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Duecento metri più in là

di Claudio Ughetto - 12/03/2010

 
 
 
A mio padre

Dovevo avere meno di dieci anni quando mio padre mi regalò la slitta, ma di preciso non ricordo quanti. Intorno a quell'età il passaggio da un anno all'altro si riduce a un giorno di regali e festeggiamenti, molto atteso, nel quale diventiamo oggetto d'attenzione come non mai. Un'unica cifra (sette, otto, nove?), meno di dieci candeline su cui soffiare, ma in noi c'è ancora ben poco di quei cambiamenti che ci coglieranno dopo che uno zero si sarà aggiunto all'uno che ha segnato il primo anno della nostra vita.
Quell'inverno i miei amici erano ancora simili a me, imbacuccati in giacche a vento proletarie, capelli e orecchie nascosti sotto cuffie da sciatore già firmate all'epoca (e alcune griffe erano le stesse di adesso). Non importava chi fosse più ricco o povero in quella pluriclasse di dieci allievi, maschi e femmine, tutti ingrembiulati in nero e blu. E le differenze si annullavano completamente quando tornavamo a piedi dalla scuola e ci rotolavamo nella neve in discesa, giù per i prati con la sicurezza che a valle c'erano le nostre case, dove le mamme ci avrebbero dato dei vestiti asciutti prima di farci sedere a tavola.
E il pranzo era solo un intermezzo, non tra la scuola e i compiti, ma tra la discesa di prima e un pomeriggio altrettanto innevato. Ero un bambino fortunato, anche se a quei tempi non me ne accorgevo: figlio unico di provincia, abitavo non in un caseggiato urbano ma in una casa rurale. Per me una “borgata” era una linea di tetti su un cortile, intorno campi che la gente di quelle case aveva sottratto ai boschi e ai prati. Oggigiorno la maggior parte delle persone riterrebbe irresponsabili dei genitori che permettevano ai figli d’allontanarsi tra i boschi per un intero pomeriggio o un'intera giornata estiva. Eppure credo che nessuno sia stato più protettivo di mia madre e di mio padre.
Angelo, Marco, Davide e Stefano erano i miei amici. Scorrazzavano con me. Più di me insistevano perché Stefania, Giuliana e le altre compagne di classe giocassero con noi almeno ogni tanto. Ci riuscivamo d'inverno, facendo a palle di neve tra i campi innevati, suddivisi da terrazzamenti che i contadini chiamavano “rive”. Volavamo sulle rive con la slitte e il bob, le nostre compagne aggrappate a noi, urlanti e ridenti. Ad ogni giro salivamo più in alto, sfidandoci in una discesa che ogni anno ci spaventava nello stesso modo, ma che diventava ben presto troppo breve per quanto salissimo. 
Stefano veniva in villeggiatura solo d'estate, sulla neve con noi non c'era. Angelo aveva un bob che gli avevano regalato i suoi fratelli ormai adulti, perché sua madre era troppo anziana per accontentarlo in simili frivolezze. Benché fosse monoposto, su quel bob si scendeva anche in tre. Angelo sapeva far posto già allora: qualche anno dopo l'avrebbe fatto alle ragazze, sul retro del Fantic acquistato lavorando con uno dei suoi fratelli. I miei cugini Marco e Davide sfoggiavano un bob biposto, azzurrognolo, pieno di adesivi, facsimile di quei bolidi in bianco e nero che la domenica vedevo sfrecciare in televisione. L'unico con la slitta ero io: una slitta da ricchi, in legno pregiato di frassino e lamelle in acciaio; agile e massiccia, di bambini ne avrebbe portati anche quattro. Eppure di quella meraviglia non ero contento, e delle volte l'avrei volentieri scambiata per quei bob. Pezzi di plastica, ma dotati di freni. 

