25 aprile: Questa è l’Italia in cui nulla cambia, un Paese di opportunisti
di Massimo Fini con Carlo Passera - 20/04/2006
Massimo Fini, tra pochi giorni sarà l’anniversario della Liberazione. Alcuni, a sinistra, già auspicano che quei cortei divengano, come e più del solito, una sorta di “parata” unionista che celebri la vittoria su Berlusconi e la Cdl. Ancora una volta si vuole un 25 aprile ben schierato... «Sì. Ma il problema relativo al 25 aprile non è solo nell’appropriazione politica da parte della... ...sinistra, ma nell’equivoco storico di fondo». Ovvero? «La Resistenza è stato lo strumento con il quale noi italiani abbiamo fatto finta di aver vinto una guerra che, invece, avevamo perso. In questo modo non abbiamo mai fatto i conti con noi stessi, con gravi conseguenze pratiche, oltre che culturali, basti pensare a tutta la vicenda delle Brigate rosse, tanto per fare un esempio. La Resistenza è stata il riscatto morale solo per quelle poche decine di migliaia di uomini e donne che vi hanno preso parte; ma ebbe un’importanza assolutamente minima all’interno di quell’evento tragico e grandioso che fu la Seconda guerra mondiale. Ovviamente, l’Italia l’hanno liberata gli alleati, non certo i partigiani; e ricevere la libertà dagli altri non è come conquistarsela». Non è la stessa cosa, anche perché a ricevere la libertà dagli altri c’è forse un pedaggio da pagare, non è forse così? «Non c’è dubbio, noi abbiamo pagato e continuiamo a pagare una sorta di “tassa” agli americani. Economicamente, politicamente, militarmente e alla fine anche culturalmente. Direi anzi che, mentre il pedaggio politico-militare c’è stato da sempre, quello culturale è venuto aumentando gradualmente. Negli anni Cinquanta noi avevamo ancora una capacità di “resistenza” antropologico-culturale nei confronti di certe cose kitsch che arrivavano dagli Stati Uniti (dicevamo: “È un’americanata”) e consideravamo gli americani in modo bonario, ma non acritico. Poi questi argini hanno ceduto. E sai quando questo è successo, soprattutto? Negli anni Settanta, ossia in quelli della massima contestazione marxista-leninista e del “Nixon boia”». Perché proprio negli anni Settanta? Forse perché le nuove generazioni di allora erano in fondo state educate nel mito dell’America? «La contestazione era una faccenda di superficie, perché gli stessi giovani usavano gli strumenti della modernità che venivano dagli Usa. Davanti ai ritrovi dei contestatori erano parcheggiate le loro Harley-Davidson». Mi viene in mente una famosa frase di Nanni Moretti, riguardante i dirigenti comunisti di oggi, che erano i contestatori di allora: “Io me li ricordo alla Fgci, vedevano Happy Days, questa è la loro formazione”. «Esatto. Avevano abbracciato l’ideologia marxista-leninista, ma erano profondamente “americanisti”. In Italia è mancato un dibattito serio e importante nel quale ci si chiedesse come modernizzarsi senza americanizzarsi. Se ne discusse solo prima del fascismo, e poi durante il Ventennio: l’America veniva vista come una democrazia - quindi un potenziale avversario del regime - ma d’altra parte anche come un Paese nuovo, quello del cinema che veniva ammirato ma nello stesso tempo avvertito come possibile strumento di propaganda. Erano insomma discorsi “alti”, c’è anche un bel saggio dello stesso Mussolini su questi temi. Poi non se n’è più parlato: negli anni Settanta c’era un gran gracidare contro l’America, senza chiedersi cosa fosse nel suo complesso, nel bene e nel male. Infatti si contestò il miglior presidente americano che si è avuto nel Dopoguerra, Richard Nixon». Oggi questo processo di americanizzazione del Paese è giunto a compimento? «Dal punto di vista della vita quotidiana, assolutamente sì, in tutta Europa. C’è ormai poca differenza tra la nostra way of life e quella statunitense. Cresce