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I Biocarburanti

di Giampaolo Persoglio - 21/04/2006

 


I BIOCARBURANTI
 
Cominciamo questo articolo con una premessa doverosa: per inquinare meno con l’automobile dobbiamo convincerci ad utilizzarla meno o per nulla, facendoci trasportare dai mezzi pubblici così da suddividere l’inquinamento congenito che ogni sistema di trasporto ha sul più alto numero possibile di persone.
Quindi al posto dell’auto meglio il treno, l’autobus, il tram, la bicicletta e perché no, un comodo paio di scarpe.
L’approccio che Fare Verde ha con qualsiasi utilizzo di strumento importante (ma non indispensabile) e inquinante è sempre quello di promuovere il consumo critico, analizzando i benefici a fronte del costo che richiediamo all’ambiente e alla fin fine alla nostra salute. Ferma restando questa base di partenza, cerchiamo in questa sede di fare un minimo di chiarezza per essere maggiormente consapevoli delle azioni che giornalmente compiamo, e di dettare un quadro il più possibile preciso sullo stato dell’arte in tema di carburanti alternativi e della loro reale possibilità di utilizzo sulle nostre automobili.
 
Al giorno d’oggi, vuoi per la crisi petrolifera in corso, vuoi per una reale sensibilità da parte delle grandi Case Automobilistiche e delle industrie chimiche al tema dell’ambiente, la sfida tecnologica per consumare ed inquinare meno è la prima istanza sul tavolo dei progettisti dell’uno e dell’altro protagonista della scena.
In mezzo sta il legislatore europeo che elabora e sforna normative con l’intento di conciliare tutti gli interessi in campo, in primis la difesa dell’ambiente e la salute dei cittadini.
 
L’energia che utilizziamo deriva per il 95% da combustibili fossili e solo a lungo termine si potrà realizzare un passaggio consistente ad energie alternative. Come ben sappiamo alla irrinunciabile funzione dei combustibili fossili si contrappone il loro marcato impatto ambientale, essendo i principali responsabili di emissioni inquinanti di anidride carbonica, ossidi di zolfo, ossidi di azoto, composti organici volatili.
 
Nasce dunque l’esigenza, altrettanto irrinunciabile, di trovare un punto d’incontro tra gli aspetti industriali ed economici, il benessere quotidiano delle persone e le esigenze ambientali. Per questo il contenimento e l’abbattimento delle emissioni inquinanti, insieme con il risparmio energetico, la lotta agli sprechi, lo sviluppo e l’impiego di nuove tecnologie, sono oggi priorità assolute nella definizione della politica energetica europea e nazionale.
 
Gli esperti del settore automobilistico affermano che i recenti programmi di ricerca sperimentale hanno evidenziato come modifiche alla qualità dei combustibili possano determinare sensibili riduzioni delle emissioni inquinanti prodotte dai motori. Grazie all’apporto combinato dei nuovi carburanti ed allo sviluppo di nuove tecnologie motoristiche (catalizzatori e iniezione diretta su tutti), le emissioni inquinanti negli ultimi 20 anni sono state abbattute di oltre il 95%. Solo per l’Italia permane però il problema dell’ammodernamento dei circa 30 milioni di veicoli obsoleti circolanti.
 
 
 
Le normative europee e l’abbattimento delle emissioni
 
 

Direttiva
anno
CO
HC+NOx
particolato
 
prima norma europea anti particolato Diesel
1983*
100
100
 
benzina
100
100
-
diesel
prima norma europea anti inquinamento
1990**
36
34
 
benzina
36
34
100
diesel
Euro 1
1993
13
17
 
benzina
13
17
52
diesel
Euro 2
1996
11
9
 
benzina
5
16
37
diesel
Euro 3
2000
7
5
 
benzina
3
9
19
diesel
Euro 4
2005
3
2
 
benzina
2
5
9
diesel

 
Legenda:      CO = ossido di carbonio
                        HC+NOx = idrocarburi incombusti + ossidi d’azoto
 
