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Il futuro della libertà

di Giuseppe Giaccio - 26/02/2010

    


I giovani che, negli anni Settanta del secolo scorso, si accostarono alla politica sentendosi attratti dal suo versante destro – per ragioni che spesso non erano chiare neppure a loro e che, giudicate a posteriori, sulla scorta di una maturità faticosamente acquisita, appaiono magari risibili, pur avendo segnato, nel bene e nel male, intere esistenze – e che avevano qualche pretesa intellettuale, non accontentandosi di parole d’ordine, volantinaggi e attacchinaggi, si imbatterono, prima o poi, in due scritti di Adriano Romualdi molto famosi nell’“ambiente”, come allora si diceva, nel primo dei quali, La destra e la crisi del nazionalismo, non si esitava a denunciare, senza giri di parole, che «accenti, slogans, simboli e motivi di questa destra sono ormai qualcosa di superato, spesso di patetico e talvolta di ridicolo» e si descrivevano le sezioni missine come luoghi a metà «tra il negozio di rigattiere e il sepolcro»; mentre nel secondo, Idee per una cultura di destra, si forniva questo ritrattino ironico, ma veritiero, del rapporto che l’uomo di destra intratteneva con la cultura: «Fin che si rimane nella cultura egli è un bravo liberale, magari un po’ nazionalista e patriota. È solo quando incomincia a parlare di politica che si differenzia: trova che Mussolini era un brav’uomo e non voleva la guerra, e che i films di Pasolini sono “sporchi”»[1]. Queste, ed altre opinioni espresse in quei saggi da Romualdi con la sua abituale franchezza, esercitarono una profonda influenza sul mondo giovanile che però ne trasse lezioni diverse e non convergenti. Alcuni ritennero che il modo migliore per uscire dal sepolcro o dal negozio di rigattiere e per tentare di darsi un volto politico-culturale all’altezza dei tempi fosse quello di riscoprire e riproporre le potenzialità dei fascismi, in particolare di quelli “sconosciuti”, minoritari, liberandoli dalla polvere di una interpretazione in chiave piccolo-borghese che ne tarpava le ali, o di ricorrere a una nebulosa Tradizione (rigorosamente con la maiuscola) incorrotta, incontaminata e fuori dal tempo. Questa è la soluzione proposta dalla “destra radicale”. Altri, invece, dopo aver attraversato i territori della destra radicale, si convinsero che il fascismo fosse un fenomeno da consegnare alla storia e agli storici (bisognava, si disse, “uscire dal tunnel del fascismo”) e che un antagonismo serio dovesse trarre i suoi elementi oppositivi dal mondo di oggi e non da quello di ieri. Di qui la coltivazione di tematiche che sono andate via via coerentemente enucleandosi e che erano tutte potenzialmente presenti fin dall’inizio nell’approccio scelto: il rifiuto del pensiero unico liberale nel quale si vedeva una nuova forma di totalitarismo, l’ecologia, la critica dell’Occidente a stelle e strisce, nemico principale dell’Europa, la proposta di un’alleanza Europa-Terzo mondo, la critica dello sviluppo, la ricerca di forme politiche più aperte alla partecipazione democratica e disancorate dal sistema lineare-assiale “destra-centro-sinistra”, la riformulazione in senso inclusivo di concetti come quelli di differenza, identità e comunità spesso adoperati per escludere, l’interesse per quelli che un tempo si chiamavano “nuovi movimenti”. Tutto ciò si tradusse in una vasta (tenuto conto delle dimensioni dell’area di riferimento) serie di iniziative: l’esperienza di Campo Hobbit, un fiorire di sigle editoriali, riviste, convegni. Questa è la strada indicata dalla “nuova destra”. Di fronte a questa varietà molto eterogenea di stimoli e analisi, il Movimento sociale assunse una posizione di sostanziale chiusura e tuttavia ambigua, in quanto non escludeva affatto un rapporto di tipo strumentale con una realtà giovanile di cui il Msi aveva comunque bisogno come il pane. In un’epoca in cui la politica non era ancora ridotta a spettacolo televisivo, a videocrazia, in cui le piazze non erano ancora quelle mediatiche, bensì quelle reali, dove la presenza fisica e la visibilità bisognava conquistarsele con mezzi spesso non pacifici, i giovani, per un partito collocato fuori dell’arco costituzionale e perciò ghettizzato, rappresentavano una risorsa mobilitante indispensabile per tenere aperte le sezioni e le federazioni e garantirsi un minimo di agibilità politica. Il Fronte della Gioventù, organizzazione giovanile missina, e la corrente rautiana all’interno del Msi fungevano da camera di compensazione, in cui lasciar sfogare e, contemporaneamente, tenere sotto controllo gli umori dell’irrequieta base giovanile. L’immagine, spesso rimproverata e rinfacciata a Giorgio Almirante, della politica in doppiopetto