invece una contestazione politica, oggi molto più motivata e motivabile di allora. L’America non aveva l’aspetto estremamente aggressivo che mostra in questi anni; non c’era la guerra preventiva. Io sono esterrefatto dalla vicenda iraniana, estremamente preoccupante». Come vedi la questione? «Beh, Teheran dice che vuole fare il nucleare civile, accetta le ispezioni dell’agenzia internazionale ma viene comunque sospettata di preparare la bomba atomica di nascosto, non si sa dove. Ma possono davvero bastare questi sospetti non provati per organizzare - come hanno rivelato giornali statunitensi e inglesi - piani di attacco anche nucleare nei confronti dell’Iran? La cosa fa accapponare la pelle. Sulla base di sospetti così inconsistenti si può anche bombardare il Polo Nord». La guerra irachena avrà magari futuri sviluppi imprevedibilmente felici, ma per ora appare un mezzo disastro, per non dir di peggio. Sulla scorta di quell’esperienza, è mai possibile che gli Usa davvero vogliano imbarcarsi in uno scontro mille volte più difficile? «Dal punto di vista logico, sembrerebbe una cosa quasi impossibile. C’è il disastro iracheno ancora in corso, che oltre alle migliaia di morti ha regalato un’area enorme a quel terrorismo internazionale che dovremmo combattere. Poi, con l’esercito Usa impegnato da quelle parti, mancano proprio i mezzi per attaccare l’Iran, a meno che non si voglia davvero usare la bomba atomica. D’altra parte l’Iran non è l’Iraq, è un grande Paese, compatto. Un’iniziativa di questo genere inoltre sconvolgerebbe tutto il Medio Oriente, farebbe saltare Mubarak in Egitto e tutti i dirigenti dei cosiddetti “Paesi arabi amici”. Sarebbe una catastrofe. Eppure vedo i vari Rumsfeld, Bush e Condoleezza Rice che continuano a premere sull’acceleratore. Non si capisce nemmeno su che basi abbiano deferito l’Iran davanti al Consiglio di sicurezza Onu - cioè davanti a loro stessi: Teheran ha accettato le ispezioni dell’Aiea, qual è dunque la colpa?». Può essere che Washington faccia la voce grossa proprio perché sa di non poter davvero intervenire sul campo? «È probabile. C’è chi dice che il rilancio Usa e certe dichiarazioni di Ahmadinejad facciano parte di una guerra psicologica. Ma “tanto tuonò che piovve”: è una tattica molto pericolosa. Diverso sarebbe dovuto essere l’approccio a un Paese come l’Iran che è una teocrazia, cioè non una democrazia ma nemmeno una dittatura e ha una classe dirigente eletta e seguita dalla stragrande maggioranza del Paese. È una potenza regionale con tutto il diritto di essere considerata tale. Aggiungiamo anche come si ragioni meglio con Stati strutturati e forti che con schegge impazzite. D’altra parte, il problema mediorientale sarebbe stato in buona parte risolto se non avessimo impedito a Khomeini di vincere la guerra con Saddam. Tutta la regione avrebbe trovato un suo equilibrio». L’atteggiamento degli Usa nei confronti dell’Iran trova un ostacolo forte negli interessi sia geopolitici che economici della Russia. «Interessi ci sono tra Mosca e Teheran, certo, ma ci sono anche con noi! Non facciamo l’errore della guerra jugoslava: noi siamo tra i maggiori partner economici dell’Iran... Abbiamo una visione spesso grottesca di cosa sia quel Paese: pensiamo a una nazione di pazzi e analfabeti, invece da quelle parti anche il ceto medio-piccolo ha letto, non dico Dante e Petrarca, di certo Calvino e Moravia. Non abbiamo di fronte il Burkina Faso...». ...ma l’antica Persia. «Perfetto. Loro si sentono profondamente persiani al punto che allo stesso scià Reza Pahlavi, che pure venne cacciato a pedate da Khomeini perché era la longa manus degli Stati Uniti e voleva occidentalizzare un Paese che non può essere occidentalizzato, veniva riconosciuta una certa dignità in quanto persiano. Mi pare che vi sia molta