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È possibile aspirare alla felicità anche nell’ultimo giorno della propria vita

di Francesco Lamendola - 26/02/2010

 

Cara amica, sappiamo noi due soli, tu ed io, che il tuo male è incurabile, anche se nessuno può dire quanti giorni ti siano ancora riservati in questa vita terrena.

Hai portato in solitudine questo fardello, sicché nemmeno le persone più intime ne sono a conoscenza; e la tua scelta di mantenere il silenzio, così come quella di non sottoporti a cure invasive e di affidarti solo alla fede e alla preghiera, è stata favorita dal decorso tranquillo della malattia, che non si è finora manifestata in modo evidente.

Siete in due a saperlo, oltre a me: tu e lei; vi fate compagnia a vicenda. È il vostro segreto, e ciò crea una strana, paradossale complicità tra di voi: in un certo senso, come fra la preda e il cacciatore. Ma chi è la preda e chi è il cacciatore? Non sono sicuro di saperlo: tu, comunque, non mi sembri una preda.

Il tuo abbandono non è rassegnazione, non è stanchezza, ma è frutto di una libera scelta che io rispetto, pur non condividendola. Un mio carissimo amico, affetto dalla stessa malattia, si è sottoposto alla cura e sta avendo ottimi risultati: non è stata una terapia devastante; non lo è quasi mai, quando si tratta di questo male specifico.

Ma non è di ciò che dobbiamo parlare, ora, io e te. Non è della tua malattia, con la quale hai già fatto i conti e alle cui conseguenze ti sei già preparata con piena consapevolezza, affidandoti a Chi sa che cosa sia meglio per ciascuno di noi.

Ora dobbiamo parlare della felicità.

Tu mi hai chiesto che cosa intendo, esattamente, con questa parola, riferita ad una persona che si trovi nella tua condizione.

Senza avere la minima pretesa di farti una lezione - cosa di per sé sconsiderata, e che lo sarebbe tanto di più, nella presente situazione -, voglio provare a spiegarti, forse meglio di quanto abbia saputo fare a voce, che cosa intendevo dire.

Le questioni sono due: che cosa sia la felicità e che cosa sia la morte; e poi una terza: che cosa possa significare il concetto di felicità per una persona che si trova, in perfetta coscienza di sé, davanti all’incombere della morte.

Ti dico subito che non cercherò di sbrigarmela con un gioco di parole, come mi sembra faccia Epicuro quando afferma che la morte non va temuta perché, fino a quando ci siamo noi, lei non c’è; e quando c’è lei, noi non ci siamo più: per cui essa, a parere di quel filosofo, sarebbe un qualcosa che non ci riguarda affatto.

Invece ci riguarda, eccome. Ci riguarda sempre, quando siamo giovani e quando siamo vecchi; quando siamo sani e quando siamo malati. Tuttavia è evidente che ci riguarda in modo particolare quando non siamo più giovani e quando ci troviamo nel suo cono d’ombra, consapevoli di avere il tempo contato.

Mi sembra molto più giusta la sentenza di Platone, per il quale filosofare non è altro che prepararsi a morire. Infatti, mi sembra che solo nel morire si sciolga l’enigma della nostra esistenza terrena e che solo in vista del morire noi possiamo dare un orientamento preciso e consapevole a questa nostra vita che, altrimenti, rischierebbe di andare errando qua e là, senza una direzione precisa, come fanno i meandri di un fiume che pigramente si snoda in pianura, senza alcuna fretta di raggiungere la sua meta finale, la grande pace del mare.

Tu ti stai avvicinando a quella grande pace, anche se non sai quando ciò avverrà; del resto, tutti ci stiamo dirigendo verso di essa, dal momento in cui veniamo concepiti nel seno materno. Ma è chiaro che sapere di avere davanti a sé, secondo una forte probabilità, molti e molti anni da vivere, non è la stessa cosa che sapere di averne pochi e di accogliere ogni nuovo giorno come un dono prezioso, che non si sa se verrà rinnovato l’indomani.

Dunque: la felicità.

La definizione più semplice ed efficace che io conosca è stata data da San Tommaso d’Aquino, otto secoli fa: essere felici è conoscere e amare il Sommo Bene.

