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Fra i Canachi della Nuova Caledonia la persona non ha nome né io, ma è un insieme di relazioni

di Francesco Lamendola - 15/03/2010

 

 

L’uomo occidentale è ossessionato dall’io e sempre lo è stato.
Il nome proprio è il simbolo di questa ossessione; e Odisseo, il personaggio più rappresentativo dell’uomo occidentale almeno sino a Faust, non a caso si presenta a Polifemo come Udeis, cioè «Nessuno»: somma astuzia da parte di chi aveva un grande concetto di sé e neanche per un momento, neppure nei peggiori frangenti e nelle avventure più pericolose, era giunto a dubitare del proprio io.
L’io; il nome proprio; il tema astrologico natale (e non, come sarebbe più logico, quello del concepimento): sono altrettanti pilastri di quell’egocentrismo che ha sempre indotto l’uomo occidentale a ritenersi distinto e contrapposto agli altri io, e, se possibile, desideroso di controllarli, dominarli, sottometterli a sé.
Non è affatto un caso, ed è solo apparentemente paradossale, il fatto che proprio questo io ipertrofico abbia finito per sboccare, nell’attuale “quarto uomo” postmoderno, di cui abbiamo già parlato altrove (dopo i primi tre tipi: l’uomo greco, l’uomo cristiano e l’uomo borghese), in un oblio di fatto del concetto di persona.
L’io, infatti, non si identifica con la persona, se non apparentemente e superficialmente: in realtà, vorremmo dire che ne è quasi la contraffazione; comunque, rimane un concetto ben distinto. La persona indica la totalità dell’essere umano, nel suo statuto ontologico, ma anche nella sua relazione dinamica con tutti gli altri enti e, quindi, nella sua infinta apertura esistenziale: indicando con tale espressione anche, e non per ultima, l’apertura alla trascendenza; mentre l’io corrisponde essenzialmente all’individuo cosciente di sé (anche troppo), chiuso alla relazione col tu e arroccato in difesa di se stesso e in contrapposizione agli altri enti.
Così ci è stato insegnato fin da piccoli; così ci suggerisce tutta la cultura occidentale e specialmente quella moderna, che, enfatizzando l’elemento dell’autosufficienza umana, proclama, o quanto meno suggerisce, che si viene al mondo per affermare il proprio io, lottando contro tutti e puntando ad abbattere tutto ciò che lo limita o lo ostacola: si tratti della legge morale o della persona fisica dell’altro («l’inferno sono gli altri», dichiara il cattivo maestro Sartre).
Del resto, non aveva trionfalmente proclamato Cartesio: «Cogito, ergo sum», raddoppiando il male, poiché aveva moltiplicato per due l’ipertrofia dell’ego: quella dello spirito e quella del corpo? E noi siamo un po’ tutti figli di Cartesio: del suo dualismo, della sua presunzione razionalista, del suo disprezzo per gli altri enti.
Eppure il concetto di io, così come si è sviluppato e radicato nella cultura occidentale, non è affatto un concetto “naturale”: non fa parte della struttura ontologica dell’essere umano, ma è solo e unicamente una acquisizione culturale.
Altre culture non l’hanno gonfiato all’eccesso, come facciamo noi: per esempio, quella giapponese, ove l’io è visto sempre in un ruolo subordinato rispetto ad altri valori, primo fra tutti la totalità dei doveri sociali; per cui anche il gesto estremo del “harakiri” o quello del “kamikaze” non sono affatto una manifestazione esasperata dell’io, ma, al contrario, un riconoscimento che esistono cose più importanti di esso. Nella cultura giapponese, comunque, l’io non viene negato o represso, ma semplicemente ridimensionato, in confronto ai nostri parametri; e a ciò tende tutta l’educazione dei bambini e dei ragazzi.
Vis sono altre culture, viceversa, nelle quali l’io viene ad essere, di fatto, radicalmente negato; e ciò nelle due forme, opposte e speculari, di una concezione dell’essere umano come ciò che sta al di qua dell’io, oppure come di ciò che ne sta al di là.
Come esempio del primo tipo potremmo citare, fra le altre, la cultura dei Canachi della Nuova Caledonia; come esempio del secondo tipo, la dottrina del «non-io», dell’«anâtman» di certe filosofie indiane, come quella dell’Abhidharma (fonte principale del buddhismo Theravada) e quella, analoga, del «mushin-no-shin» dello Zen giapponese.
In questa sede, spenderemo qualche riflessione sul primo tipo di negazione dell’io; ma, prima, cediamo la parola al sociologo francese Jean Stotzel (1910-1987), il quale, a sua volta, si rifà agli studi “sul campo” del missionario protestante ed etnologo francese Marcel Leenhardt (1878-1954), che si accostò al mondo mitico degli indigeni della Nuova Caledonia in maniera analoga a quanto fece Marcel Griaule per il popolo africano dei Dogon.
Scriveva, dunque, lo Stotzel nel suo ormai classico «Psicologia sociale» (titolo originale: «La Psychologie sociale», Paris, Flammarion; traduzione italiana di Armando Catemario, Roma, Armando Editore, 1964, 1973, pp. 178-180):

