Il cavalier vincente
di Massimo Fini - 19/04/2006
Calcio e Politica. Perché il Cavaliere ha di sè un'immagine "vincente" e non è capace di accettare la sconfitta ?
Il 20 marzo del 1991 si giocava Olimpique Marsiglia-Milan, semifinale di Coppa dei Campioni (allora, bei tempi, si chiamava ancora così) che la squadra rossonera aveva meritatamente vinto nei due anni precedenti. A cinque minuti dalla fine il Milan stava perdendo 1-0 (gol di Waddle), il che voleva dire l'eliminazione dalla competizione. Ci fu il black-out di uno dei quattro riflettori dello stadio. I dirigenti rossoneri lo presero a pretesto per cercare di invalidare la partita. Si assistette a scene penose: celebrati campioni come Baresi e Gullit che, incitati da Galliani, cioè da Berlusconi, indicavano all'arbitro, con ampi e sconsolati gesti, il riflettore spento, scuotendo la testa e sostenendo che non c'era luce sufficiente per giocare, mentre sul campo si vedevano persino le monetine da un franco che gli infuriati tifosi marsigliesi vi stavano gettando. Ma Baresi e Gullit continuavano a vagare per il terreno di gioco, andando a tentoni, ciechi come Edipo dopo l'incesto.
L'arbitro fece cenno ai giocatori milanisti di piantarla con quella manfrina: sul campo ci si vedeva più che a sufficienza e la partita poteva essere portata a termine regolarmente. Allora la società rossonera ritirò la squadra, una cosa mai vista, né prima né dopo, non solo in campo internazionale ma nemmeno nel più scalcagnato torneo interregionale. E il Milan si prese una squalifica per un anno da tutte le competizioni europee. Nella primavera del 1992 si giocava a Bergamo Atalanta-Milan di Coppa Italia. Massaro cadde in area bergamasca e restò a terra. Stromberg correttamente calciò la palla in fallo laterale, per permettere al milanista di essere soccorso. Essendo svedese la buttò fuori dove si trovava, all'altezza dell'area di rigore, mai pensando che gli avversari non l'avrebbero restituita, com'è d'uso e anzi regola, anche se non scritta, su tutti i campi del mondo. Invece l'ottimo Maldini, rimettendo in gioco con le mani, lanciò il pallone a Massaro, che nel frattempo si era rialzato, Borgonovo cadde e fu rigore. Tra lo stupore dell'intero stadio capitan Baresi trasformò (un episodio talmente inaudito che ancora oggi, a quasi quindici anni di distanza, il Milan ha qualche problema quando gioca a Bergamo).
E si trattava solo di Coppa Italia, una competizione che, storicamente, le "grandi" lasciano alle squadre di rango inferiore. Ma quell'anno Berlusconi, confondendo forse il calcio con il tennis, voleva centrare il Grande Slam: vincere Coppa dei Campioni, Campionato, Supercoppa, Coppa Intercontinentale e Coppa Italia, tutto.
Nella stessa stagione del fattaccio Stromberg-Massaro, il Milan, qualche mese dopo, si giocava il campionato a Verona, campo spesso fatale ai colori rossoneri. A pochi minuti dalla fine il Verona andò in vantaggio, 2-1, e lo scudetto milanista in fumo. Altro che Grande Slam. Allora si vide un uomo solitamente freddo come Van Basten togliersi la maglia, buttarla istericamente a terra, calpestandola come un bambino fa con un giocattolo per la rabbia di averlo rotto. E altri ragazzi solitamente sereni come Rijkaard e Tassotti perdere letteralmente la testa.
Cos'era successo a Marsiglia, a Bergamo, a Verona, ai vari Baresi, Gullit, Maldini, Massaro, Borgonovo, Van Basten, Rijkaard, Tassotti? Erano impazziti? O dovevano essere considerati più sleali e isterici dei loro colleghi di altre squadre? Niente di tutto ciò, naturalmente. È che il peso che gravava sulle loro spalle non era semplicemente quello di una partita di calcio o della vittoria in una competizione pur importante e nemmeno quello dei consueti interessi economici che vi gravitano attorno, era il peso ben più rilevante degli interessi (economici e in seguito anche politici) di Fininvest-Mediaset e del loro proprietario. Ma soprattutto era il peso della personalità di Silvio Berlusconi.