Ma tu mi chiedi: come si può pensare alla felicità, quando si hanno davanti ancora pochi mesi o pochi giorni di vita? E, soprattutto, quando si ha alle spalle una vita fatta quasi solo di dolori, di amarezze, di solitudine - in breve, una vita mancata?

Stretta nella morsa fra il presente che fugge via e il passato che pesa come un macigno, ti senti come presa in trappola e annaspi, simile ad un naufrago che non trovi nemmeno un relitto cui aggrapparsi nella vastità ostile del mare.

Bene, io partirei proprio da quest’ultima immagine: quella del mare. Forse esso non è così ostile come può apparire, sul momento, al naufrago; forse il segreto è proprio quello di non aggrapparsi, di non fare movimenti convulsi - tali sono l’angoscia del domani e il rimpianto dell’ieri - e di lasciarsi cullare dolcemente dalle onde del mare, che, nella sua infinita saggezza, sostiene benevolmente i corpi che gli si abbandonano con fiducia.

Vedi? Non ti dico delle frasi rassicuranti, ma un po’ ipocrite, del tipo: «Ma forse ti restano ancora molti anni da vivere, nonostante tutto»; o come: «Però la tua vita, forse, non è stata poi così brutta come la descrivi». No: partiamo pure dall’accettare questi due dati di fatto: che ti resti ancora relativamente poco tempo da vivere e che nel tuo passato, pur sforzandoti, con tutta la buona volontà, di guardare meglio, tu non riesca a vedere se non pochissimi momenti lieti, che si possano ricordare con dolcezza.

Ebbene: ha ancora senso parlare di una felicità possibile, per una persona che sui trovi in tali condizioni?

Ti rispondo di sì, senza esitazioni; e sono consapevole di fare un’affermazione audace. Non stiamo parlando di arzigogoli intellettuali, ma di cosa di decisiva importanza.

Cara amica, noi non viviamo nel passato e nemmeno nel futuro.

Certo, il passato è importante; esso ha forgiato la nostra anima e ha fatto di noi quello che attualmente siamo; ma ciò non significa che dobbiamo considerarci suoi prigionieri e suoi schivavi. Niente affatto: l’anima della persona desta e consapevole evolve continuamente e, come un ragazzo che sta crescendo, esige che i vestiti per lui confezionati nell’infanzia vengano allargati o sostituiti da altri, più confacenti alla sua maturazione e al suo sviluppo.

Quanto al futuro, esso è quello che noi desideriamo che sia: se ci aspettiamo da esso cose belle, cose belle ci arriveranno; se ci aspettiamo cose brutte, ci giungeranno cose brutte. Non prendere queste parole come un semplice modo di dire: perché il fatto di vivere le nostre esperienze in senso positivo o negativo dipende molto più da noi che dalle cose in se stesse, dalla loro pretesa realtà oggettiva (che, invece, non è mai veramente tale).

Perciò, né i dolori passati né i timori del futuro dovrebbero condizionare il tuo presente. Il tuo presente è fatto di istanti, così come lo è quello di qualunque altro essere umano: sia del bambino che ha davanti a sé, presumibilmente, una vita ancora assai lunga, sia del vecchio cadente, che si chiede ogni giorno se l’indomani ce ne sarà un altro per lui.

Vedi che non ti faccio sconti, che non cerco di addolcirti la pillola. So che, secondo le probabilità umane (le quali, peraltro, non sono infallibili) ti resta poco da vivere; e so che la tua vita, fin qui, non è stata lieta, ma, anzi, costellata di dolori e rinunce.

E allora? Dovrei forse compartirti? No di certo; se ti compatissi, non ti stimerei e non sarei coerente con quanto detto or ora: che noi tutti, cioè, viviamo nel presente; e il presente è a disposizione di ciascuno.

Tu sei padrona del tuo presente, così come io o chiunque altro siamo padroni del nostro: e questo è tutto. Nessuno poterebbe domandare di più alla vita. Forse che una persona sana e piena di forza può avere la matematica certezza che domani non sarà morta, magari per un banale incidente, travolta dalle ruote di un camion?

«E che cosa posso farmene del mio presente - mi domandi - sola, malata, senza gioie dietro le spalle da ricordare e senza gioie davanti a me da poter immaginare?».