«Ma se la personalità può differire da una cultura a un’altra per gli elementi che la costituiscono, per il suo contenuto […], l’analisi permette di avanzare di un passo: è la nozione stessa di persona che bisogna mettere in causa. Esistono società dove non si pensa in termini di persona, di io, sia che l’idea di persona non sia stata distinta, sia che ci si sforzi di non più pensare in questi termini. Come tipo di società la cui cultura è rimasta appunto “al di qua dell’io”, si possono prendere i Canachi della Nuova Caledonia studiati da Marcel Leenhardt (“Do kamo: La personne et le mythe dans le monde mélanésien”, Gallimard, Paris, 1937, p. 259). In lingua Ruelù, “do kamo”, scelto come titolo al libro di Leenhardt, è “l’uomo vero”, veramente umano, il vivente, che si oppone al “bao”, l’essere che non ha corpo. Si dovrebbe dunque prima ricercare il “kamo” nel corpo. Ora, precisamente, per il Canaco, il corpo non è la persona, il corpo non è lui. Il corpo è soltanto ciò che sostiene, corpo dell’uomo, corpo dell’ascia (il suo manico), corpo del buco (il suo vuoto), corpo della notte (la Via Lattea). È attraverso le sue relazioni sociali che si definirà  il “kamo”, ma bisogna ben comprendere come. In Occidente, la persona si definisce contrapponendosi alle altre persone cui è legata. Non vi è alcuna contrapposizione del genere tra i Canachi: il “kamo” è tutto intero nelle sue relazioni, “ab”, “ac”, “ad”, ecc., […]
Ciascuna di queste relazioni è un ruolo [dell’individuo nei confronti degli altri individui]; senza ruolo l’individuo non è più nulla, null’altro che un vuoto al centro delle diverse “a” [cioè delle diverse relazioni].
L’individuo si conosce e si designa per questi ruoli: padre di…, figlio di…, ecc… E d’altronde in questi ruoli egli è intercambiabile: in un gruppo di giovani, tutti interpretano lo stesso personaggio. Essi sono lo stesso personaggio.  D’altra parte, non mancano mai relazioni sociali all’individuo. Un giovane non è mai solo con se stesso, ma è sempre con un gruppo di giovani che formano un blocco, anche nelle avventure galanti. Se il “kamo”, si definisce attraverso le sue relazioni sociali, non lo è che in maniera imprecisa.  Non gi resta neanche la risorsa dell’individuazione attraverso il nome, perché: 1) il nome non è fatto per individuare, ma per rappresentare delle relazioni. Per esempio, il nome di battesimo indicherà la posizione dell’individuo nel suo gruppo parentale: Poindi (il cadetto), Tiano (la figlia primogenita del capo), Hiké (la cadetta); 2) nessun nome può ricoprire la personalità intera; ogni individuo ha più nomi: nome della terra, nome del gruppo parentale, nome ancestrale. Occorrerebbe  l’insieme dei nomi per ricostruire l’identità della persona; ora 3) il ruolo del nome, l’uso del nome, sono minimi. A scuola 0’allievo non dice il suo nome, sia che l’ignori, sia che non osi adoperarlo; nelle leggende del folklore la maggior parte degli eroi non ha nome. Quando ci si chiama si dice: “Ehi, voi, i due uomini, due uomini, due fratelli, due uomini, di Asawa!”. Il nome esiste presso i Melanesiani, ma non ha per funzione di individuare una personalità.
Leendhardt ha quindi motivo di concludere che i Canachi, tra in quali ha vissuto per lungo tempo in Nuova Caledonia, non si fanno un’idea chiara della loro persona. Prima dell’arrivo degli Europei, il Canaco pensava e parlava, insieme, alla prima e alla terza persona. Là dove noi diciamo: “io faccio”, egli dice: “io, il me, fa”. Ciò perché non dispone di un nome personale che lo designi individualmente senza equivoco, perché egli è preso in una rete di relazioni sociali concrete da cui non può astrarsi, perché, soprattutto, egli non ha pienamente  l’idea che il suo corpo è lui stesso. “No, non è l’idea di mente che voi ci avete portato, diceva il vecchio Boessoou, ciò che voi ci avete portato è il corpo”.»