ignoranza nella classe dirigente Usa e mi ha anche colpito l’intervista di Umberto Ranieri, responsabile esteri Ds, che diceva sì alle sanzioni. Allora era meglio tenerci Berlusconi». Anche perché gli americani saranno anche ignoranti, ma ragionano in base ai loro interessi e alla loro volontà di supremazia. Le classi dirigenti europee avrebbero invece, come quelle russe, tutto l’interesse a sviluppare una politica di collaborazione con l’Iran. «Appunto, questa è sempre la differenza di fondo. Nella sciagurata guerra alla Serbia, Washington aveva perlomeno un obiettivo, calcolo preciso (poi rivelatosi sbagliato, tanto per cambiare): cioè quello di creare un cuneo di “Islam laico” nei Balcani in funzione del loro grande alleato turco. Noi siamo stati invece chiamati a combattere quella guerra non solo senza alcun interesse, ma contro i nostri interessi. Nel caso dell’Iran tale discorso è dieci volte più vero. E mi fa impressione l’atteggiamento della Germania». Ossia? «Mentre sotto la direzione Schroeder-Fischer i tedeschi mi sembravano aver compreso molto bene la questione, questa Merkel mi pare assai meno intuitiva. È la storia delle donne al potere...». Non ti piacciono? «Smettiamola un po’ coll’esaltarle... Dalla Albright alla Rice, fino alla Merkel... Quasi tutte le donne che hanno avuto un ruolo politico attivo, invece di sviluppare la loro componente femminile si sono appiattite su quella maschile». La Thatcher insegna. «Sulla Thatcher occorre un discorso a parte, fece vera politica, seppur forse al maschile. Gli inglesi hanno sempre una storia a sé, vantano anche una grande regina». Parlavamo prima della Russia come ostacolo per gli Usa nello scacchiere mediorientale. «È un contropotere al quale l’Europa dovrebbe agganciarsi». Dà così fastidio che Washington vuole escluderla dal G8. «Beh, certo: chi non si piega all’egemonia americana diventa uno Stato canaglia, o qualcosa di molto simile. Questo è inaccettabile in generale, men che meno per un grande Paese come la Russia, che pure ha molti scheletri non nell’armadio, ma ben visibili, in primis quello ceceno. Ma in un discorso di equilibri e di rapporti di forza non si può certo pensare di emarginare Mosca». Torniamo al tema del 25 aprile, ma rimaniamo a Mosca. Tu dicevi: la Resistenza è stata un riscatto morale solo per quelle poche decine di migliaia di uomini e donne che vi hanno preso parte. D’accordo. Ma forse va ricordato che la maggioranza dei partigiani non combattevano per una democrazia liberale, ma in nome dell’Urss staliniana. «È vero. All’interno della Resistenza si assisteva a una prevalenza comunista, che è stata però anche molto gonfiata ed enfatizzata. Esisteva una ampia fetta per nulla legata al Pci. Può considerarsi emblematico che a fermare la colonna tedesca a Dongo, catturando così Mussolini in fuga, sia stato il conte Pier Luigi Bellini delle Stelle, alias il “partigiano Pedro”, che tutto era fuorché di sinistra. Era innanzi tutto una persona perbene, che non sfruttò per nulla la sua gloria resistenziale (a Dongo erano in sette contro trecento tedeschi armati, seppur in ritirata): da ingegnere fece una normalissima carriera all’Eni. Vale la pena ricordare l’episodio: Pedro catturò Mussolini e i suoi gerarchi trattandoli con la pietas che sempre si deve ai vinti; arrivò successivamente da Milano il “colonnello Valerio”, ossia il comunista ragionier Walter Audisio, fucilò sommariamente anche chi non aveva particolari responsabilità, come Claretta Petacci, e si giunse così a piazzale Loreto. Inutile ricordare che, a differenza di Pedro, Audisio divenne parlamentare del Pci. Non dico che il modo di far la Resistenza dei comunisti fosse tutto alla maniera di Audisio, cioè volto a costruirsi una successiva carriera; ma certamente molte brigate partigiane erano al servizio