* fatto 100 il valore previsto nel 1983 per CO e HC+NOx
** fatto 100 il valore del 1990 per il particolato
 
 
Dal punto di vista numerico, le norme Euro 4 danno luogo ad una riduzione del 50% delle emissioni prodotte dalle vetture Euro 3, e tale vantaggio relativo pare determinante.
Nella tabella qui di sopra sono riportati i valori degli inquinanti ammessi dalle varie normative europee. Per semplicità è indicato a 100 il valore dei limiti in vigore a partire dal 1983, epoca della prima norma europea per vetture a benzina e diesel.
L’adozione del catalizzatore, avvenuta a metà del 1992 (Euro 1), ha ridotto dell’80% i tre inquinanti tradizionali, vale a dire ossido di carbonio (CO), idrocarburi incombusti (HC) e ossidi di azoto (NOx). In particolare il primo è sceso da 100 a 13, mentre la somma di HC e NOx è scesa da 100 a 17. L’ingresso della norma Euro 2 nel ’96 ha apportato un’ulteriore limitazione, tagliando fino al 90% gli inquinanti iniziali. Nel 2000, l’entrata in vigore di Euro 3 ha determinato ancora un dimezzamento dei valori residui raggiungendo una “pulizia media” del 95%. Euro 4, infine, costituisce l’ultimo passo in ordine temporale facendo salire il “disinquinamento” dal 95 al 97%.
Il progressivo dimezzamento dei valori inquinanti ha portato però un progressivo aggravio dei costi delle vetture per gli acquirenti e, di contraltare, un ottimo business per i produttori di marmitte catalitiche e centraline elettroniche.
 
Ma quanto incide realmente l’apporto del trasporto privato sulla globalità dell’inquinamento atmosferico in Italia?
Il Concawe, ente di ricerca dell’UE, ha stimato che in Italia il traffico stradale contribuisce per il 18% alla emissione di polveri, ma tale responsabilità è disequamente suddivisa: ben il 15% è dovuto al traffico merci e solo il restante 3% è causata dai veicoli per il trasporto privato (di tutti i tipi, benzina, diesel, catalizzate e non). Il riscaldamento domestico è responsabile per il 31% (media annuale), l’industria per il 31% e le centrali termoelettriche per il 15%. I valori rappresentano naturalmente una media tra i diversi dati stagionali e geografici.
C’è da rilevare quindi che il trasporto merci su gomma fa la parte del leone nella creazione di polveri sottili, in quanto i veicoli industriali lavorano 8 ore al giorno invece dei veicoli che sono attivi circa un’ora. Pesano anche 44 tonnellate al posto di 1,5 delle vetture, hanno ingombri maggiori e hanno consumi istantanei circa 6/8 volte superiori a quelli di una comune vettura. Infine, se le automobili devono inquinare tutte allo steso modo, i Tir possono inquinare di più se sono più grandi e potenti.
In definitiva, un grosso veicolo merci produce tanti polveri sottili quanto 250/300 vetture Euro 3.
 
 
 
Le sfide della tecnologia: i carburanti alternativi
 
 

 
Biodiesel
Gpl
Idrogeno
Elettricità
Benzina
Benzina riformulata
Gasolio
Metano
ORIGINE
deriva da sostanze vegetali o dalla trasformazione sintetica di olio vegetale
deriva dalla raffinazione del petrolio ed è formato da butano e propano
è presente ovunque in natura
producibile in svariati modi
è diffusissima, facilmente stoccabile contiene la maggior quantità di energia/litro
è un carburante ricavabile da carbone o metano priva di benzene
disponibile ovunque e facilmente
un gas “pulito” disponibile in natura e rinnovabile attraverso le biomasse
PRO
non contiene zolfo, è biodegradabile
privo di benzene, prezzo conveniente
bruciando produce acqua
costo contenuto, assenza di emissioni dei veicoli che la utilizzano
buon rendimento nel motore a scoppio, costo competitivo
permette di ottimizzare le prestazioni in funzione del tipo di motore
privo di benzene
ridotte emissioni di anidride carbonica e monossido di carbonio
CONTRO
ha un costo elevato e sviluppa meno potenza
è un sottoprodotto della benzina e se ne ricava solo il 4%
difficile da immagazzinare, bruciando produce ossidi di azoto, non si trova libero in natura
scarsa autonomia delle batterie e dei tempi di ricarica, immagazzinabile in quantità ancora limitata
contiene benzene e produce CO2 e idrocarburi aromatici
non ancora disponibile, è più costosa della benzina verde
lo zolfo presente contribuisce alla formazione del particolato
deve essere trasportato in bombole, produce effetto serra

