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Ma è proprio vero che l’Italia avrebbe potuto tenersi fuori dalla seconda guerra mondiale?

di Francesco Lamendola - 12/03/2010

 
 

La Vulgata storiografica repubblicana, democratica e resistenziale ha sempre sostenuto che la guerra fu il fallimentare banco di prova del fascismo; che tutto il Ventennio fu una preparazione a quella prova; ma anche, al tempo stesso, che la decisione di entrare in guerra fu un colpo di testa di Mussolini e che lui solo porta il fardello di quella avventata decisione.
Già qui, è evidente, siamo in presenza di una grossa contraddizione e sembra quasi incredibile che tre o quattro generazioni di Italiani l’abbiano presa per buona, anche se ciò si spiega col fatto che essa è stata inculcata loro, con zelo e sistematicità, fin dai banchi delle scuole elementari, con quel tono di cosa ovvia e risaputa, che non ammette dubbi e, tanto meno, obiezioni.
Infatti: se tutta la politica del fascismo tendeva, fin dall’inizio, alla revisione “manu militari” del Trattato di Versailles, come conciliare questa tesi con l’affermazione che Mussolini, all’ultimo momento e temendo di sedersi a tavola quando già fosse stato sparecchiato, si gettò a capofitto in una guerra che non aveva né previsto né adeguatamente preparato?
Già, l’impreparazione: industriale, militare, strategica e psicologica. Questo argomento è stato usato e abusato per sostenere, volta a volta, l’inconsistenza del fascismo che non aveva saputo preparare il Paese a una guerra cui pure si stava indirizzando; e la sconsiderata avventatezza di Mussolini che si comportò, cinicamente o incoscientemente (a seconda di come lo si voglia giudicare), come un giocatore di poker che spera di vincere la partita con un semplice “bluff”.
A nessuno degli storici della cultura oggi dominante è venuto in mente di verificare se la responsabilità tecnica, politica e morale di quella impreparazione fu tutta intera del regime, che era corrotto, e del Duce, che era un illusionista il quale finì per credere ai propri giochi di prestigio; oppure se non ricada anche, almeno in parte, sulla classe dirigente italiana pre-fascista, massonica e filo-inglese, che non desiderava una vittoria dell’Italia e che fece di tutto perché la perdesse: dai finanzieri ai grandi industriali, dagli ammiragli ai generali. Mandando allo sbaraglio centinaia di migliaia di bravi soldati e di valorosi marinai ed aviatori ed esponendoli non solo alla sconfitta, ma anche alla vergogna e al disonore.
Potremmo esporre parecchi indizi che autorizzano, quanto meno, a prendere questa interpretazione come una seria ipotesi di lavoro: dalla mancata installazione del radar a bordo delle nostre navi, benché l’Italia fosse stata il primo Paese al mondo a creare le premesse per quel tipo di tecnologia, alle strabilianti coincidenze che permisero più e più volte alla flotta britannica di trovarsi in mare, pronta a far fuoco, nel luogo e nel momento precisi in cui sopraggiungevano forze navali italiane  nettamente inferiori o addirittura navi da carico e convogli diretti in Libia, senza alcuna scorta o con una scorta del tutto insufficiente.
E così, di coincidenza in coincidenza, potremmo giungere anche a parlare di quei famosi scarponi con la suola di cartone, calzando i quali i nostri bravi alpini si trovarono ad affrontare l’inverno russo; oppure della resa inspiegabile di poderose fortezze come Pantelleria e Augusta, nell’estate del 1943, che avrebbero potuto resistere per dei mesi e che, viceversa, ammainarono la bandiera praticamente senza combattere, e consegnando al nemico tutto il materiale bellico!
Perciò, la domanda da farsi, quando si sventola la nostra impreparazione militare come prova lampante della irresponsabilità e della megalomania del fascismo, dovrebbe essere questa: le classi dirigenti italiane, legate alla Monarchia e alla Massoneria, desideravano realmente la vittoria dell’Italia al fianco della Germania; oppure preferivano, per poter conservare le proprie posizioni di potere, la sua sconfitta ad opera degli Alleati?