Di preciso non ricordo quando, ma so che nevicava perché vedevo mio padre dal basso, davanti alla finestra della stanza che mia madre chiamava “il tinello”, contornato dalla caduta fioccante oltre il vetro. I capelli biondicci, fini e probabilmente già radi, gli occhi verdognoli e commossi che gli ho sempre invidiato. Aveva i tratti rassicuranti di sempre, l'espressione dolce e un po' impacciata che me lo faceva sentire speciale rispetto ai padri dei miei amici. Padri che non si sarebbero mai infilati in auto sotto la neve per andare a comprare una slitta che quasi non ci stava nel bagagliaio. Né sarebbero rientrati tenendola con mani forti, ma quasi in punta di piedi, come a dire: - Sono uscito per una passeggiata ed ho pensato a te -. L'avrebbero considerato da matti o da scemi, addirittura di cattivo esempio, perché a un bambino non si danno tutte vinte. Di bambini capivano poco, né di un padre tra i venticinque e i trenta, ancora pronto a stupire suo figlio.
Sono nato d'estate, quindi non era il mio compleanno. Forse il Natale era vicino, da arrivare o appena passato, ma quella slitta non era un regalo da trovare al risveglio, pacco enorme tra i piccoli, tutti appoggiati su quello stesso tavolo dove lui la stava posando. Non era impacchettata, neppure incartata. Legno chiaro, traslucido di vernice da nave. Impercettibile insieme d'incastri, le viti tra un incastro e l'altro sembravano messe per figura in un pezzo unico. Ogni listello aveva gli angoli perfettamente arrotondati, la luce elettrica vi si rifletteva per linee sottili. Salii sulla sedia per sfiorarla, seguire i riflessi con la punta del dito. La sollevai leggermente, feci riaderire le lamelle al tavolo, spostandola poi avanti e indietro sulla tovaglia cerata, immaginando come sarebbe scivolata sulla neve. Forse dovevo dire qualcosa, chiedere a mio padre d'aiutarmi a portarla fuori. Ma già mi rendevano felice la sua discreta soddisfazione, e il contatto con quel legno che mi sembrava nel contempo troppo nuovo e troppo eterno.

Incoraggiato da mio padre, quella sera avevo collaudato la slitta con lui in cortile, sotto la nevicata, con il buio che stava arrivando e un freddo umido che correndo e spingendo avevo smesso subito d'avvertire. Lui spingeva con me. Spingeva col pretesto d'insegnarmi ad usarla, anche se ero abbastanza grande da intuire che non c'era niente da imparare, e lui lo sapeva meglio di me. Fingevamo insieme: io per riconoscenza, lui per stare con me e vedermi contento. Non gli bastava sapermi contento quand'era al lavoro. Chissà perché, quando la mamma mi diceva che lui era andato a lavorare, in testa mi appariva l'immagine del cartello Lavori in corso, ed ero convinto che papà stesse a scavare con una pala in mezzo alla strada, con in testa un casco da minatore. Esisteva davvero un cartello così o m'ero inventato pure quello? Magari avevo messo insieme più immagini, ma tuttora le ricordo come una. L'unico dato reale, ho scoperto in seguito, era il casco che lui indossava quando s'intrufolava tra i macchinari di un'officina FIAT, alla ricerca di guasti elettrici da riparare. Altrimenti c'era quella realtà innevata, soffice, da condividere con lui, tra le sue mani ruvide che ormai avevano smesso di spingermi. Qualche dritta per insegnarmi a frenare piantando i tacchi, in modo che l'indomani pomeriggio potessi fare la mia bella figura davanti agli amici. 