 
Nella tabella precedente facciamo una panoramica sui diversi sistemi di propulsione oggi esistenti, facendo conto che alcuni sono attualmente in uso e diffusissimi (benzina e gasolio), altri esistono ma hanno quote di utilizzo basse (metano e gpl), l’elettricità da sola non viene praticamente più utilizzata ma sta trovando un impiego in combinazione con il tradizionale motore a scoppio (sia benzina che diesel), mentre il biodiesel, l’idrogeno e la benzina riformulata, per motivi diversi, sono ancora lontani dall’essere utilizzati normalmente.
 
Negli ultimi tempi c’è stato un gran parlare di biodiesel e olio di colza, a volte confondendo le due cose e trattandole come se fossero lo stesso carburante. A gettare benzina sul fuoco (è proprio il caso di dire…) in merito al caso “olio di colza” è stato anche e soprattutto il comico Beppe Grillo che nel suo spettacolo ha apertamente accusato un boicottaggio nei confronti dell’olio di colza, reo, per i politici e i Grandi Petrolieri, di funzionare bene e di costare la metà della metà del gasolio, pur potendo essere impiegato senza problemi sui motori diesel attuali.
 
Facciamo quindi un po’ di chiarezza e cerchiamo di capire bene i termini della questione.
Molti pensano difatti che olio di colza e biodiesel siano sinonimi. Invece, pur avendo la stessa origine, ovvero i semi di colza, sono due cose ben diverse. L’olio che si compra al supermercato e che si usa per friggere i cibi è ottenuto dalla spremitura dei semi della colza; da questo, mediante un processo chimico detto transesterificazione, si ottiene un estere metilico, ovvero il biodiesel. Quest’ultimo è un vero e proprio combustibile: le sue caratteristiche sono definite da una norma europea (EN 14214) e si può usare puro nei motori diesel solo se l’auto è predisposta dal costruttore. La produzione di biodiesel è però contingentata (in Italia, 200.000 tonnellate nel 2005), perché il costo di fabbricazione è più alto di quello del gasolio e per renderlo competitivo viene detassato. Inoltre, in Italia il biodiesel non è disponibile presso le stazioni di servizio; può essere però miscelato in raffineria al gasolio (fino al 5%) per migliorarne il potere lubrificante.
 
 
 
 
 
Ma vediamo nel dettaglio la catena di produzione dell’olio di colza e del biodiesel:

1 Ettaro (10.000 metri quadrati) di terreno coltivato a colza o girasole
Raccolta
2,5 tonnellate di semi
Spremitura
 
1 tonnellata di olio di colza
Raffinazione
1 tonnellata di biodiesel
 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 


Dallo schema si evince come da 2,5 tonnellate di semi si riesca a produrre 1 tonnellata di biodiesel; le stime sono pessimistiche perché attraverso processi produttivi sperimentali si è riusciti a produrre fino a 1,2 tonnellate di carburante. E’ altresì rilevante che nel processo di raffinazione (transesterificazione) dall’olio di colza al biodiesel non si verifichino perdite.
 
