I libri di Richard Sennett, sociologo e docente al Mit di Boston e alla London School of Economics, sono sempre estremamente interessanti. In particolare vanno ricordati Il declino dell'uomo pubblico (Bompiani 1982), L'uomo flessibile (Feltrinelli 2001), Rispetto (il Mulino 2004).
I suoi testi, oltre a essere ben documentati e ricchi di intuizioni originali, sono animati dalla stessa appassionata "volontà di capire", che ad esempio distingueva l'opera di Christopher Lasch.
Anche quest' ultimo testo, La cultura del nuovo capitalismo (il Mulino 2006), merita di essere letto attentamente. Nel libro Sennett, sostanzialmente, si occupa di flessibilità. Senza inutili demonizzazioni, ma anche senza fare sconti intellettuali di nessun genere . Per certi aspetti il suo tentativo di ricondurre il lavoro flessibile nell'alveo di una società di welfare, ricorda quello di Durkheim, rivolto a facilitare l'integrazione sociale dei lavoratori di fine Ottocento, alle prese con la moderna divisione sociale del lavoro.
Entrambi si interrogano su come introdurre elementi di solidarietà all'interno di società prive di calore comunitario. Durkheim, che viveva nella Francia della Terza Repubblica propose un comunitarismo repubblicano e democratico su basi corporative. Una specie di "pre- welfare state" fondato sul mutualismo sindacale e di mestiere. E con lo stato repubblicano e i professori universitari, come supremi garanti di un'etica sociale severa ma giusta.
Sennett, si muove in un contesto diverso, dove la divisione sociale del lavoro, non riguarda più stati e nazioni, ma l'economia-mondo . Il capitalismo, rispetto ai tempi di Durkheim, si è fatto più aggressivo e soprattutto meno attento agli imperativi etici e sociali. E dispone di tecnologie avanzatissime che favoriscono la delocalizzazione produttiva su scala mondiale. La "cultura del nuovo capitalismo" offre più libertà economica ma meno sicurezza. Il che, per le figure lavorative penalizzate dalla flessibilità, significa non poter più pianificare l'esistenza. Ma veniamo alle proposte di Sennett.
In primo luogo, va garantita tra un lavoro e l'altro una dignitosa conituità assistenziale e previdenziale: il lavoratore "flessibile" non deve mai sentirsi solo, o peggio, abbandonato. Intorno a lui deve essere creata una rete comunitaria che ne garantisca la "continuità biografica", o per farla breve, la sua identità personale e sociale di cittadino.
In secondo luogo, va di nuovo attribuita rilevanza sociale al lavoro: il lavoratore, soprattutto se flessibile, deve tornare a sentirsi socialmente importante.
In terzo luogo, va pubblicamente incoraggiata nei singoli la consapevolezza del lavoro ben fatto. E questo a prescindere dai lavori che possano essere via via svolti. Sennett parla addirittura del recupero di una "sensibilità artigianale", come "impegno interiore". Il lavoratore deve credere nel valore oggettivo del proprio fare, "al di là dei propri desideri e perfino al di là delle ricompense date da altri" (p. 144).
Queste proposte possono essere criticate. Resta però un fatto indiscutibile: nelle nostre società, così prigioniere di un individualismo spesso aggressivo, Sennett orgogliosamente ribadisce la necessità di riscoprire lo spirito comunitario, indicando alcune piste.
L'economia da sola non risolve tutto. E non è un "destino". Se si vuole tornare a credere nel futuro, allora, non è più accettabile tradurre ogni rapporto umano in denaro. Come già sosteneva Durkheim, e ancora prima Proudhon, non basta dire all'altro: "Ti ho pagato, hai quel che ti spettava, ora sparisci..." Le società si reggono su principi più profondi: senso di appartenza, rispetto e solidarietà.
Certo, oggi non è facile riproporre e rendere operanti questi valori. Soprattutto in una società dove sembra prevalere solo l'egoismo: Ma, che se ne torni di nuovo a parlare, non è cosa da poco.
E questo, comunque sia, è il merito principale di Sennett.