Non si può, infatti, non istituire un parallelismo fra l’Italia del 1943, dopo la caduta dell’ultimo caposaldo in Tunisia, e quella del 1917, all’indomani della rotta di Caporetto; e senza dimenticare che, nel secondo caso, si era trattato di un vero e proprio “sciopero militare” da parte di un esercito demoralizzato dalla pessima strategia di Cadorna, ma assai superiore al nemico in uomini e mezzi; mentre, nel primo, di una resa onorevole da parte di un esercito - quello del generale Messe - che si era battuto con strenuo valore e con assoluta determinazione, fino all’estremo, contro una schiacciante preponderanza nemica.
Ebbene, nel novembre del 1917, quando gli Alleati dell’Italia - allora Francia e Gran Bretagna - proponevano al re Vittorio Emanuele III la ritirata fino al Mincio, vi fu una alzata di scudi non solo del popolo italiano, ma di tutta la sua classe dirigente: mai prima di allora e mai dopo di allora si sarebbe più assistito a un simile spettacolo di concordia nazionale nell’ora dell’estremo pericolo, che resero possibili, nell’immediato, la vittoria nella battaglia d’arresto sul Piave e, un anno dopo, la vittoria definitiva di Vittorio Veneto. La Fiat e le altre industrie di guerra fecero miracoli e così le banche e gli apparati amministrativi: e quella fiducia, quella fermezza percorsero tutto il Paese, dalle Alpi alla Sicilia, come una ventata benefica, dopo i giorni cupi di Caporetto, rendendo possibile l’ora della riscossa.
Nel giugno e nel luglio del 1943 non si vide nulla di tutto ciò; al contrario. Si videro ammiragli cedere al nemico piazzeforti ancora intatte; splendide navi da battaglia dirigersi a tutta forza verso le basi nemiche, per consegnarsi senza sparare un colpo di cannone; mafiosi e amici di mafiosi tessere oscure trame per facilitare l’invasione nemica del suolo patrio; industriali e finanzieri brillare per la loro assenza (dopo che erano stati fin troppo presenti nel manovrare la caduta di Mussolini attraverso la seduta del Gran Consiglio del fascismo il 25 luglio del 1943, timorosi com’erano dei progetti del Duce di socializzare l’economia).
Non solo: che senso può avere quell’odiosa e umiliante clausola del Trattato di Parigi del 1947, che  vietava qualunque procedimento giudiziario a carico di quegli Italiani i quali si erano adoperati per la sconfitta e la resa del proprio Paese: e ciò non dal settembre 1943, ma fin dall’inizio della guerra, nel giugno del 1940? Chi erano quegli Italiani, da quanto tempo agivano come una quinta colonna nemica e in quali maniere si adoperarono per raggiungere i loro scopi, ricevendo anche, a guerra finita, decorazioni e onorificenze dall’ex nemico? Ecco un’altra pagina di storia che la Vulgata dominante non ha mai avuto il coraggio di approfondire, evidentemente in base al motto di Machiavelli che il fine (la caduta della dittatura fascista) giustifica i mezzi (la sconfitta e la suprema umiliazione della Patria).
Né giova obiettare, a questo impietoso raffronto, che la guerra del 1915 era stata una guerra sentita e popolare, e quella del 1940 non sentita e impopolare: perché è vero, semmai, il contrario. Chi si prenda la briga di andare a leggere non solo i documenti ufficiali e la stampa dell’epoca, ma anche le lettere della corrispondenza privata e i diari dei comuni cittadini; chi si prenda la briga di confrontare il numero degli arruolamenti volontari nel maggio del 1915 e nel giugno del 1940, avrà una bella sorpresa, rispetto a quanto sostenuto dalla Vulgata dominante dopo il 1945: ossia che la guerra di Mussolini fu molto più sentita e molto più popolare di quella di Salandra, Sonnino e Vittorio Emanuele III, gli artefici del Patto segreto di Londra.
Ma torniamo alla domanda da cui eravamo partiti: è proprio vero che l’entrata in guerra dell’Italia nel secondo conflitto mondiale fu un esempio della irresponsabilità e del cinismo di Mussolini (due concetti che, comunque, tendono a elidersi vicendevolmente) e che il nostro paese avrebbe potuto benissimo restarne fuori, risparmiandosi cinque anni di distruzioni apocalittiche e di sofferenze inaudite?
Ebbene, ci propiniamo di mostrare che, al contrario:
- l’Italia non aveva scelta e doveva necessariamente entrare in guerra nel 1939 o nel 1940;
- Proprio quelle forze politiche che più hanno gridato allo scandalo per la decisione di Mussolini di entrare in guerra, desideravano quella decisione con tutte le loro forze, perché solo così potevano sperare di provocare, attraverso la guerra e la sconfitta della Patria, la caduta dell’odiato regime fascista.