Uno studio dell’Università di Siena dell’aprile 2005, partendo dallo schema precedente sulla produttività dei terreni coltivati a colza o girasole, ha sviluppato un modello costi/benefici volto a valutare l’impatto del biodiesel sul sistema economico italiano.
Lo studio parte dal presupposto che per essere competitivo con gli altri carburanti il biodiesel deve essere defiscalizzato causando un minore introito fiscale dalle accise sui carburanti "tradizionali" per le casse statali.
In realtà la perdita nelle entrate fiscali viene compensata da alcuni aspetti "indiretti":
tale perdita viene compensata per il 70% dalla tassazione dell'incremento di fatturato indotto dalla produzione nazionale del biodiesel e delle materie prime agricole necessarie.
La restante parte (circa 36 milioni di euro) equivale a un vantaggio  economico-ambientale acquisito derivante dal minore inquinamento atmosferico. L'uso del biocarburante riduce le emissioni inquinanti. Come ben sappiamo le conseguenze dell'inquinamento si traducono in maggiore spese private in farmaci o in maggiori spese pubbliche nel sistema sanitario nazionale. Tralasciando ovviamente ogni considerazione morale.

Fin qui una semplice e sintetica analisi costi-benefici "sociale" a cui devono comunque aggiungersi altri effetti positivi dell'uso dei biocarburanti. In primo luogo, a differenza del carburante derivato dal petrolio, i biocarburanti non implicano import di materia prima dall'estero a grande valore aggiunto (petrolio). Gran parte della  produzione agricola può essere prodotta in casa tramite medio-piccole imprese agricole nazionali oppure essere importata a basso costo da molte imprese competitors sui mercati internazionali. Se il petrolio è concentrato in poche riserve, l'agricoltura ha il pregio di essere presente in quasi ogni latitudine del globo.
Non va dimenticato l'impatto occupazionale, stimato in circa 5.000 nuovi posti di lavoro. Quindi un nuovo posto di lavoro ogni 70 t. di produzione annuale di biodiesel.

Dalla presente analisi viene escluso il valore dei sottoprodotti dell'intero processo di produzione del biodiesel. I "sottoprodotti" del processo di trasformazione sono considerabili come veri e propri co-prodotti ad alto valore aggiunto, e pertanto aggiunti al fatturato addizionale dell'industria dei biocarburanti oltre che come costo opportunità generato dalla minore produzione di rifiuti o di scarti di lavorazione. Sappiamo bene che anche i rifiuti hanno un costo per essere  smaltiti.

Ma la ricerca va avanti. Il Brasile, che si è sempre distinto per l’utilizzo di carburanti alternativi (alcool e gasolina tanto per fare due esempi) ha proposto negli anni motori alimentati ad alcool derivato dalla canna da zucchero e gasolio ricavato con datteri di palme tropicale, oppure l’utilizzo dell’olio di canola. La storia è lunga, è dal 1978 che la Fiat brasiliana produce motori che vanno ad alcool di canna e ultimamente si è avviata la produzione dell’olio di dende, derivato da una pianta tropicale, che alimenta i motori diesel di grandi cubature dei camion.
 
E l’Europa come si pone nei confronti dei bio-carburanti? Per adesso c’è la direttiva Ue nr. 30 del 2003 che impone un sempre più diffuso utilizzo dei carburanti biologici: entro quest’anno ogni Stato membro dovrà sostituire il 2% dei carburanti fossili con biocarburanti, per raggiungere entro il 2010 il 5%. Una norma, questa, che contrasta con la decisione del Governo italiano di ridurre il contingente annuo di biodiesel agevolato da 300.000 a 200.000 tonnellate (per il problema fiscale di cui parlavamo poc’anzi).
Ultima nota: purtroppo, allo stato attuale, produrre un litro di biodiesel costa più che produrre un litro di gasolio. Inoltre, visto il valore di rendimento di un terreno per la produzione di girasole o colza, anche pensando di coltivare a colza tutti i terreni agricoli disponibili in Italia non si riuscirebbe a soddisfare il fabbisogno di gasolio da autotrazione che si è attestato nel 2004 a 22 milioni di tonnellate.
 
Fatta chiarezza sulla genesi di colza e biodiesel e sulla loro “economicità”, veniamo alle due domande fondamentali: quanto è il guadagno in termini di disinquinamento e davvero possiamo utilizzare colza e biodiesel nei nostri motori diesel?
Per prima cosa ricordiamo un dato fondamentale: colza e biodiesel sono, eventualmente, succedanei del solo gasolio e non possono essere in alcun modo utilizzati per i motori a benzina.
 
