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Usa, le banche pagano a destra (e guardano a sinistra)

di Michele Paris - 26/02/2010

Con il crescere del malcontento tra il popolo americano per i profitti record delle grandi banche di investimento di Wall Street - in larga misura responsabili del tracollo finanziario che ha innescato la crisi economica - è emerso negli ultimi mesi un improbabile lato populista del presidente Obama e degli altri leader del suo partito. Dopo gli attacchi ai potenti manager, che continuano a raccogliere enormi bonus grazie al salvataggio delle proprie compagnie garantito dal denaro pubblico, dalla Casa Bianca e dalla maggioranza al Congresso sono giunte alcune modeste proposte di legge per regolare il sistema finanziario americano. Una svolta che però non è piaciuta ai potenti banchieri, che hanno così deciso di chiudere i rubinetti dei finanziamenti elettorali ai democratici per dirottarli verso i rivali repubblicani.

A rendere pubblico il cambiamento d’umore dell’élite finanziaria d’oltreoceano è uno studio dei flussi dei contributi redatto da un istituto indipendente (Center for Responsive Politics) per il Washington Post. La retorica di Obama, in particolare, avrebbe spinto i generosi colossi di Wall Street a voltare le spalle ai democratici, i quali all’inizio del 2009 incassavano dall’industria finanziaria oltre il doppio rispetto ai repubblicani. Entro la fine dello scorso anno, l’atmosfera era cambiata al punto che questi ultimi si erano assicurati complessivamente la metà del denaro erogato dalle banche commerciali e d’investimento americane. Ancor più significativo è poi il dato dell’ultimo trimestre del 2009, durante il quale candidati e parlamentari repubblicani hanno ricevuto due volte tanto quanto è stato donato ai democratici.

Il trionfo elettorale di Obama del 2008 era arrivato anche sull’onda di una straordinaria capacità di intercettare ingenti contributi in denaro elargiti dalle banche più importanti. Insolitamente, il candidato democratico alla presidenza aveva ottenuto un numero maggiore di donazioni in questo ambito rispetto a quello repubblicano. Obama, infatti, era giunto allo storico election day che l’avrebbe proiettato alla Casa Bianca con 18 milioni di dollari ricevuti dalle banche e dai loro dipendenti, contro 10 milioni di John McCain.

Donatore principe della sua campagna elettorale era stata J. P. Morgan Chase, il cui amministratore delegato e presidente, Jamie Dimon, è un aperto sostenitore del presidente. Nel corso del 2009, ben 500 mila dollari sono stati distribuiti in contributi elettorali da J. P. Morgan, i cui destinatari sono però cambiati con il passare dei mesi. Mentre nel primo trimestre i democratici hanno beneficiato del 76% del totale, negli ultimi tre mesi dell’anno ai repubblicani è andato il 73% dell’intera torta.

Sempre in relazione all’anno scorso, J. P. Morgan ha sborsato 30 mila dollari a favore dei comitati elettorali repubblicani per le votazioni di medio termine del prossimo novembre, mentre quelli democratici sono rimasti all’asciutto. La logica è molto semplice, come ha fatto notare una fonte interna alla compagnia di Wall Street: i vertici della banca non hanno intenzione di sostenere candidai democratici che utilizzerebbero i fondi ricevuti per appoggiare iniziative che potrebbero danneggiare i loro interessi.

Le banche d’investimento e, in maniera ancora più marcata, quelle commerciali, hanno d’altra parte finanziato massicciamente lo schieramento repubblicano negli ultimi decenni. L’entusiasmo per i democratici - i quali si trovano nella difficile situazione di dover teoricamente sostenere anche gli interessi del lavoro organizzato, dal momento che ricevono importanti contributi dai sindacati - sembra essere durato ben poco e, in sostanza, è coinciso con l’irresistibile ascesa di Obama nel 2008 e i suoi primi mesi da presidente.

I repubblicani, da parte loro, dopo avere a lungo criticato i democratici per il loro rapporto simbiotico con l’alta finanza statunitense, non hanno esitato a fare appello alle banche di Wall Street per fare ritorno all’ovile, chiedendo apertamente il loro aiuto per battere una maggioranza congressuale e un presidente che, dal loro punto di vista, non potrà che finire col danneggiare i grandi interessi finanziari.

A ben vedere, tuttavia, i risentimenti delle grandi banche nei confronti dei democratici non sono del tutto giustificati. Se nel paese - e in parte della classe politica - sono palpabili i malumori verso una casta di multimiliardari, che si è arricchita grazie a pratiche rischiose e con il salvagente del denaro federale, le proposte in campo per porre un freno alla deregulation che regna nel settore finanziario non appaiono particolarmente incisive.

Il piano comprensivo di riforma voluto da Obama giace da mesi al Congresso in seguito alla mancanza di un accordo tra maggioranza e opposizione, e tra gli stessi democratici. La creazione di un’agenzia indipendente che protegga i piccoli investitori dagli abusi delle grandi compagnie continua a trovare ostacoli anche a causa dell’intensa attività di lobby delle stesse banche. La stessa tassa annunciata dalla Casa Bianca sulle attività bancarie, se mai vedrà la luce, risulta infine di portata estremamente modesta. Tanto è però bastato ai giganti di Wall Street per restringere i cordoni della borsa a favore del partito di maggioranza.

La tendenza che sta emergendo per quanto riguarda i contributi elettorali pone in ogni caso i democratici in una difficile situazione. Se il legame tra i banchieri e il Partito Repubblicano può fornire uno strumento formidabile per attaccare i rivali di fronte ad un’opinione pubblica sempre più insofferente, allo stesso tempo la mancanza di quel denaro che, fino a pochi mesi fa, giungeva in grande quantità da Wall Street, si farà sentire in una campagna elettorale che promette ancora una volta di essere molto competitiva.

Una pericolosa prospettiva per il prossimo futuro che metterà di nuovo Obama e i democratici nella difficile posizione di bilanciare il populismo e la retorica anti-Wall Street con la necessità di strizzare l’occhio a quella stessa élite finanziaria che continua ad esercitare un peso decisivo sulla politica americana. Un’ambiguità rischiosa che lo stesso presidente si dimostra incapace di sciogliere quando, da un lato, continua a definire “vergognosi” i bonus e i profitti dei banchieri e, dall’altro, esalta ed esprime ammirazione incondizionata per quegli stessi presunti “eroi” del capitalismo finanziario americano.