sotto il quale si nascondeva il manganello, aveva qui, in questo contrastato rapporto, le sue radici. Da un lato, il Msi aveva, in sostanza, accettato il mondo sorto nel dopoguerra, caratterizzato dalla divisione in due schieramenti contrapposti, aderendo al blocco occidentale, entrando nelle istituzioni, partecipando alla vita democratica fatta di elezioni, sostegni a governi e giunte, ecc. E a quel mondo finiva con l’essere organico, sia pure in posizione marginale. Pertanto, non poteva che sconfessare le tesi e l’azione della destra radicale, che vedeva in quel blocco, guidato dagli Stati Uniti, il segno della sconfitta dell’Europa, nonché le indicazioni metapolitiche della nuova destra che rischiavano di indebolire fino a vanificarlo un riferimento al fascismo che, per quanto depotenziato, costituiva ad ogni modo un utile richiamo identitario (in questo caso, funzionava l’accusa di tradimento). Dall’altro lato, i giovani contestatori erano comunque, sia nell’immediato sia in prospettiva, una carta della quale sarebbe stato sciocco privarsi.
Con la fine degli equilibri di Yalta, anche il panorama politico italiano è entrato in fibrillazione. Abbiamo assistito, per quanto concerne la destra, allo spegnersi della fiamma del Msi, alla nascita di Alleanza nazionale e alla sua confluenza nel Popolo della libertà. Tuttavia, se proviamo a guardare più in profondità nel percorso dell’area un tempo missina, guidata dall’ex “delfino” di Almirante, Gianfranco Fini, ci accorgiamo che, dietro le sue prese di posizione che hanno suscitato scalpore sia fuori che dentro il suo stesso partito[2], vi è una sostanziale continuità, che la politica di Fini è “almirantismo” puro, ovviamente adattato ai mutati tempi storici. L’almirantismo è appiattimento sull’esistente, che un tempo equivaleva ad accettare l’azione degli Stati Uniti in politica estera e il ruolo di cardine politico svolto dalla Democrazia cristiana in politica interna. Il Movimento sociale, nel corso della sua travagliata storia, ha detto di sì sia all’Alleanza atlantica, sia al regime democratico/democristiano, pur denunciato a parole, uscito vincente dal conflitto mondiale e nel quale il Msi si scavò una nicchia elettorale oscillante tra il 2% dell’esordio elettorale alla Camera dei deputati nel 1948 e il 9% delle elezioni del 1972 al Senato, giocando sul doppio registro dell’entrismo con funzione di ruota di scorta e del titillamento degli umori rivoluzionari della base giovanile, ma anche dei quadri intermedi, sensibili a certi richiami, o per ragioni anagrafiche, o per influenze familiari, o per semplice gusto di essere o apparire “contro”. Fini si muove in maniera sostanzialmente analoga, ovviamente in un quadro politico notevolmente cambiato. Il suo appiattimento sull’esistente è totale, come dimostra Il futuro della libertà, dove, all’interno della cornice letteraria di un discorso rivolto ai giovani, troviamo elencati e magnificati tutti i luoghi comuni indispensabili per entrare nell’establishment dalla porta principale (e qui rinveniamo una importante variante rispetto al Msi di Almirante e, molto di più, di Michelini che, pur appiattito, doveva accontentarsi di entrare dalla porta secondaria, stanti le sue ancora rivendicate origini fasciste): l’universalismo dei diritti umani, la libertà quale stella polare del nostro cammino sui tortuosi sentieri della storia; una libertà che, nel Novecento, ha vittoriosamente respinto l’assalto di potenti e agguerriti nemici come il nazismo, il fascismo e il comunismo – fenomeni di cui Fini dà una lettura più teologica che storica, presentandoli (nel caso del nazismo) come frutto di un «mistero satanico» di fronte al quale «la ragione vacilla e la mente si blocca»[2] o della superbia intellettuale che rifiuta di accettare la realtà, pretendendo di modificarla a proprio piacimento (com’è noto, la superbia è il classico peccato di Lucifero: non serviam). L’obiettivo è quello di costituire una «civiltà mondiale della libertà», la «libertà del XXI secolo, la libertà nuova, senza frontiere e senza barriere, la libertà di costruire in autonomia» la propria vita, una libertà che sia «al riparo dagli attacchi del male»[3]. Ed ancora: la globalizzazione che va governata, lo stato sociale da ripensare come fornitore di opportunità e non come centro di moltiplicazione della burocrazia e della spesa, l’integrazione e l’accoglienza degli immigrati, la fiducia e l’ottimismo con cui dobbiamo, nonostante tutto, guardare all’avvenire. Tutti temi che fanno parte del normale corredo che deve contraddistinguere chiunque voglia salire ai piani alti del Palazzo e voglia proporsi – e tale sembra essere il caso di Fini – come figura istituzionale più che politico-partitica.