Le tesi della Vulgata dominante, circa l’assoluta gratuità dell’intervento in guerra dell’Italia, sono state così riassunte da Carmelo Bonanno, il quale cita, a sua volta - e si pensi che razza di storiografia è  quella che va a prendere i concetti chiave dai politici militanti della parte vittoriosa - un discorso di Pietro Nenni (in: C. Bonanno, «L’età contemporanea nella critica storica», Padova, Liviana Editrice, 1973, p. 325):

«Ma ciò che provocò il fallimento del fascismo fu la guerra che Mussolini dichiarò alle potenze alleate nel 1940. Fu una guerra veramente senza ragione, senza scusa e anche senza onore, come allora dichiarò Pietro Nenni: “ Senza ragione, perché non era in gioco alcun reale interesse italiano. Senza scusa, perché una vittoria tedesca avrebbe importato all’Italia e al resto del’Europa l’intollerabile e brutale egemonia di Hitler. Infine senza onore, perché Mussolini attaccò una Francia già invasa e agonizzante, facendo assumere all’Italia la parte dello sciacallo. D’altra parte l’intervento italiano non aiutò affatto la Germania,  anzi la coinvolse negli stravaganti progetti del megalomane e incompetente dittatore”.
Il giudizio della storia sulla decisione di Mussolini è nettamente negativo. Mai, è stato detto, uomo politico responsabile ha portato alla rovina il suo paese con maggiore leggerezza.»

Lasciamo perdere la faccenda dell’onore, perché - solo per fare un esempio - una parte da sciacallo ben più turpe fu quella svolta da Stalin nel settembre 1939, quando aggredì la Polonia moribonda, e poi, ancora, nell’agosto 1945, quando fece la stessa cosa col Giappone, già prostrato dalle due bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki.
Vediamo se è proprio vero che l’Italia non aveva né ragione, né scusa per entrare nel conflitto; e lasciamo anche perdere quel che «è stato detto» sulla irresponsabilità di Mussolini, che sa tanto di chiacchiera da portinai e non di ragionamento storico.
Quanto alla ragione, si potrebbe osservare che erano in gioco gli interessi vitali dell’Italia, come e più che nel 1915 - e questo è un discorso che non piace, ma che pure bisogna fare: intendiamo dire, la perfetta continuità tra le guerre risorgimentali del 1848-49, del 1859 e del 1866 e i due conflitti mondiali, passando attraverso l’esperienza del colonialismo, della guerra di Spagna e, infine, della guerra d’Etiopia.
Per ciò che riguarda la “scusa”, come la chiama Nenni (forse intendendo la scusante), è ben facile mostrare che la decisione di entrare in guerra era dettata proprio dall’esigenza di limitare quella che sembrava la futura, inevitabile supremazia tedesca sul continente europeo: come membro del Patto d’Acciaio, Mussolini non poteva tirarsi indietro, pena attrarre sull’Italia l’ira di Hitler, allorché quest’ultimo avesse regolato la partita con le democrazie occidentali.
Si potrebbe a ciò obiettare che nessuno aveva imposto a Mussolini di stringere quel patto, legando indissolubilmente il destino dell’Italia a quello della Germania nazista; ma non è vero. Come gli statisti occidentali più onesti hanno sempre riconosciuto, fu la miope ed egoistica politica anglo-francese a gettare Mussolini nelle braccia di Hitler, e non - come si continua a ripetere - l’impresa etiopica e le sanzioni; e, più di tutto, fu l’accordo navale anglo-tedesco del 1935, che fece abortire nella culla il “fronte di Stresa” fra Italia, Francia e Gran Bretagna per contenere il minaccioso riarmo germanico.
Ci ripromettiamo di tornare altra volta su tale fondamentale questione: per ora, ci limiteremo a ricordare le memorie, quanto mai istruttive, dell’ambasciatore francese Léon Noël, «Les illusions de Stresa. L’Italie abbandonée a Hitler» (Paris, Editions France-Empire, 1975), il cui contenuto può essere così riassunto. All’inizio del 1935, il popolo italiano non aspirava che alla pace e Mussolini sperava ancora che l’Anschluss potesse essere evitato.  A tal fine, egli intendeva prendere accordi di natura militare con la Francia, onde garantire l’indipendenza dell’Austria. Invece il governo britannico, nello stesso giro di tempo, si ostinò a cercare un terreno di accomodamento con Hitler e si preparò a stipulare con lui, all’insaputa sia del Francia che dell’Italia, un accordo navale di capitale importanza.