Tra di loro credo d'essere stato il primo ad avere un mezzo per scivolare sulla neve, ed ero orgoglioso di questo. L'indomani, a scuola, l'avevo detto ad Angelo e Marco: - Papà mi ha comprato la slitta, oggi ve la faccio provare -. Prima dei dieci anni non è importante apparire grandi, quindi ci si può vantare di avere un papà che ha giocato con noi la sera al buio, sotto la neve, trasmettendoci una competenza. Eppure in quel momento stavo già dichiarandomi adulto, disposto a condividere quella mia competenza con loro. Dopo pranzo, un pomeriggio freddo e nuvoloso, scesero in cortile per vedermi spingere la slitta e caderci sopra di pancia, inarcando la schiena e puntando i palmi. Oppure, sempre di rincorsa, ci appoggiavo le ginocchia per approfittare dello slancio che si esauriva dopo pochi metri. Dubito che stessero ammirando le mie evoluzioni, perché non c'era niente da imparare, solo da provare. Quella slitta l'avrebbero voluta anche loro, insieme a un papà che non aspetta il Natale per fare regali. Davide, il più piccolo di noi, che avrebbe iniziato le elementari l’anno seguente, fu il primo a saltellarmi incontro, nella neve che quasi gli arrivava all'inguine. Lo spinsi sulla slitta come mio padre aveva spinto me, approfittandone per sentirmi ancora padrone della slitta. La tenevo tra le mani, per divertire qualcun altro. Per farla provare a loro avrei dovuto staccarmene, riconoscere che tra breve tempo non sarei stato il solo a domarla.
Li lasciai provare quando ormai avevo deciso d'alzare la posta. Il tempo di lasciare che mi imitassero, d'accorgermi che dopo un paio di tentativi già si muovevano come me, addirittura meglio. Indicai un punto laterale alle case, distante duecento metri, proprio la discesa a terrazzamenti che si apriva tra i boschi per declinare sulla strada dove ogni tanto passava qualche auto. All'epoca non erano molte. E proprio per questo il pericolo era maggiore: in quei posti di contadini i giovani automobilisti guidavano a tutta velocità, come se cani e bambini non esistessero.
- Non so se mamma e papà sono d'accordo - disse Marco.
- Zio e zia lavorano, e nonna sta dormendo - risposi.
- Mi hanno detto di badare a Davide, e di non allontanarci da casa.
Angelo alzò la testa dalla slitta, girandosi verso di noi. - Dài! Io sono pronto.
Salii in casa per dire a mia madre che sarei andato con gli amici a provare la slitta nei prati davanti alle case, pianeggianti e trasformati dalla neve in una distesa uniforme. Mia madre era una donna giovane, ultraprotettiva. Davvero non so spiegarmi come allora mi avesse permesso d'allontanarmi dicendo semplicemente: - Va bene. Fa' attenzione ad attraversare-. Doveva fidarsi parecchio. Cos'avrebbe risposto se le avessi detto la verità: andiamo con la slitta giù per la discesa, a volare sulle rive? E perché mi ricordo di parecchi inverni di discese, noi in slitta e bob gareggiare? Mio padre mi regalò quella slitta quando dovevo avere meno di dieci anni, prima che iniziassi le scuole medie. Di lì a un anno o due quelle discese sarebbero diventate abituali, come salire sulla bici al mattino per andare in paese con la cartella sulle spalle. Un tempo breve all'interno di una vita, ma lunghissimo per me che l'ho vissuto. Anche se sto riassumendolo in un istante.
Nel timore che la mamma potesse cambiare idea, o farmi delle domande, raggiunsi gli amici scivolando giù per la ringhiera della scala che sbucava direttamente in cortile. Sulla strada di neve non ce n'era: sgomberata e ammucchiata sui lati dallo spazzaneve, durante la notte. Se in cortile mi ero trascinato dietro la slitta tenendola per l'elegante cordino intrecciato, ora Angelo mi aiutava a reggerla da dietro perché le lamelle non si rovinassero sull'asfalto. Eravamo disciplinati. Anche Marco, che altrimenti ne avrebbe approfittato per buttarci addosso dei blocchi gelati, adesso era troppo occupato a tenere per mano il fratello. Ci sfogammo appena raggiunto il fondo della discesa. Ancora sulla strada lanciammo la slitta oltre il cumulo che ci divideva dal soffice manto, su cui scivolò come se volesse procedere da sola. Poi, scavalcato il cumulo e aiutato Davide a scavalcarlo, ci lasciammo cadere in quel manto che ci arrivava alle ginocchia. Improvvisammo una baruffa. Angelo, il più crudele, mi affondò la faccia nella neve più volte, ben sapendo quanto mi irritasse sentire il gelo su per il naso. Marco ne approfittò per bombardarci entrambi con scariche di neve male appallottolata, mentre Davide già s'intratteneva con la slitta sforzandosi di spingerla verso l'alto. Era probabilmente riuscito a girarla quando alzai lo sguardo appannato per vederlo scendere coricato sui legni. Pochi metri, una decina, abbastanza per dargli una certa velocità e piantarsi contro il cumulo di neve compressa. Niente affatto spaventato, cominciò a urlare di gioia, finché Marco non gli si avventò contro per sgridarlo.