Anche gli autori di riferimento di Fini sono, nel frattempo, cambiati. Ora, nella sua biblioteca ideale vanno forte Theilhard de Chardin, papa Giovanni XXIII (presente nel saggio finiano indirettamente, attraverso la riproposizione della nota invettiva contro i “profeti di sventura” lanciata nel discorso inaugurale del Concilio Vaticano II), Kant, Ralf Dahrendorf, del quale si riprende il concetto di “libertà attiva”, Popper, Gian Enrico Rusconi. Ma troviamo anche Giovanni Paolo II, Ronald Reagan e Roger Scruton, forse per non dare l’impressione di essersi spostato troppo a “sinistra”, fornendo in tal modo una pezza d’appoggio alla boutade di chi lo descrive come il futuro capo di una sinistra in cerca di leaders e per non rimanere così prigioniero di un’etichetta che potrebbe rivelarsi paralizzante per le sue ambizioni[4]. L’appiattimento di Fini sull’esistente non è solo culturale e politico, ma anche personale: nell’aletta della quarta di copertina cercheremmo invano riferimenti biografici al neanche troppo lontano passato di massimo dirigente neofascista del presidente della Camera.
Nemmeno l’altro aspetto dell’almirantismo, cioè il rapporto strumentale con l’area giovanile, viene trascurato. Non ci riferiamo tanto alla massa indistinta di giovani nati dopo la caduta del muro di Berlino, cui è indirizzata la missiva finiana, quanto a settori giovanili gravitanti nell’orbita della destra radicale da cui si spera, evidentemente, di riuscire comunque ad attingere qualche forza fresca. Significativa, a questo riguardo, è la recensione di Luciano Lanna al libro di Giovanni Fasanella e Antonella Grippo L’orda nera (Bur), nella quale, pur prendendo le distanze dal mondo dell’estremismo, Lanna precisa che CasaPound e il Blocco studentesco, sebbene nascano dal milieu della destra radicale, «se ne sono differenziati per tutta una serie di dati oggettivi […] questi ambienti specifici sembrano infatti avanzare verso dimensioni diverse da quelle della xenofobia e del ripiego cosiddetto identitario». Questa attenzione è giustificata con l’argomentazione che «una politica responsabile deve interpretare e disinnescare prima che ghettizzare»[5]. Una (problematica) lettura simpatetica viene tentata da Luigi G. de Anna anche nei confronti della defunta Nuova destra, sostenendo che «molto della Nuova destra di allora resta nelle pagine di tanti, più giovani intellettuali della “nuova destra” di oggi. Il fiorire di riviste e fondazioni ha permesso a molti di emergere, di scrivere, di propagandare un pensiero che politicamente è risultato vincente giocando ben altre carte. […] L’eredità della Nuova Destra risalta proprio in questa capacità, per fortuna ereditata da un buon numero di intellettuali della destra odierna, di capire l’altro da noi, di creare una sintesi di opposti e di diversi che rappresenta l’unica possibilità di anticipare una società nuova, quella dell’Europa prossima ventura»[6]. L’equivoco, non sapremmo dire se voluto o meno, nasce qui dal presentare come attuale una nuova destra giovanile che, semplicemente, non c’è. Oggi, invece, c’è – o meglio, tenta di esserci – una “destra nuova” la cui distanza dalla Nuova destra, come Alessandro Campi potrebbe agevolmente spiegare a de Anna, è sostanziale e quindi non si risolve in una diversa collocazione dell’aggettivo.              
