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Quella volata sugli Champs Elisées che incoronò Karstens re dello sprint

di Francesco Lamendola - 19/03/2010

 

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Pomeriggio del 18 luglio 1976: il sessantatreesimo Tour de France è in vista della trionfale conclusione sugli Champs Elysées, dove si corre, all’ombra dei grandi alberi secolari, l’ultima frazione della tappa finale: una corsa di soli 91 chilometri su e giù per i Lungosenna, all’ombra della Tour Eiffel, in questa caldissima giornata estiva, disputata con ritmo forsennato in vista del rush pigliatutto.
Dopo aver divorato complessivamente 4.017 chilometri sull’asfalto bollente delle strade francesi, la carovana ciclistica, partita il 24 giugno e dipanatasi per 22 tappe alla velocità media di 34,518 km. orari, è giunta ormai  a poche manciate di metri dall’arrivo.
Ed ecco, dopo aver ondeggiato più volte da un lato all’altro dell’amplissimo, magnifico viale coronato dall’Arc de Triomphe, il serpentone dei corridori lancia la volata decisiva, quella che metterà in riga, una volta per tutte, le ambizioni roventi dei velocisti: perché uno solo salirà sul palco della premiazione, sarà baciato dalle miss e riceverà i fiori, accanto al vincitore in maglia gialla; non ci saranno altre occasioni.
Non è più tempo di chiacchiere, di interviste, di proclami velleitari: chi ha ancora fiato nei polmoni e forza nelle gambe, spinge ora sui pedali come un forsennato, e subito si forma una pattuglia di specialisti della volata, mentre gli altri, i passisti e gli scalatori, scivolano prudentemente nelle posizioni retrostanti, più tranquille. Perché rischiare l’osso del collo quando ormai i giochi sono fatti? In classifica, chi c’è, c’è, e chi non c’è, non può farci più nulla.
La corsa di fatto è  già finita, e ha consacrato trionfatore il belga Lucien Van Impe, assenti il «cannibale» Eddy Merckx, che ha già vinto il Tour ben cinque volte, e il francese Bernard Thévenet, che ha vinto l’edizione dell’anno precedente ma che, ora, ha dovuto ritirarsi alla diciannovesima tappa. Secondo è l’olandese Joop Zoetemelk, con circa 4 minuti di distacco; terzo il francese Raymond Poulidor, con oltre 12 minuti. Come dire un altro pianeta, un’altra gara.
Il primo degli italiani, Walter Riccomi, si piazza al quinto posto; il secondo, Fausto Bertoglio, al nono posto. Mancano i grossi nomi, che non hanno partecipato: Felice Gimondi,ormai quasi al termine della sua lunga e gloriosa carriera, che aveva vinto una tappa al Tour del 1975; e il giovane, promettente Francesco Moser, che in quella stessa edizione aveva indossato la maglia gialla per sette giorni ed era poi giunto settimo in classifica generale, vincendo due tappe e la speciale classifica riservata ai giovani.
Ora sugli Champs Elysées la pattuglia di testa si sgrana, anzi, esplode addirittura, e un manipolo di disperati schizza fuori come altrettanti proiettili, sfiorando le transenne e irrompendo a oltre cinquanta chilometri l’ora verso la striscia bianca dell’arrivo, quella magica barriera dei sogni sulla quale si avventano le ruote in un turbinio velocissimo, istantaneo, in un fantasmagorico caleidoscopio di colori delle diverse magliette, di manubri luccicanti al sole, di braccia protese nel tuffo poderoso per guadagnare l’ultimo centimetro.
Ancora pochi istanti e già gli altoparlanti annunciano la classifica di tappa, mentre il gruppone è transitato a sua volta e la carovana incomincia a sciogliersi nell’aria di festa dell’ultimo giorno, tra applausi, strette di mano, sorrisi di ragazze e autografi scarabocchiati in fretta, per la gioia di un esercito di tifosi.
Il primo a tagliare il traguardo è stato l’olandese Gerben Karstens, che aveva già vinto la terza sezione della diciottesima tappa: da Lacanau a Bordeaux, su una distanza di 70 km., nel caldo torrido delle Landes, impresa notevole dopo altre due sezioni di 86 e 123 km., tutte nello stesso giorno: il giorno della festa nazionale francese, l’anniversario della  Bastiglia. Era stata una bella vittoria anche quella, con le graziose bagnanti in bikini ad agitare le mani in segno di saluto, lungo le spiagge dell’Atlantico, verso tutti quei giovani consumati dallo sforzo.
Ma il trionfo sugli Champs Elysées, quello è tutta un’altra cosa… Che cosa potrebbe desiderare di più significativo, di più emozionante, un corridore che si avvicina ormai al termine della propria carriera?