- E se finivi in strada? Chi la sentiva la mamma se passava una macchina?
Ancora col culo nell'umido, Angelo guardò la strada senza vederla, come se la intuisse oltre il cumulo, poi la discesa sopra di noi e le rive che si succedevano come dei trampolini in miniatura. - C'è il rischio di atterrare su di un cofano, sapete? - esclamò, risistemandosi la berretta sui riccioli ghiacciati. Ultimo di cinque fratelli, parlava con un tono apparentemente adulto. In quel momento mi avrebbe volentieri sottratto la slitta, se non l'avessi anticipato afferrandola e trasportandola fin oltre la prima riva. Non ero poi così in su, e la pendenza neppure così accentuata, non fosse stato per quel manto che da lì appariva come un telo sospeso, sbrecciato dalle nostre pedate e dai ghirigori lasciati dalla slitta, trattenuto sul bordo della strada da quel pesante cumulo longitudinale.
Chino sulla neve, Angelo stava preparandosi una scorta di palle di neve da lanciarmi addosso durante il salto. Per dispetto mi spostai nella sua direzione, minacciando di travolgerlo. Lui si raddrizzò e balzò sul cumulo dove già mi stavano aspettando Marco e Davide, tutti armati, in posizione favorevole e pronti a tirare. Sarei passato per fifone a non scendere. Angelo mi avrebbe preso in giro, dicendo che bastava un salto di pochi centimetri per scoraggiarmi. In realtà mi sembrava da scemi offrirmi alla loro scarica, come un tirassegno urlante. Cos'avrebbe fatto Angelo, uno che aveva i fratelli più furbi e imparava ogni giorno a cavarsela?
Non avendo tempo di pensarci, mi sedetti sulla slitta e spinsi con i piedi. Meglio passare da scemo coraggioso che da fifone e pure scemo. Forse per imitare i motocrossisti che vedevo in televisione, affrontai il salto stando sul retro della slitta, inarcando la schiena. Altrimenti sarei caduto di punta e l'impatto mi avrebbe sbalzato in avanti. Funzionò. Anche se in quella posizione ero facile da colpire. Per fortuna la scarica non mi arrivò addosso durante il salto ma all'atterraggio. Tra i colpi, uno schiaffo gelido in piena faccia che quasi mi fece dimenticare che dovevo puntare i piedi prima di sbattere contro il cumulo. Trattenendomi dal buttarmi giù, agitai caoticamente gli scarponi nel tentativo di puntare i calcagni, scalzando la neve come un cinghiale grufolante. Quando fui fermo non persi tempo a guardarmi intorno: del disastro, la neve e il fango rivoltati e mescolati, mi accorsi dopo. Loro erano proprio sopra di me, ridanciani e già intenti a riarmarsi, le mani in quel cumulo compatto. Alzato lo sguardo, individuai Angelo. Pieno di rabbia, lo afferrai per un braccio e tirai. Mi cadde addosso, sbalzandomi dalla slitta, ma riuscii a scansarlo lontano. Approfittando di quella botta adrenalinica, con una torsione gli fui sopra. La scarica di pugni che gli assestai non aveva nulla della scherzosità di quand'eravamo arrivati lì, e avrei potuto colpirlo all'infinito se Marco e Davide non mi avessero bloccato da dietro.   