Fini ha dunque ripreso le due linee-guida che hanno ispirato l’azione del suo padrino politico, adattandole alle sue, peraltro legittime, ambizioni. Abbiamo definito queste linee col termine di “almirantismo”, perché la nostra analisi ha preso le mosse dagli anni Settanta del Novecento, quando Almirante era già succeduto al precedente segretario Michelini, ma in realtà la vocazione entrista e l’uso spregiudicato delle giovani generazioni sono inscritte nel dna degli eredi del fascismo e sono una costante che costella la teoria e la pratica del neofascismo italiano. Con Fini, questa vocazione ha finalmente trovato, dopo un sessantennio di tentativi andati per lo più a vuoto, la sua piena realizzazione, anche se il prezzo che si è dovuto pagare per il biglietto di ingresso è stato molto alto. Certo, ora resta da capire che cosa fare, una volta entrati nel salotto buono del Palazzo. Fini ci sta provando. L’impressione che si ricava dai materiali finora a disposizione (non solo il pamphlet sulla libertà, ma anche l’attività della fondazione “Farefuturo” e gli articoli del nuovo Secolo) è che egli intenda proporsi, coadiuvato dal suo entourage, come una sorta di battitore libero, capace di abbracciare posizioni sia liberali che liberal, la qual cosa renderebbe la sua figura spendibile anche al di là delle logiche strettamente di partito, dove la componente berlusconiana ha inevitabilmente la meglio. Questo tentativo è suscettibile sia di una lettura nobile (il “patriottismo costituzionale”, cioè un minimo comun denominatore di regole unificanti), che è quella naturalmente patrocinata dai seguaci di Fini, sia di una lettura ignobile (la “filosofia dell’inciucio”) che è invece fatta propria da Cicchitto nella citata intervista.
A destra c’è chi si chiede, indignandosi, se questo sia un esito accettabile, dopo oltre cinquant’anni in cui non sono state poche le fasi conflittuali, anche sanguinose, costate la vita a tante giovani esistenze che pensavano di battersi per obiettivi magari discutibili, ma indubbiamente molto diversi da quelli che adesso attraggono gli ex missini ed ex aennini. L’interrogativo, per certi aspetti comprensibile, è però destinato a rinfocolare l’astio e a non produrre frutti. Costoro farebbero meglio a voltare pagina e a cercare democraticamente, dal basso, nella temperie del presente, gli scenari post-liberali di domani. Ma sappiamo bene di chiedere troppo e di parlare al vento. Ogni botte dà il vino che ha.            

NOTE
[1] Cfr., rispettivamente, A. Romualdi, La destra e la crisi del nazionalismo, Settimo Sigillo, Roma 1973, pag. 2, e A. Romualdi, Idee per una cultura di destra, Settimo Sigillo, Roma 1973, pag. 5.
[2] Per farsi un’idea delle reazioni interne, si veda Giampaolo Pansa, Il revisionista, Rizzoli, Milano 2009, pagg. 415-425.
[3] G. Fini, op. cit., pagg. 59, 117 e 62.
[4] A proposito delle idee espresse ne Il futuro della libertà e dei molti autori citati, va detto che sfottere o fare le pulci al libro di Fini, come fa Marcello Veneziani (si veda il suo articolo “Dieci domande al gemello intellettuale di Fini”, ne il Giornale di sabato 21 novembre 2009), è un esercizio che, se ben condotto, può anche risultare divertente (e Veneziani, quando è in forma, queste cose sa farle bene), ma che equivale un po’ a guardare il dito anziché la luna, che non coglie l’essenziale. Tutti sanno che, come ammette lo stesso Veneziani, ogni politico di un certo livello dispone di uno o più ghost writers. Comprando il pamphlet finiano, il lettore avveduto non si attende certo di leggere un testo che dia un contributo filosofico sul tema della libertà, ma di sapere quale dovrebbe essere, secondo Fini, il ruolo della destra in Italia nei prossimi anni. È questo il vero punto su cui discutere, la vera questione posta dal saggio (che poi a porla sia Fini o il suo “gemello”, è cosa che non ha alcuna importanza). Ed è un punto che è stato invece perfettamente colto, nello stesso numero de il Giornale, da Fabrizio Cicchitto (cfr. l’intervista di Vittorio Macioce “Il Pdl non è un albergo a ore”).     
[5] Cfr. Luciano Lanna, “L’estremismo è paura della politica”, Secolo d’Italia del 13-11-2009.
[6] Cfr. Luigi G. de Anna, “Questi trent’anni con la Nuova Destra”, Secolo d’Italia del 14-11-2009.