Perché il Cavaliere ha di sè un'immagine "vincente" e non è capace di accettare la sconfitta. Non la concepisce. Non intendo con ciò sminuire o negare i meriti e le doti del Cavaliere, constato solo che Berlusconi non sa perdere. E questa sua incapacità deriva da un'altra sua peculiarità che pure si poteva ricavare dal suo comportamento nel mondo del calcio. Era diventato da poco presidente del Milan che dichiarò: "Non capisco perché a San Siro debbano entrare anche i tifosi delle altre squadre togliendo il posto ai nostri. San Siro deve diventare solo rossonero" (Gazzetta dello Sport, 10/10/1988).
Il fatto è che Berlusconi non concepisce "l'altro da sè". Vorrebbe un mondo ecumenico, il suo, dove gli avversari, di pura parata, esistono solo per esaltare le sue vittorie o per convincersi delle sue convinzioni. E se questo non avviene ne rimane profondamente, intimamente, sinceramente deluso e ferito. Non ci può credere. Sono persuaso che non sia solo strumentale, ma che sia sincero quando bolla tutti coloro che non lo condividono (avversari politici, giornali, nazionali e stranieri, opinionisti, intellettuali) come "comunisti". Solo se si è dalla parte del Male non si può capire il Bene che egli è sinceramente convinto di rappresentare. Così come sono persuaso che, per le stesse ragioni, è sincero quando definisce "coglioni" quelli che non lo votano. E ritengo che sia sincero quando pensa che se potesse parlare personalmente, a uno a uno, a coloro che non lo capiscono li porterebbe dalla sua parte. È totalmente egoriferito.
Del resto sono sempre state personalità di questo vago delirio di onnipotenza a fare grandi cose. Che poi, da Cristo a Hitler, siano le meglio o le peggio è cosa che non intendo affrontare qui. Aggiungo solo che non sto a mia volta maramaldeggiando su uno sconfitto o su un quasi sconfitto, perché ho scritto le stesse cose sull'Europeo, nel 1995, quando Berlusconi era all'apice della sua potenza e una buona parte d'Italia delirava per lui ("Bastava il Milan per capirlo", Europeo; 11/1/1995).
E così per la prima volta nella storia di una democrazia matura vediamo un candidato premier che non accetta la sconfitta (sia pur di misura, sia pur rocambolesca, sia pur, in parte, favorita dal grottesco voto degli italiani all'estero, gente lontana dall'Italia da trenta, da quarant'anni che del nostro Paese sa certamente meno di un immigrato - ma è stato il centrodestra e il mio buon amico Mirko Tremaglia a volere quella legge). Che non la concepisce. Che non la capisce. E non può che attribuirla a brogli, ad artifizi, a malefizi, alla cattiveria umana. Eppure fu solo per 300 voti che Al Gore perse la Florida, e la Casa Bianca, ma negli Stati Uniti non è successo ciò che sta succedendo da noi.
D'altro canto se Berlusconi non sa perdere, i suoi avversari stanno dimostrando di non saper vincere, qualità ancora più difficile da esercitare (è nella vittoria che si rivela l'uomo, perché nella sconfitta diventiamo tutti simpatici). E la prima regola del saper vincere è quella di non voler stravincere, di lasciare all'avversario l'onore delle armi, tanto più se lo si è superato al fotofinish. E invece, come documenta Gian Antonio Stella nel suo consueto bell'articolo sul Corriere della Sera (16/4), i vincitori di giornata - o molti di loro - si sono lasciati andare a dichiarazioni trionfalistiche e roboanti, tanto più grottesche se rapportate alle proporzioni striminzite del loro successo.
E così il cittadino italiano, che è andato diligentemente a votare, come gli era stato chiesto, e quasi implorato, di fare, assiste, allibito, allo spettacolo indecoroso, che ci precipita ai livelli delle pseudodemocrazie di certi Paesi del Terzo Mondo, che ci stanno offrendo gli uomini politici di entrambi gli schieramenti e di tutti i partiti, ballando, indifferenti a tutto ciò che non sia il loro "particulare", sull'orlo del vulcano. E si chiede se, per caso, non avesse ragione Guglielmo Giannini, il creatore dell'"uomo qualunque", quando nel 1946, anticipando i tempi, proponeva che a governare l'Italia fosse messo un "Ragioniere dello Stato", con un incarico, non rinnovabile, di cinque anni.