Biodiesel:
Con il biodiesel  è possibile ridurre dell’80% le emissioni di idrocarburi e del 50% quelle di articolato e polveri sottili. Il biodiesel è già presente in percentuali massime del 5% nel gasolio che compriamo al distributore, in purezza richiederebbe invece una messa a punto dell’iniezione dalla casa produttrice nella fase di realizzazione del motore. In caso di utilizzo senza modifica c’è il rischio serio di rovinare il motore nel giro di 100/150.000 km. In Germania, dove esistono già distributori che erogano biodiesel, le case produttrici mettono in allerta gli automobilisti che in caso di rotture causate da carburanti “non convenzionali” non viene riconosciuta la garanzia di fabbrica.
 
Colza:
Per quanto riguarda la colza abbiamo dati molto precisi. Stuzzicati sull’argomento, i tecnici del mensile “Quattroruote” hanno realizzato un test di utilizzo della colza su una comunissima Fiat Punto 1.9 jtd, ovvero dotata di un motore diesel common rail dell’ultima generazione. Primo dato importante: la colza in purezza, a causa della maggiore densità rispetto al gasolio e del minore potere calorico, non permette al motore di avviarsi. Si procede quindi con il miscelare un 30% di gasolio comune con il restante 70% di olio di colza. A questo punto, con un po’ di fatica, il motore si avvia in una densa nuvola di fumo bianco dal sapore di cucina di fast food.
 
Le principali rilevazioni dicono questo:
 

fumosità (particolato e polveri sottili)
- 50%
consumo
+ 19%
risparmio
18,7%
ripresa
- 12,7%
velocità max
- 2,2%

 
 
Il minore rendimento fa naturalmente peggiorare i valori di consumo e prestazioni, ma la diminuzione delle emissioni inquinanti è importante e il risparmio economico comunque sensibile.
Dopo 7.300 km di percorrenza però il colpo di scena, temuto ed anche preventivato: il motore cede e si rompe con una densa fumata bianca. All’analisi dei tecnici si evince che la maggiore densità del carburante rendeva gravoso oltremodo il lavoro dell’olio lubrificante; il motore alla lunga subisce lo stress della scarsa lubrificazione, tende a surriscaldarsi e si rompe. L’analisi dimostra comunque che modifiche non sostanziali al sistema di iniezione e soprattutto una diversa composizione dell’olio lubrificante potrebbero essere sufficienti per adattare i motori e renderli utilizzabili con la colza.
 
 
 
L’idrogeno: a che punto siamo?
 
Quasi mitizzato, l’idrogeno, un po’ come un deus ex machina affascinante e risolutivo, sta proponendo problemi sempre maggiori a chi cerca di ricavarlo, ingabbiarlo e utilizzarlo per i motori di domani. Prima del 2020 possiamo dimenticarci di vedere circolare modelli “di serie” alimentati ad idrogeno, ed una diffusione massiccia di questi veicoli non avverrà prima del 2035. Le forze in campo sono inoltre divise, in quanto i tecnici stanno percorrendo strade di ricerca diverse: c’è chi punta all’iniezione diretta nella camera di scoppio come se fosse benzina verde, sostituendo il serbatoio tradizionale con un apparato in grado di conservare idrogeno liquido per 15 giorni a – 273 gradi; parallelamente ci sono le aziende che stanno lavorando da tempo sulle “fuel cell” alimentate ad idrogeno: tra queste, in prima fila Opel e Chrysler insieme a molte altre. Anche in questo caso sono stati fatti progressi: i sistemi che ingombravano tutta la parte posteriore (riducendo una comoda berlina a una due posti stretti) ora si sono ridotti di dimensione. Dal punto di vista dell’utilizzo, mentre prima era necessario avviare il processo di trasformazione del carburante con largo anticipo, adesso i tempi si sono fatti più rapidi. Però su tutto pesa sempre l’efficienza dei sistemi e soprattutto il modo con cui si ottiene l’idrogeno: qualcuno lo inietta liquido nel serbatoio, altri invece puntano a ricavarlo dalla trasformazione del metano, benzina o da altre fonti per impiegarlo nelle fuel cell. Ma bisogna fare attenzione, perché il bilancio delle emissioni di CO2, responsabili dell’effetto serra, è favorevole all’idrogeno solo se viene ottenuto da fonti rinnovabili. Da molti le fuel cell a idrogeno vengono considerate la soluzione ai problemi dell’inquinamento: ed è vero per quanto riguarda le emissioni allo scarico, ma in termini di economicità il loro livello è inferiore ad un turbodiesel. Perché un’auto ad idrogeno non comporti emissioni di CO2 bisogna produrre idrogeno utilizzando fonti rinnovabili.
 