Karstens, nato a Leiden, classe 1942, non è più un ragazzino quando vince trionfalmente la volata sugli Champs Elysées, che lo incorona re dello sprint davanti a tutti gli altri: ha trentaquattro anni e quindi, in termini ciclistici, è ormai quasi anziano. Ma ha sempre avuto grinta e volontà da vendere e, del resto, al ciclismo è arrivato tardi, perché il padre, un onesto borghese di idee piuttosto rigide, voleva fare di lui un pattinatore su ghiaccio; e solo a diciannove anni, minacciando di piantare la scuola alla vigilia del diploma, è riuscito a convincerlo a lasciarlo passare nel velodromo, peraltro dopo una esperienza decisamente brillante anche nel pattinaggio.
Non solo tenacia e volontà: Karstens è sempre stato un po’ guascone, un po’ ribelle, un po’ estroso e imprevedibile; senza peli sulla lingua sia in corsa che davanti ai microfoni, non nasconde agli altri quello che pensa di certe ipocrisie, di certe meschinità nascoste all’occhio delle telecamere, ma ben presenti e tangibili per i ciclisti che si affaticano sulle strade, in uno sport che richiede capacità di sacrificio quasi disumane, d’altri tempi.
Per questo motivo Karstens non va molto a genio né agli organizzatori delle corse, che lo vedono come il classico contestatore rompiscatole, né a parecchi suoi colleghi, che ne temono sia la lingua affilatissima, sia le doti di sprinter non meno taglienti. Taglienti in tutti i sensi: perché l’Olandese non è certo uno stinco di santo e, pur di vincere, non esita a ricorrere a qualunque espediente e anche, diciamolo pure, a qualunque scorrettezza, fedele al vecchio motto di Machiavelli: il fine giustifica i mezzi.
Eh sì, perché - se la specialità dello scalatore - che poi è, alla fine, quello che vince i Tour de France e i Giri d’Italia - è adatta ai gentiluomini della vecchia scuola, come Gimondi e come lo stesso Eddy Merckx, e sottintende una filosofia sportiva fatta di imprese solitarie, di romantiche fughe dal gruppo e di memorabili cavalcate verso le mitiche regioni dell’alta classifica; quella del velocista è, viceversa, una specialità per tipi tosti e senza troppi scrupoli: tipi decisi a vincere a ogni costo, perché per loro la vittoria è affare di attimi, di centimetri e perfino di millimetri, e si gioca tutta su quei duecento metri finali delle corse in pianura, in genere su di un rettilineo che si presta ad enfatizzare lo sforzo spasmodico di quegli ultimi metri, come una scenografia solenne e festosa al tempo stesso.
Così è ora, qui, sugli Champs Elysées imbandierati e tripudianti, nel cuore di questa fantastica Parigi che accoglie in un abbraccio delirante i corridori stravolti dalla fatica dei quattromila chilometri percorsi sotto il sole e la pioggia, ma soprattutto sotto il sole. Perché l’avversario che tutti temono, al Tour de France, è proprio il calore micidiale, che oltrepassa sovente i trenta gradi e che scioglie perfino l’asfalto, togliendo il respiro sia nelle durissime tappe di montagna, dai Pirenei alle Alpi al Massiccio Centrale, sia nelle tappe di pianura, interminabili, eterne, sulle strade polverose, dove l’impazienza dei passisti, sempre speranzosi di fare centro con la fuga buona al momento giusto, imprime alla corsa un ritmo forsennato, quasi da motociclisti.
Karstens il guascone, lo spaccone, lo spericolato; sempre allegro, sempre pronto allo scherzo, alla battuta; sempre assetato di vittoria, ma non sempre fortunato, a dispetto dei mille trucchi e delle innumerevoli infrazioni che gli hanno valso parecchi richiami delle giurie e anche qualche squalifica per doping.
Se, poi, gli capita di trovarsi in squadra con qualche matto come lui, allora il pubblico può star certo che se ne vedranno delle belle. Così è stato al Giro d’Italia del 1973, dove lui e quell’altra buona lana di Rik Van Linden, un fiammingo altrettanto veloce, si sono messi in coppia a combinarne di tutti i colori nelle volate finali: dal prendere lo slancio appoggiandosi l’uno sulla spalla dell’altro, al tirare per la maglietta gli avversari già lanciati a tutta birra, al tagliare loro la strada in modo così pericoloso, da rischiare il capitombolo per sé e per l’intero gruppo.
Al Giro d’Italia del 1973 (stravinto dal solito Merckx), del resto, entrambi avevano un nemico in comune da combattere: il nostro velocista Marino Basso, campione del mondo nel 1972 - dove aveva soffiato la vittoria a Franco Bitossi, a pochissimi metri dal traguardo -, che giudicavano antipatico e che avevano giurato di non lasciar vincere mai, in nessun modo: retroscena buffi e un po’ crudeli di ogni lunga e faticosa corsa a tappe, quando la noia e la malinconia rischiano di far vacillare anche i cuori più impavidi e si sente il bisogno di vivacizzare il clima, inventandosi qualche fuori programma un po’ pepato.
