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Shambhala l’inafferrabile, la risplendente va cercata nelle profondità dell’anima

di Francesco Lamendola - 18/02/2010

Nella cultura occidentale, il mito di Shambhala è antico di mille anni (usiamo la parola “mito” nel significato alto della parola, come in Platone, per indicare non qualcosa di fittizio, ma una verità che non può essere compresa e trasmessa con il solo Logos razionale).
Il primo europeo che partì alla sua ricerca fu il monaco slavo Serghej, che, nel 987, era stato incaricato dal principe di Kiev,Vladimir il Grande di trovarla, dopo averne conosciuto l’esistenza in un antico manoscritto conservato nel monastero di Monte Athos, in Grecia. La sua spedizione si perdette nelle nebbie dell’Asia sconosciuta e non se ne seppe più nulla. Ma più di mezzo secolo dopo, nel 1043, giunse a Kiev un vecchio monaco che diceva di essere Serghej, e raccontò una storia  quasi incredibile: dopo tre anni di viaggio, e dopo aver perduto tutti gli altri membri della carovana, egli era giunto davvero in una valle meravigliosa, abitata da uomini saggi e pacifici, ricchi di conoscenze avanzatissime e solleciti del bene dell’umanità, pur essendo fermamente decisi a tenersi appartati dal mondo esterno.
Ogni anno, solamente sette pellegrini venivano accolti a Shambhala, ospitati in una vastissima rete di grotte e gallerie sotterranee, ricca di biblioteche e di musei che accolgono l’intera storia del genere umano, e istruiti spiritualmente, oltre che sul piano scientifico. Alla fine, sei di essi venivano rimandati nel mondo, per trasmettere agli uomini i segreti spirituali che avevano appreso e vivificarne l’atmosfera, minacciata dalle ombre dell’avidità, dell’ignoranza, della violenza; il settimo rimaneva per sempre, accolto come un abitante di quel Regno nascosto, per completarvi il proprio processo di evoluzione interiore.
Nei primi decenni del XX secolo, il viaggiatore russo Nicholas Roerich, filosofo, pittore, ricercatore spirituale, ha condotto una serie di viaggi quanto mai minuziosi nelle pieghe più nascoste dell’Asia centrale, fra i Monti Altai e la catena dell’Himalaia, sempre alla ricerca degli accessi al Regno sotterraneo di Shambhala (in sanscrito, “regno di pace, di tranquillità, di felicità”) o di Agarthi (in tibetano, “l’inafferrabile, l’inaccessibile”), raccogliendo numerosi indizi della sua esistenza, ma nessuna prova decisiva e, soprattutto, senza riuscire a penetrarvi.
Meno ancora ebbero successo i tentativi organizzati dalla Società Ahnenherbe nazista, in particolare la spedizione del 1938-39 guidata dalla SS Ernest Schäfer, un biologo e zoologo che aveva precedenti esperienze di viaggi esplorativi in Cina, il quale giunse a firmare con il Panchen Lama di Lhasa un trattato ufficiale di amicizia fra il Tibet e il Terzo Reich (in seguito al quale venne forse formato un battaglione di SS tibetane che avrebbe partecipato anche alla battaglia finale per la difesa di Berlino, nel 1945).
Mille anni, dunque: dal monaco Serghej al nazista Schäfer, numerose sono state le spedizioni occidentali, europee e americane, a volte anche cinesi, che si sono succedute alla ricerca del Regno degli uomini i saggi, i quali avrebbero deciso di trasferirsi nelle loro dimore sotterranee molto tempo fa, allorché ritennero che non vi fossero più le condizioni per coltivare la civiltà sulla superficie terrestre, a causa delle guerre e della generale inconsapevolezza spirituale sempre più diffuse tra gli uomini.
Anche lo scrittore e viaggiatore polacco Ferdinand Ossendovskij ne parla nel suo famoso libro «Bestie, uomini, dei», in una celebre pagina ove descrive la dimora segreta del Re del Mondo che, nelle profondità dell’Asia centrale, medita e prega per il bene dell’umanità.
Da parte sua, il filosofo René Guénon ha dedicato uno dei suoi studi più conosciuti al grande pubblico, «Il Re del Mondo», proprio a tale soggetto; anche se l’identificazione di Shambhala con Agarthi, e di entrambi questi luoghi con la sede del Re del Mondo, è controversa, dato che il mito di Shambhala si colloca nel contesto del Buddhismo, quello di Agarthi (o Agartha), invece, prevalentemente in quello dell’Induismo. Inoltre, si tratta di tradizioni che fluttuano in una vastissima area geografica che, dall’India settentrionale e dal Tibet, arriva fino al Deserto del Gobi, nella Mongolia Esterna.
