente, testardamente, come le foglie di un albero che, in autunno, non vogliano cedere al soffio del vento. Tremiamo di spavento al pensiero del vento che ci porterà via; puntiamo i piedi e ripetiamo, disperatamente, istericamente: «Io, io, io, io, io».
Dobbiamo liberarci dalla paura; dobbiamo aprire le mani, che ora stringiamo a pugno per afferrare le cose e per afferrarci ad esse: e lasciarci condurre dalla corrente. Lievemente, dolcemente, senza movimenti convulsi.
Scopriremo che tutto diventa più facile; e impareremo a sorridere. A sorridere veramente: non di questa o quella cosa, illusoria e transitoria, ma della nostra identità con il Tutto, sorgente perenne e gioiosa di luce, di pace e di consapevolezza.
Sarà il sorriso della liberazione e dell’amore disinteressato.
Sarà un riflesso del sorriso stesso di Dio.