dell’Urss, che peraltro in quel momento era alleata degli Usa». Già, certamente la questione era complessa. Tu dici: è stato enfatizzato il ruolo dei comunisti all’interno della Resistenza. Ciò ci proietta sul dato iniziale della nostra discussione, la strumentalizzazione del 25 aprile come festa della sinistra, e non di tutti gli italiani liberati. «I comunisti sono sempre stati estremamente abili nell’impadronirsi del 25 aprile, facendo apparire il loro contributo alla Resistenza molto maggiore di quello - peraltro grande - che in effetti fu». Secondo te, è possibile oggi (o domani) un 25 aprile diverso? Una festa davvero di tutti? «No, a meno che non vi sia una revisione politico-culturale di tutta la vicenda, della quale non mi pare che la classe politica abbia alcuna intenzione. Se pensiamo che gli stessi libri di Renzo De Felice hanno creato polemiche infernali... Servono ancora molti, molti anni perché noi si riconosca quella che è stata la nostra partecipazione alla guerra mondiale e la liberazione, storia ignominiosa dall’inizio alla fine. È impossibile fare del 25 aprile una festa di tutti perché c’è stata una guerra civile, il cui principale responsabile è stato oggettivamente il fascismo. L’operato di Mussolini può anche essere rivisto e riconsiderato; ma la sua grande responsabilità rimane quella di aver posto le premesse per la guerra civile, cedendo a Hitler, cosa peraltro che non voleva fare. Quando era prigioniero a Campo Imperatore, vedendo gli aerei avvicinarsi, disse al tenente che lo teneva in custodia: “Sono inglesi, naturalmente”. “No eccellenza sono tedeschi”. “Oh madonna!”. Non desiderava essere liberato dai tedeschi, poi però ha acconsentito a Salò. Oggi non possiamo celebrare insieme una vicenda che è stata fratricida, che ha visto contrapposte le parti migliori del Paese». Le parti migliori? Perché? «La maggioranza di coloro che combatterono credeva davvero in certi valori, benché molto diversi tra di loro. La massa opportunista e mediocre aspettava di vedere chi avrebbe vinto, poi si scatenò a piazzale Loreto essendo stata fascista fino a poco tempo prima». Fino a quando dobbiamo restare prigionieri di questa guerra? «Questa è l’Italia in cui nulla cambia, un Paese di opportunisti». Non c’è allora particolare colpa in coloro che, per miseri fini politici, gettano nuovo sale su queste ferite mai rimarginate? «Sì, c’è strumentalizzazione politica, ma io la vedo di più come una questione culturale, nella quale noi siamo appunto prigionieri». Non basterà la morte - per cause naturali - della generazione che fu protagonista di quell’epoca? Oggettivamente non siamo troppo lontani... «Certo, avanzando nuove generazioni si può pensare che le cose cambino. Già gli attuali quarantenni su queste vicende ragionano in modo totalmente diverso, sono questioni così lontane nel tempo che per loro non hanno alcuna importanza. Se vuoi, è la forza degli Zapatero, di chi vive i problemi del suo tempo, non strumentalizza quelli di sessant’anni fa. Ricordo un congresso di An a Verona, poco dopo la svolta di Fiuggi. Gianfranco Fini aveva pronunciato un discorso interessante, disse di non voler più parlare di anticomunismo, che ormai era questione superata. Il sottinteso era: allo stesso modo, consegniamo alla Storia anche l’antifascismo. Aveva appena finito di parlare e piombò sul palco Berlusconi sventolando il testo Mondadori Il libro nero del comunismo. Il tentativo di Fini così abortì, oggi noi siamo divisi grottescamente tra anticomunisti e comunisti, non esistendo più i secondi, a parte la marginale compagine bertinottiana. Paradossale. Non ci sono reali ragioni per una contrapposizione così violenta nel Paese: come minimo siamo tutti nella stessa barca». Che fa acqua. «Esatto. Ci stiamo picchiando senza motivo sulla barca che affonda». |