Che cosa pensare di questi racconti, di queste ricerche, di queste spedizioni, che si susseguono un po’ come quelle della mitica Eldorado o della inafferrabile Città dei Cesari, ma su di un piano più spiccatamente spirituale?
Se non altro, essi attestano la tenace persistenza in Occidente di un mito molto antico, che sin intreccia, peraltro, con il mito della Terra Cava, reso popolare dallo scrittore Willis George Emerson, con il suo libro «The Smoky God», nel1908; ma alla cui ricerca - come abbiamo visto - sono da tempo impegnati singoli studiosi e piccoli gruppi esoterici.
Volendo, potremmo risalire indietro fino all’antichità classica, dato che, nella «Vita di Apollonio di Tiana», il retore ateniese Flavio Filostrato (I secolo dopo Cristo) racconta di come Apollonio si fosse spinto in una terra al di là dell’Himalaia, ove avrebbe conosciuto una società di uomini saggi e sapientissimi, le cui conoscenze lo avevano lasciato sbalordito e profondamente ammirato, e che potremmo identificare proprio con Shambhala ed Agarthi.
Né si deve pensare che si tratti solamente di un mito occidentale, perché - lo ripetiamo - la credenza e la venerazione nei confronti di Shambhala ha le sue antiche radici nella cultura buddhista e, in particolare, nel «Kalachakra Tantra» e nei testi della cultura Zhang Zung, quest’ultima anteriore all’arrivo del Buddhismo nel Tibet.
Secondo una tradizione, il «Kalachakra Tantra» sarebbe stato insegnato da Buddha medesimo al re Suchandra; secondo un’altra tradizione, sarebbe stato Dharmakirti, un filosofo vissuto intorno al VII secolo nell’India meridionale, a trasmetterlo al maestro buddhista Atisha.
A nostro avviso, la ricerca di Shambhala, così come la prospettano quasi tutti gli studiosi occidentali - sia che ne sostengano l’esistenza, sia che la neghino - è un classico esempio di quell’approccio grossolano, materiale, inadeguato, con cui la nostra cultura si pone generalmente di fronte alle realtà spirituali, un po’ come fa nel caso della demonologia e del’angelologia; ma anche - in un ambito diverso - in quello di taluni fenomeni mistici e supernormali, per non parlare di quelli relativi all’ufologia o alla criptozoologia.
Secondo la cultura occidentale moderna - meccanicista, dualista, cartesiana - una cosa o è materiale, o è spirituale: o è «res cogitans», o è «res extensa»; «tertium non datur». Secondo questo modo di vedere, Shambhala o esiste materialmente, o non esiste affatto; o se ne trovano gli accessi e vi si può penetrare, vederla, fotografarla, cartografarla, o è una leggenda e magari peggio, un’impostura. Al massimo, le persone che si credono libere dal condizionamento materialista se la cavano affermando che solo agli individui moralmente degni è concesso di entrarvi, mentre agli altri essa si tiene celata. Ma questa, diciamolo, è la classica soluzione di compromesso, che - pur avendo una patina di spiritualità - non soddisfa veramente nessuno.
Ci sembra molto più giusto, e intellettualmente più onesto, riconoscere che pensare l’esistenza di Shambhala in termini materiali sarebbe non solo impossibile - nell’epoca della fotografia aerea e dei satelliti spia, capaci di condurre una minuziosa ricognizione di ogni singolo metro quadrato della superficie terrestre -, ma anche del tutto incongrua dal punto di vista mistico e spirituale, nel cui orizzonte il mito è nato e si è conservato fino ad oggi. Sarebbe come sostenere l’esistenza materiale del Paradiso e dell’Inferno: una totale assurdità e un completo non-senso.
Shambhala, proprio perché “inafferrabile”, non è in un luogo geografico; con buona pace di coloro i quali pensano di aggirare il problema invocando lo spostamento dei Poli terrestri e sostenendo che, anticamente, il Polo Nord terrestre era in corrispondenza di essa, che, perciò, sorgeva prossimità del vertice dell’Axis mundi.
Tale spostamento può anche essersi verificato e può darsi che, un tempo, il Polo Nord corrispondesse al Monte Meru della tradizione induista e, di conseguenza, alla sede sotterranea del Re del Mondo, la cui vigilanza e le cui preghiere preservano l’equilibrio spirituale dell’umanità, così come quel luogo sacro preserva l’equilibrio materiale del pianeta. Tuttavia, non bisogna confondere i due piani di realtà.