Basso, infatti, era rimasto a bocca asciutta per tutto il Giro, maledicendo il destino e incolpando, di volta in volta, la catena che gli era uscita sul più bello e la diabolica coppia dei suoi nemici giurati, che gli aveva rubato il successo; mentre Karstens, da parte sua, vinceva una tappa, quella di Milano, e Van Linden ne vinceva due, al Lido delle Nazioni e a Forte di Marmi.
Di carattere guascone non meno dell’Olandese, Basso, come tutti gli entusiasti, s’era avvilito alquanto per le continue, inaspettate sconfitte: per vincere, aveva bisogno di vincere. Sicché, quando una volta il suo avversario Roger De Vlaeminck aveva colto una lacrima rigargli il viso, dopo l’ennesimo, bruciante smacco sul filo del traguardo, e lo aveva bonariamente rimproverato per quella debolezza, lui, punto nell’orgoglio, se l’era dovuta rimangiare, ostentando una sicumera che più non possedeva se non di facciata.
Ma poi, nella volata finale sul lungomare di Trieste, dopo la folle corsa giù dalle Dolomiti, l’ex campione del mondo s’era preso la rivincita solenne e aveva infilzato tutti quanti con uno sprint magistrale, di quelli che sapeva tirare fuori quando ormai tutti quanti borbottavano che era finito e che non avrebbe vinto mai più.
E la stessa cosa, per Basso, si era ripetuta nel Giro dell’anno dopo, il 1974: anche quello pareva un anno stregato, che regalava vittorie solo agli altri. E lui, invece, niente. Non arrivava nemmeno secondo: ma terzo, quarto, quinto… mentre gli passavano avanti velocisti anche meno dotati, ma evidentemente più abili o forse soltanto un po’ più fortunati: De Vlaminck e Gualazzini, Gavazzi e Paolini. Perfino il vecchio Bitossi aveva ritrovato la forma smagliante dei suoi anni migliori e aveva vinto la bellezza di tre tappe… Solo nella tappa finale, nell’ultima volata all’ombra del Duomo di Milano, il Marino dei vecchi tempi era risorto con un guizzo dei suoi, stracciando tutti quanti sul filo di lana.
Ora, nel 1976, a quasi trentaquattro anni, Karstens pareva ormai un corridore sul viale del tramonto e, quasi per compensare le vittorie sempre più rade, aveva raddoppiato gli scherzi e i lazzi, diventando un po’ il buffone della carovana. Non c’era più un Van Linden col quale fare squadra e combinare le volate; e nemmeno un Basso cui far la guerra. In compenso, c’erano diversi nuovi astri dello sprint nel firmamento del ciclismo, a cominciare dal belga Freddy Maertens, un vero fuoriclasse, che, solo in quel Tour, aveva divorato niente meno che otto tappe!
E invece, ecco quella splendida doppietta: a Bordeaux e poi a Parigi, sugli Champs Elysées! Era valsa la pena, dunque, di stringere i denti e di restare aggrappato sulla sella, fidando nella sua buona stella, nel suo colpo d’occhio e nella sua potenza di sprinter, nonché nella sua leggendaria abilità di trovare i varchi giusti al momento giusto, per saltar fuori dalla mischia e bruciare tutti quanti sul filo degli ultimi centimetri.
Erano anni in cui il ciclismo, non ancora stravolto dall’abuso di anfetamine e funestato da tragedie come quella di Pantani, poteva considerarsi uno sport relativamente pulito: anzi, il più pulito, il più autenticamente popolare, il più nobilmente ed eroicamente faticoso di tutti gli sport. Ma, come abbiamo accennato, l’ipocrisia non mancava nei regolamenti antidoping, anche se le sostanze che prendevano, di nascosto, i ciclisti degli anni ’70 erano roba da ridere in confronto a quelle che prendono quelli del terzo millennio.
E quella linguaccia di Karstens, l’olandese un po’ pazzo e un po’ moschettiere, che finiva per diventare simpatico anche quando le sue proverbiali e macroscopiche scorrettezze facevano un po’ ombra alle sue autentiche doti di finisseur della volata, non esitava a denunciarle, quelle ipocrisie ammantate da moralità a buon mercato.
Diceva: «Lo sanno tutti che prendiamo anfetamine., come gli altri degli altri sport, con la differenza che da noi c’è da fare una fatica sovrumana e ci si aiuta come si può. Basta non esagerare, per la nostra stessa salute. Controllano i primi, poi se si viene beccati da quel ridicolo esame, che non contempla il fatto che si lavora, la vittoria la si concede ai secondi, che sono nelle stesse condizioni dei primi, ma hanno la fortuna di non essere controllati. Conviene arrivare secondi, dunque!».
Dopo aver vinto ancora qualche gara nei due anni successivi alla storica volata sugli Champs Elysées, Karstens si è definitivamente ritirato dal ciclismo professionistico nel 1978, alla bella età - agonisticamente parlando - di trentasei anni.
Era un personaggio notevole; si sente la mancanza di quelli come lui, nello sport dei nostri giorni.