Angelo doveva averle prese spesso dai suoi fratelli, dubito quindi che i miei pugni l'avessero davvero messo al tappeto, per quanto furenti. Mentre mi rimettevano in piedi, dandomi modo di rinsavire, ho subito temuto che lui ne avrebbe approfittato per darmele,  e già stavo preparandomi a tirargli un calcio. Invece si tenne lontano, massaggiandosi la nuca che aveva sbattuto durante la caduta. Forse stava chiedendosi perché me l'ero presa con lui. Solo con lui. Come se Marco non ci fosse su quel cumulo. Mi sembrò che non sapesse se ridere o piangere, e riuscì solamente a dire:
- Tu sei matto. Proprio non lo capisci quando si scherza!
Me lo diceva spesso, e aveva ragione. Al contrario di lui, nessuno mi sfotteva tutti i giorni in casa, né mi ridimensionava con una pacca se mi mostravo offeso. E avevo un papà con l'auto, talmente giovane da farmi dei regali imprevisti.

Credo d'essere stato il primo ad avere un mezzo per scivolare sulla neve, e in seguito anche l'unico a piantare i piedi al fondo della discesa, pronto a buttarmi giù mentre volavo le rive a velocità crescente. Il primo a ricevere in regalo il bob era stato proprio Angelo. Benché non fosse di legno pregiato, quel guscio di plastica aveva delle qualità che avevano subito attratto anche Marco e Davide: arrivati al fondo bastava tirare le due bacchette ai fianchi per frenare; addirittura, tirandone leggermente una sola, si poteva girare a destra o a sinistra, derapare lungo la discesa e zigzagare. Io scendevo più linearmente, incidendo con le lamelle tratti del loro percorso. Per svoltare, quando sull'alto della discesa incrociavo un cespuglio o un alberello, dovevo scalzare interi fazzoletti di neve coi piedi. Loro ci passavano sopra, nella speranza di appiattire il pasticcio.
Non ricordo come Angelo ed io tornammo a frequentarci, ma di certo non erano trascorsi molti giorni dalla nostra rissa. Non ne riparlammo mai. Gli prestai la mia slitta, lo stesso feci con Marco e Davide, finché non arrivarono tutti e tre col bob a scalzarmi il primato. Rientrando in casa ero stato tentato di dire a mio padre che quella slitta era magnifica, ma bisognava cambiarla con un bob. Poi pensavo che me l'aveva regalata lui. Dirgli che era passata di moda sarebbe stato come rinnegare l'immagine di lui con i fiocchi che gli scioglievano sulla giacca, mentre la posava su quel tavolo che per me diventava ogni giorno meno alto.

Sono tornato ad invidiargli quegli occhi verdognoli e commossi pochi anni fa, all'inizio dell'inverno.
Mi ero sposato da poco tempo, dopo essere stato per qualche anno lontano da casa. Ai miei genitori avevo dedicato qualche sporadica visita e molte telefonate. Adesso ero a pranzo da loro con mia moglie, proprio dove mio padre era comparso con la slitta tra le mani, stagliandosi davanti alla finestra, la nevicata alle sue spalle. Quello che mia madre chiamava il tinello era diventato la sala da pranzo di un'ex casa rurale che si è riempita di stanze ristrutturate, modificandosi di anno in anno fino ad ora. Mio padre sedeva dall'altra parte del tavolo. Ancora più radi, i capelli continuano a crescergli incolti, come se non avesse il tempo di pettinarli. Ogni volta gli suggerisco di seguire il mio esempio e rasarsi completamente, come faccio da quando l'incipiente calvizie sta rendendomi simile a lui.
- Ti ricordi della tua slitta, - mi ha detto, quand'eravamo al caffé.
Mia moglie mi ha guardato stupita, perché della slitta non sapeva nulla. Della mia infanzia le avevo raccontato delle escursioni nei boschi e dei tuffi estivi nel Sangone gelato, delle bisce che io e gli amici cercavamo di addomesticare. Nei miei racconti l'inverno non esisteva. Avrebbe potuto pensare che in quella borgata ci andavo solo d'estate, in villeggiatura, come Stefano e altri amici che non vedevo da vent'anni. 
L'ho guardata anch'io. - Splendida,- ho detto. - Un vero pezzo da collezione. Credo che sia in solaio. Dopo ti porto a vederla, se ti va.