 
 
L’inquinamento e il sovraffollamento delle nostre città
 
Ma usciamo per un attimo dai problemi che assillano tecnici e grandi aziende ed entriamo nella dimensione della nostra vita quotidiana: cosa possiamo fare noi attraverso i nostri piccoli comportamenti per contribuire a migliorare l’aria che respiriamo? Su tutto dobbiamo imparare ad essere meno pigri e più socievoli: utilizzo dei mezzi pubblici e car pooling sono le principali risposte per combattere traffico ed inquinamento.
Se proprio dobbiamo utilizzare l’auto cerchiamo di essere un po’ più consapevoli delle azioni che compiamo e delle relative conseguenze.
L’idea che le auto a bassa emissione possano davvero rendere più vivibili le metropoli è parzialmente falsa: le vetture catalitiche, per quanto abbiano le capacità di abbattere drasticamente le emissioni, ottengono il massimo della riduzione dei gas soltanto viaggiando a velocità costante e dopo aver raggiunto una certe temperatura. In città ci si muove invece a continui stop and go e per periodi piuttosto brevi, cosa che rende solo parziale l’efficienza dei filtri.
Per combattere il famigerato Pm10 (le polveri sottili) c’è bisogno di una consistente diminuzione del traffico: le polveri sottili infatti non vengono soltanto prodotte dai tubi di scarico, ma anche dall’abrasione di freni e pneumatici.
In sostanza i cittadini devono capire che l’auto privata non può avere futuro, ma devono essere opportunamente supportati dalle amministrazioni. Come per i rifiuti, è inutile che diventiamo bravi e coscienziosi nel fare la raccolta differenziata se poi il comune non si occupa del ritiro e del riciclaggio dei rifiuti. Un esempio di cattiva collaborazione cittadino-amministratore nell’ambito dell’auto? Il car-pooling, ovvero la condivisione dell’auto nei tragitti quotidiani. Nelle aziende con più di 300 dipendenti è prevista per legge la figura del mobility manager che ha il compito di ottimizzare i flussi di arrivo e ripartenza dei lavoratori dalle aziende e dagli uffici. Perché non funziona? Perché non è obbligatoria e i risultati che dovrebbe ottenere non devono essere documentati.
Il car-sharing inoltre può costituire un’alternativa intelligente all’acquisto della seconda auto: chi si abbona al servizio ritira la macchina in uno dei parcheggi convenzionati e la lascia in quello più vicino alla destinazione. L’utente ha a disposizione sempre vetture efficienti e paga solo in base al tempo di utilizzo e ai chilometri percorsi.
Ma la vera svolta può arrivare solo da una revisione del sistema del trasporto pubblico. Con tecnologia ed organizzazione i mezzi e le linee tradizionali devono essere affiancati da un sistema di minibus e maxi-taxi a richiesta. L’utente telefona, comunica dov’è e dove vuole andare e la centrale operativa devia la vettura più vicina senza allungare i tempi per gli altri passeggeri. Il servizio così configurato dovrebbe riuscire a conciliare flessibilità e bassi costi.
 