Ti rispondo: puoi trovare la pace con te stessa e, con essa, la felicità.

So che tu sostieni di aver già trovato la pace. Tuttavia, consentimi di sospettare che ciò non corrisponda interamente al vero: troppi rimpianti intuisco nelle tue parole e troppa amarezza; troppa rinuncia e troppo sacrificio della tua parte più intima e vera.

Pur nutrendo il massimo rispetto delle tue convinzioni religiose, ho piuttosto l’impressione che la fede, per te, sia un rifugio dalle tempeste dell’angoscia e del rimpianto.

È un atteggiamento legittimo e degno di rispetto; ma non è quello che io intendo allorché affermo che una persona può essere felice, o trovare la felicità, anche nell’ultimo giorno e nell’ultima ora della propria vita.

Del resto, ho l’impressione che anche tu abbia il sospetto che vi sia qualcosa che non quadra, nella rappresentazione di te stessa che stai facendo in questa fase della tua vita. Dici di aver trovato la serenità, ma ti sento tormentata. Dici di aver scordato le passioni, ma mi confessi che il tuo ultimo pensiero, in questa tua vita mortale, sarà di tipo passionale.

Ho molto apprezzato questa tua bella sincerità, ma appunto essa mi sprona a ricambiarla con eguale franchezza: è necessario lasciar cadere i veli dell’inautenticità, quando ci si accinge a salpare le ancore per l’ultimo, misterioso viaggio.

Tutti dovremmo farlo, sempre, ogni giorno della nostra vita; ma a maggior ragione dovrebbero sforzarsi di farlo coloro i quali già intravedono, attraverso le brume, la costa di quel nuovo, sconosciuto continente, del quale tutti parlano e sul quale tutti si interrogano, ma da cui nessuno è mai tornato per recarne notizie più precise.

Tu affermi, in base a certi sintomi che consideri inequivocabili, di essere ormai quasi in vista di quella costa sconosciuta, di quelle scogliere battute dai marosi: ebbene, ecco un’ottima ragione perché io ti parli con lealtà e senza giri di parole.

Per trovare la pace, non basta immergersi nelle preghiere: bisogna accettarsi fino in fondo, amarsi fino in fondo, perdonarsi fino in fondo; senza residui, senza condizioni, senza ripensamenti. Bisogna fare la pace con se stessi e con il proprio passato.

Non si tratta solo di perdonare gli altri: dobbiamo prima perdonare a noi stessi. Perdonarci non solo di quello che abbiamo sentito, pensato, fatto; ma anche di tutto quello che non abbiamo saputo o voluto sentire, pensare e fare. Dobbiamo essere abbastanza umili e abbastanza forti da perdonare le nostre infedeltà alla parte più vera e profonda della nostra anima; infedeltà che abbiamo commesso per salvare le nostre maschere sociali, i valori da noi proclamati ma forse non sentiti intimamente, e soprattutto per scusare la nostra inerzia e la nostra viltà.

Questo discorso vale per ciascun essere umano; non prenderlo come rivolto a te specificamente. Ciascuno può e deve essere giusto giudice di se stesso; ciascuno possiede i mezzi per comprendere se e fino a che punto egli sia stato infedele alla propria verità interiore. Perché il peccato più grave è proprio questo: aver tradito se stessi.

Solo quando si sia fatta la pace con questa zona rimossa della propria anima, solo allora si può trovare la vera pace interiore. Ma per esserne capaci, bisogna capire che non vi è alcun giudice esterno che ci giudicherà, ma che il giudice siamo noi stessi.

Quando si è giunti a quel punto, ci si accorge di essere pronti per scendere al centro della propria anima, e per trovarvi, intatto e sfolgorante, il tesoro più prezioso: l’Essere dal quale veniamo e al quale aspiriamo a ritornare, che tu chiami Dio.

Egli è al centro della nostra anima; così che, se noi riusciamo ad arrivarvi, troviamo anche Lui: e, con ciò, la felicità perfetta.

Hai ancora del tempo, davanti a te, per goderne: un tempo qualitativo, ove i minuti possono valere come dei giorni, delle settimane o dei mesi.

Fanne buon uso.

Non è troppo tardi.