Ma di questo ci riserviamo di parlare altra volta, in maniera più approfondita. Per ora, ci bastava mettere in luce che l’Italia, nel 1940, non aveva molti margini di manovra per conservare la neutralità; la posta in gioco non era solamente la sua posizione di potenza imperiale, ma anche e soprattutto la sua stessa sopravvivenza come Stato indipendente e sovrano.
Dopo che la dichiarazione di guerra anglo-francese alla Germania ebbe precipitato lo scoppio della seconda guerra mondiale, all’insegna di uno slogan - «morire per Danzica» - assurdo e in mala fede (come ha osservato A. J. P. Taylor, quella di Danzica era la più giusta di tutte le rivendicazioni territoriali di Hitler), l’Italia venne a trovarsi in una posizione tale da renderle impossibile il mantenimento indefinito della neutralità. Se avesse vinto la Germania, certamente essa si sarebbe poi rivolta contro di lei, per farle scontare questo secondo “tradimento” (dopo quello, opinabile ma radicato nell’opinione pubblica tedesca, del 1915); se avessero vinto gli Anglo-francesi, si sarebbero anch’essi rivolti contro il partner di Hitler nel Patto d’Acciaio e non si sarebbero dati pace finché non lo avessero piegato e messo in ginocchio, magari anche solo con una pressione economica e finanziaria, cui l’Italia non avrebbe potuto resistere.
Questa è la nuda e cruda verità, anche se può non piacere alla Vulgata storica oggi imperante. Certo, non piace perché priva i volonterosi storici di parte della loro tesi precostituita: che il fascismo doveva, per forza di cose, stringersi in un abbraccio mortale con il nazismo; e che Mussolini non era che un avventuriero e un dilettante della politica, disposto a gettare l’Italia nel baratro pur di assecondare gli istinti della sua folle megalomania. Consente, inoltre, di rifare una verginità alle democrazie occidentali, cui la borghesia massonica e affaristica nostrana era, ed è, così strettamente legata da molteplici interessi; accreditando l’immagine di una Francia e una Gran Bretagna desiderose solo di pace e di libertà e trascinate in guerra, loro malgrado, non per fini interessati, ma per la loro generosa volontà di estendere al mondo intero i benefici indiscutibili del libero mercato e della democrazia liberale.
Ma torniamo alle ragioni dell’intervento italiano. Ve n’erano anche di attive, oltre a quelle passive relative alla impossibilità di sottrarsi ad una resa dei conti con chi fosse uscito vittorioso dal conflitto in corso tra la Germania (alleata, non lo si dimentichi, con l’Unione Sovietica) ed il blocco anglo-francese? Certamente; e la rivista ufficiale del regime, «Gerarchia», fondata nel 1922 dallo stesso Mussolini, le esponeva con molta chiarezza nel numero di luglio 1940, sotto il titolo «Il duplice problema», in un articolo senza firma ma dovuto, probabilmente, alla penna dello stesso Duce (in: Renzo De Felice, «Autobiografia del fascismo. Antologia di testi fascisti 1919-1945»,  Torino, Einaudi, 2001, 2004, pp. 396-98):

«La caratteristica generale di questa guerra, nell’impostazione degli stasi totalitari, si manifesta nella sua duplice qualità di conflitto a sfondo sociale  che affronta il problema della ricchezza FRA le Nazioni, per poterlo risolvere in seguito NELLE Nazioni.
L’impostazione è stata fatta da Mussolini fin dal 1919, quando Inghilterra e Francia, vinta la guerra con l’aiuto dell’Italia,  gettarono le maschere delle libertà dei popoli, della civiltà europea in pericolo, della fraternità latina, e gli abusati luoghi comuni della propaganda antigermanica, e rivelarono il loro sconcio egoismo accaparratore di ricchezza; si formò, allora nei popoli, la sensazione che non solo nell’interno delle nazioni esistessero padroni muniti di privilegi e proletari senza diritti, ma una uguale situazione di fatto esistesse pure fra le Nazioni, e questo secondo malanno aggravasse il primo. Il bolscevismo, degenerazione del socialismo, guardò soltanto al primo; il fascismo, più intelligente, ad entrambi.