L’idea centrale di Shambhala è un’idea di natura prettamente spirituale e religiosa e non ha niente a che fare con la storia, con la geografia o con le esplorazioni scientifiche. Nessuno la potrà mai vedere con gli occhi del corpo, nessuno la potrà fotografare. Questo non significa che essa non esista: esiste, ma non nella dimensione fisica grossolana. Shambhala, l’inafferrabile, è al centro della nostra anima; e, ai pochissimi capaci di compiere un simile viaggio interiore, è riservato l’immenso privilegio di entrarvi e di godere della sua armonia.
Quegli uomini saggi che in essa dimorano, esistono realmente. Noi non sappiamo se Helena Petrovna Blavatsky abbia davvero comunicato con loro, come sosteneva nei suoi libri, «Iside svelata» e «La dottrina segreta»; così come non sappiamo se ciò sia accaduto ad altri teosofi, antroposofi o a qualsiasi altro seguace di svariate scuole esoteriche. Non siamo neppure in grado di dire se tali uomini vivano nella dimensione del presente o del passato, così come è difficile trovare le categorie mentali e linguistiche per descrivere il piano di realtà in cui si collocano figure di santi immortali come Babaij, il grande Maestro indiano, fra i cui discepoli si annoverano personalità luminose, come quelle di Sri Yukteswar o di Paramahansa Yogananda, che tanto hanno influenzato anche il mondo contemporaneo.
Ha scritto  Pietro Verni nel suo libro «La dimora del Re del Mondo» (Milano, Moizzi Editore, 1977, p. 99):

«Il genere umano conserva nella sua memoria collettiva  il ricordo di una Terra Santa, di una Terra d’Immortalità, di una Terra dei Beati, di un luogo in cui si sarebbe conservata la Tradizione Primordiale dell’Umanità, la Tradizione di quel mondo in cui tutti gli uomini vivevano una condizione diversa da quella attuale, il ricordo di quell’epoca che viene generalmente definita Età dell’Oro.
I miti tradizionali e quelli dei popoli arcaici  parlano di un mondo, di un luogo nascosto , di un Centro Supremo in cui vivono da millenni uomini che non conobbero il dramma della caduta  e che conservano le antiche modalità d’essere dell’umanità perfetta delle origini.  Secondo il pensiero tradizionale, secondo molti miti arcaici, non tutti gli uomini dell’Età dell’Oro perirono  nel cataclisma che ne segnò la fine, alcuni scomparirono, si ritirarono in un luogo occulto.
Si passa dunque dal ricordo dell’epoca aurea  alla credenza in un regno metafisico, in un universo trascendente nascosto all’umanità profana che però manterrebbe con esso dei contatti tramite i Grandi Iniziati, le leggi dei legislatori primordiali, e tutti coloro che in diversi modi conservano dei legami  con questa sede occulta. È il mito universale di un essere chiamato Re dei Re,  o Signore dell’Universo, o Re del Mondo e del suo misterioso reame.»

Ora, lo spostamento del mito di Shambhala dal piano del ricordo storico a quello della credenza metafisica testimonia precisamente il progressivo allontanamento dell’umanità dal piano della consapevolezza spirituale a quello del Logos.
Da quando si è stabilita l’arrogante signoria del pensiero strumentale e calcolante, è diventato necessario esprimere i concetti in termini di rigorosa separazione tra spirito e materia; e, in questo senso, è divenuto necessario parlare di Shambhala come di una realtà immateriale e trascendente. Ma la verità è che la tradizione relativa a Shambhala, così come altri miti di significato affine, non giacciono su un piano di realtà immateriale, ma extra-materiale; e li si può definire “spirituali” solo a patto di precisare che, in essi, la dimensione immanente non è negata, ma oltrepassata, così come la realtà del corpo non è negata, ma trascesa da quella dell’anima, mentre non sarebbe mai possibile il processo inverso.
In altre parole, il linguaggio e i concetti ad esso sottesi hanno dovuto adattarsi alle condizioni di una umanità decaduta, che ha smarrito la propria unità spirituale originaria e che balbetta in maniera goffa e imprecisa la propria nostalgia dell’Essere.
Per dirla con le parole di un insigne studioso italiano, Elémire Zolla, noi siamo pervasi da quella che si può definire «l’umana nostalgia dell’infinito»; ovvero la nostalgia dell’interezza, poiché noi siamo una scheggia dell’infinito, una scintilla dell’Essere.
E il mito di Shambhala, l’inafferrabile, è un modo di esprimere questo concetto: che in noi alberga l’infinito, e che il luogo della saggezza, della pace, dell’amore, lo dobbiamo trovare innanzitutto nella nostra anima, per saperlo poi riconoscere anche nella realtà esterna.