Mia madre ha passato lo zucchero a mia moglie. - In solaio c'è stata fino a ieri. Qualcuno ha pensato di liberarsene senza nemmeno farti una telefonata.
- Occupava solo del posto. Dobbiamo farci una mansarda là sopra, ricordi? - ha borbottato lui.
- Non l'avrete bruciata?
Mai avrei pensato di chiedergli se l'aveva buttata. L'intera casa è scaldata con la caldaia a legna, ed è tuttora mio padre a tagliare gli alberi, sfrondarli, sezionarli e portarli a valle. E poi una slitta non è un bob. I bob non durano a lungo: dopo un po' i freni si storcono o si staccano, la plastica si crepa com'è capitato a quello di Angelo. Non potendo dividerlo, Marco e Davide hanno buttato il biposto quando sono diventati grandi. Ora Davide va a sciare coi figli a Bardonecchia o Sauxe.
Ho immaginato mio padre che prendeva a mazzate la slitta, i listelli sfasciati e trasformati in legna da ardere. Si era dimenticato d'avere guidato sotto la neve per andare a comprarla, d'avere messo apposta le catene alle ruote? Davvero la sua avversione per i telefoni gli aveva impedito di chiamare per dirmi Vieni a prenderla, se no la brucio? Erano trascorsi quasi trent'anni. Magari aveva pensato che non mi ricordassi di quella slitta o che non m'importava dove fosse finita. E in parte era vero: m'importava dell'ingresso di mio padre in punta di piedi, con in mano un regalo più grande di me.
- L'ho regalata, - ha detto.
Prima che potessi chiedergli a chi, mia madre ha risposto per lui: - C'è una famiglia nuova, in borgata. Abitano nei prati lì davanti, in una villa. Tuo padre va a curargli il giardino. Hanno un figlio di otto anni, Luca.
- Forse l'ho visto una volta, in cortile... - ha detto mia moglie.
- Strano. Sta sempre in giardino, sorvegliato a vista da sua madre.
- Come facevi tu con lui, - ha detto mio padre, accennando a me. - Triste sorte dei figli unici.
- Ma se andava dove voleva. Io col cuore in gola e lui in giro per i boschi.
Mio padre ha tagliato corto: - Gliel'ho regalata nella speranza che nevichi. Se avrete dei bambini andrete a chiedergliela, tanto Luca sarà già grande per pensare ancora alla slitta.
Mia madre si è alzata per raccogliere le tazze. - Se non l'avrà distrutta...
- Ne dubito. Durerà in eterno. Quando l'ho portata giù era come nuova.

Al momento di salutare i miei genitori, nel cortile che era stato asfaltato da pochi mesi, ho guardato i prati oltre strada. Un tempo su quell'erba, al mattino e alla sera si formava una nebbiolina  ad altezza di bambino. Mi sono ricordato di due meli rinsecchiti che spuntavano dalla zona più nebbiosa e lontana, quanto restava di un campo abbandonato già allora. Se di giorno destavano pietà per com'erano malconci, nelle ore nebbiose i loro rami scuri avrebbero potuto abbracciare un convegno di streghe. Per fortuna la borgata era vicina. Di sera, quando s'illuminavano le finestre, noi bambini sapevamo che si doveva rientrare in casa. I compiti li facevo in un silenzio strano, interrotto ogni tanto dal borbottare di mamma: Sempre all'ora di cena ti decidi, quando in testa non ti entra più niente.
Quei meli sono stati sradicati da parecchio, e anche se ci fossero nessuno li noterebbe tra le cinque villette che sono spuntate nei prati, ben distinte dai tetti allineati della borgata da cui le guardavo. Ville monofamiliari, di cui due disabitate d'inverno e due da terminare. Quella in cui abita Luca è sull'angolo di un giardino ampio, abbastanza declinante per usarci una slitta ma troppo breve per un bambino alla ricerca di pendenze interminabili e rive da volare. Un prato dentro ai prati, proprio quei prati in cui noi avevamo finto di andare per spostarci duecento metri più in là.