 
Il metano e il Gpl
 
Il 2005 sarà ricordato come l’anno della riscossa dei veicoli alimentati a gas: al 31 dicembre 2005 risultavano immatricolate circa 23.000 vetture a metano o a doppia alimentazione (benzina+metano, benzina+gpl) praticamente come in tutto il triennio 2002-2004. Il boom delle vendite è affiancato dalla crescita esponenziale delle trasformazioni, se è vero che al 31 dicembre dell’anno scorso le officine avevano installato quasi 15.000 impianti.
Merito dell’oggettiva convenienza ma anche degli incentivi messi a disposizione dallo Stato e dagli Enti locali, che hanno lasciato a bocca asciutta una larga fetta di automobilisti che non sono riusciti ad immatricolare o a modificare il proprio veicolo.
Negli intenti del ministro Matteoli c’è una sempre maggiore attenzione legislativa volta a favorire questo tipo di carburante, che risulta essere poco inquinante in sé e capace di far consumare meno le automobili che lo utilizzano.
Per il 2006 sono previsti fino a 112 milioni di euro di incentivi, destinati in parte a chi acquista auto a metano o a gpl e in parte da utilizzare per la realizzazione di nuovi impianti. Di questa ingente somma però solo 42 mln di euro sono sicuri, derivanti da decreti già approvati, per la fetta più ingente, i restanti 70 mln, bisognerà aspettare la ratifica definitiva della legge Finanziaria. Vediamo nel dettaglio da dove arrivano questi incentivi e a chi sono destinati:
  • 20 mln di euro sono stati stanziati all’interno di un accordo firmato tra il Ministero e le amministrazioni municipali; di questi 15 mln  sono a vantaggio degli automobilisti che vorranno modificare le proprie auto installando un impianto di gpl e prevede uno sconto di € 350,00 erogato direttamente dalle officine. I restanti 5 mln sono destinati a nuovi impianti per la distribuzione di Gpl.
  • Altri 20 mln di € arrivano da un progetto sempre del Ministero denominato “Progetto Metano” che prevede incentivi fino a 2.500 € per professionisti e aziende che acquistano auto nuove alimentate a metano.
  • I restanti 2 mln di euro della parte “sicura” fanno parte del finanziamento automatico entrato in vigore il 1 gennaio 1998 e che prevede un contributo di € 1.500,00 per l’acquisto di un autoveicolo nuovo e 650,00 per la trasformazione di uno già immatricolato.
 
 
 
A questo punto, se proprio non potete fare a meno di prendere la vostra auto, tenete a mente questo decalogo di regole per mantenerla in efficienza e consumare meno:
 
  1. Partire senza schiacciare troppo l’acceleratore. Esagerando ai semafori si usurano di più frizione e motore e il consumo sale.
 
  1. Mettere al più presto la marcia più alta possibile. In autostrada mettere la quinta e mantenere la velocità costante ed entro i limiti
 
  1. Guardare lontano per evitare le frenate brusche, decelerare per tempo aiuta a usurare meno i freni e a non sforzare di più il motore nelle ripartenze e nelle riprese.
 
  1. Non accelerare il motore da fermo e spegnerlo ai semafori più lunghi di un minuto e ai passaggi a livello
 
  1. La guida rilassata e progressiva è sempre più economica di quella nervosa e a scatti.
 
  1. Cercare, nel caricare la macchina, di inserire i bagagli all’interno e di sfruttare il portabagagli sul tetto solo se è indispensabile. Se non sono utilizzati togliere sempre il portasci e il portabici.
 
  1. Mantenere il motore in forma con controlli periodici aiuta a tenere in efficienza la meccanica e a consumare meno
 
  1. Viaggiare con pneumatici sgonfi fa aumentare il consumo del 6% e logora prima le gomme.
 
  1. L’aria condizionata fa consumare fino al 30% in più così come tenere i finestrini aperti ad alta velocità
 
  1. Utilizzare l’auto solo per tragitti medio-lunghi e solo se davvero indispensabile. Per i tragitti urbani sotto i 4 km la bicicletta permette di arrivare prima.