Riassumendo: presso i Canachi della Nuova Caledonia l’individuo non è considerato tale, anzi, non è nemmeno considerato persona, se con questo termine si intende il soggetto di una esistenza del tutto distinta e indipendente dalle altre esistenze.
Egli non si definisce se non attraverso le relazioni che lo collegano agli altri e, quindi, attraverso i ruoli sociali che ricopre. Si noti la differenza con la visione occidentale: per noi, la persona si definisce in contrapposizione e in competizione con le altre persone; per i Canachi, la persona si definisce nella relazione armoniosa e necessaria con esse.
E non c’è - questo sarebbe piaciuto al Pirandello  di «Uno, nessuno e centomila» - una personalità autentica, nascosta al di sotto di tutti questi ruoli; perché la persona, al di fuori del ruolo o dei ruoli che ricopre nella società, è un nulla, una pura astrazione. L’individuo è il ruolo che ricopre, coincide con il personaggio che interpreta.
Al tempo stesso, come si è visto, l’individuo non è mai solo con se stesso, fa sempre parte di un gruppo: ottimo antidoto alle tendenze narcisiste ed egoiche dell’io individuale, alla sua ambizione di affermarsi contro gli altri io, alla sua smania di primeggiare e di sottomettere. Può darsi che vi sia anche un aspetto negativo in questo atteggiamento dei Canachi, ad esempio una certa difficoltà a conciliarsi con la solitudine e, pertanto, con la riflessione e l’interiorità. Ma siamo sicuri che riflessione ed interiorità, delle quali noi occidentali andiamo così fieri, non siano altro che le piante degeneri di una radice malata: l’ipertrofia dell’ego?
Resta da vedere - e lo Stoetzel se lo chiede al principio della sua descrizione, senza però approfondire la questione - se il concetto di “do kamo”, di “uomo vero”, così come lo abbiamo esposto, sia il risultato di una incapacità di riconoscere il concetto di persona, oppure di una volontà intenzionale di limitarne la portata e il possibile abuso nelle concerete circostanze della vita pratica. Curiosità che non riguarda il sociologo; ma che non può certo lasciare indifferente l’etnologo e meno ancora il filosofo, sempre interessato, quest’ultimo, ad ampliare la riflessione dal caso particolare alle questioni di portata universale.
Una cosa ci sembra piuttosto evidente.
L’uomo occidentale sopravvaluta il proprio io e misconosce, in tal modo, quanto di cosmico, di assoluto vi è in ciascuna persona; la quale non è fatta soltanto di pensieri, emozioni, sentimenti e ricordi personali, ma anche di pensieri, emozioni, sentimenti e ricordi di tutto il genere umano e di tutto il mondo vivente; non solo: di tutto ciò che esiste, è esistito ed esisterà, a cominciare dal fondamento ontologico di ciascuna cosa: l’Essere.
Non è affatto contraddittorio sostenere che l’uomo occidentale dovrebbe riportare entro limiti più ragionevoli la coscienza del proprio io, se non oltrepassarla addirittura; e che dovrebbe, al tempo stesso, potenziare la consapevolezza di essere persona, dunque di possedere una dignità intrinseca che si estende molto al di là di ciò che egli effettivamente è ed agisce, per investire il senso complessivo del suo esistere nel mondo, con il mondo e per il mondo.
Il Canaco che parla di se stesso in terza persona, così come - da noi - fanno solo i bambini in una certa fase della loro crescita, potrebbe costituire un prezioso esempio di umiltà, di aderenza alle cose e di riscoperta del legame necessario fra noi ed esse, fra noi e il tu, fra noi e l’Essere dal quale deriviamo e al quale siamo destinati a ritornare.
Non sarebbe la prima volta che le società “primitive” hanno qualcosa di importante su cui farci riflettere; qualcosa cui non eravamo giunti, pur con tutto il nostro Logos strumentale e calcolante.