Il 23 marzo 1919, nella storica adunata di Piazza San Sepolcro, Mussolini ammoniva così Francia e Inghilterra: “Se la Società delle nazioni deve essere una solenne ‘fregata’ da parte delle Nazioni ricche contro le nazioni proletarie per fissare ed eternare quelle che possono essere le condizioni attuali dell’equilibrio mondiale, guardiamoci bene negli occhi.” […]
Di fronte a queste mostruosità di natura sociale e internazionale, quotidianamente mascherate da una stucchevole propaganda a base di ‘libertà dei popoli’ (che sarebbe la libertà dei ricchi di soffocare in eterno il diritto dei poveri) stanno le verità semplici e umane enunciate da Mussolini e da Hitler:
1) ridistribuire le ricchezze della terra per accorciare le distanze  tra i popoli affinché ogni popolo possa a sua volta accorciare le distanze interne fra le categorie, distribuendo le nuove ricchezze venute in suo potere;
2) sostituire alle gerarchie del denaro, le gerarchie dello spirito.
Le demoplutocrazie accolsero queste verità con la grinta caratteristica del vecchio egoismo padronale e reazionario, e al primo pretesto presentatosi, con sdegnosa prosopopea, dichiararono la guerra.
Ora siamo alla guerra; sul fronte di Francia, anzi, siamo già all’armistizio. Guerra rivoluzionaria per i rapporti sociali fra i popoli e all’interno dei popoli. Problema duplice interdipendente.
I nostri scopi politici sono evidenti:
1) sostituire agli uomini e alle idee dell’89 le idee e gli uomini del secolo fascista;
2) con questi uomini nuovi risolvere i problemi economici, cioè sociali, del mondo, assegnando a ciascun popolo e a ciascun uomo la sua possibilità di lavoro, cioè di ricchezza.
Il sacrificio di vite umane per raggiungere questa superiore giustizia non l’abbiamo voluto noi, ecc.….»

Anche facendo la tara a queste dichiarazioni d’intenti che dovevano, comunque, tener conto delle contingenze politico-militari del momento - con un Hitler sempre più potente e una Francia crollata anche troppo in fretta -, non vi è motivo di mettere in dubbio la sincerità di Mussolini nel delineare questo quadro e nel tracciare queste prospettive.
La guerra, per l’Italia, era non solo e non tanto la rivincita e il riscatto dalla sconfitta diplomatica patita nella Conferenza di Versailles del 1919; era anche, e soprattutto, la guerra di un grande Paese proletario, sovrappopolato e privo di materie prime, contro due antiche e ricche potenze imperiali e finanziarie le quali, dietro la maschera della Società delle Nazioni e le belle parole d’ordine della libertà e dei diritti dei popoli, si errano spartite il mondo a tavolino e pretendevano di sfruttarne illimitatamente le ricchezze.
Questo, almeno, se l’Italia intendeva svolgere realmente una politica da grande potenza, quale essa era divenuta, a tutti gli effetti, nel 1918, senza però averne la tradizione, la psicologia e il sentire collettivo, che rendono sopportabili i sacrifici in vista di un risultato comune.
Ma l’alta borghesia italiana della finanza e dell’industria la pensava altrimenti. Per poter continuare indisturbata i suoi affarucci con le plutocrazie occidentali, essa non aveva che due strade davanti a sé: impedire l’entrata in guerra o, se questo non le fosse riuscito, adoperarsi quanto meglio poteva per la sconfitta della patria.
Essa finì per imboccare la seconda strada, e fu premiata dagli eventi al di là delle sue più rosee aspettative. Così, a partire dal 1945, le fu concesso dalle potenze alleate, con magnanimità non priva di condiscendenza, di tornare a recitare quel ruolo subordinato, nel contesto del nuovo ordine mondiale, per il quale sentiva una così forte vocazione; e di riprendere a filare, in tutta tranquillità, le sue trame e i suoi dubbi affari, dalla Loggia P2 alla mafia ai ripetuti scandali finanziari, nei quali essa sa dispiegare tanta abilità e tanto tatto da rimanere sempre nell’ombra, manovrando sul palcoscenico della politica i suoi eterni uomini di paglia.