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I Campi Hobbit fuori dagli stereotipi

di Fiorello Cortiana - 19/03/2010

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Spesso nelle ricostruzioni giornalistiche e politologiche le evoluzioni della destra politica e culturale italiana vengono ricondotte ai fermenti che hanno preso corpo a metà degli anni Settanta con la cosiddetta Nuova Destra e che emersero con le feste/incontro dei Campi Hobbit proponendo una immagine dei giovani di destra sorprendente ed estranea agli stereotipi del neofascista. Se una comunità di dimensioni contenute e di relativo peso politico, sia internamente al proprio partito e ancor più all'esterno, diventa un riferimento obbligato cui ascrivere le prese di posizione e gli indirizzi estranei ai conformismi previsti lungo l'asse dell'alterità destra/sinistra, significa che questa comunità ha (e ha avuto) un valore in sé e ha svolto una funzione metaforica.
Sono due aspetti su cui vale la pena riflettere perché mai come oggi, dopo le ideologie e di fronte a una crisi della politica, possono fornire indicazioni utili a generare e a rispondere alle domande sul senso della partecipazione pubblica. L'occasione ci è offerta dalla riedizione arricchita per la collana Saggi di Vallecchi di una raccolta collettiva di contributi ora in libreria col titolo La rivoluzione impossibile. Dai Campi Hobbit alla Nuova destra a cura di Marco Tarchi (pp. 476, € 18,00).
Nel gennaio del 1979 fu il politologo Giorgio Galli a sottolineare sulle colonne di Repubblica come queste esperienze rivelavano un percorso parallelo a quello che, sull'altro versante, andavano conducendo i coetanei della cosiddetta "nuova sinistra". Da un punto di vista generale, si può infatti considerare entrambi i fenomeni come due espressioni, diversificate per le differenti matrici di provenienza dei soggetti che le animarono o vi si accostarono, di una stagione generazionale di presa di consapevolezza nell'ambito dello snodo epocale definitosi tra il '68 e il '77. Non a caso, io stesso che provengo dalla "nuova sinistra" di allora, ho provato una profonda sintonia generazionale già all'inizio degli anni '80 con i ragazzi che facevano parte di quell'esperienza. Il tutto iniziò da una serie di considerazioni che svolsi sull'assassinio di Sergio Ramelli durante la "Rubrica Giovani" di Radio Popolare a Milano. Fui contattato dai membri del Fronte della Gioventù, io "indiano metropolitano" che ero stato nel servizio d'ordine di Lotta Continua, e accettai l'invito a partecipare a un incontro pubblico alle Stelline. Con curiosità e con passione mi rivolsi ai miei coetanei con gli argomenti che avevano consentito a tanti di non seguire e di contrastare la deriva dell'estetica e dell'etica della violenza; che mi avevano fatto sviluppare una "coscienza di generazione" grazie e a fianco alla "coscienza di genere" delle femministe, vivendo così l'apprendimento e la pratica dei linguaggi espressivi, musica-foto-video-pittura, e la socializzazione e lo scambio tra pari, come la realizzazione della qualità del mio vivere sociale e non come spazi residuali della militanza/militonta; che mi avevano portato da un'ideologica coscienza di classe a una concreta coscienza di specie ecologista, la quale chiedeva e consentiva di rivoluzionare i propri costumi e i propri costumi da subito, a partire dalla propria quotidianità.
Alcuni di quei ragazzi della "nuova destra" mi contattarono per continuare il confronto iniziato. E conobbi così, in uno scantinato, la comunità del "Filo d'Arianna", che trovai mediamente più intensa e più colta della mia realtà dei Collettivi Giovanili, ma più autoreferenziale e preoccupata della propria organicità. Fu una piacevole sorpresa vedere che condividevamo le stesse preoccupazioni e le stesse argomentazioni. La natura antiautoritaria che da Berkeley era arrivata a Parigi e a Praga, in Italia, nonostante Valle Giulia, era stata compressa e forzata dentro una chiave ideologica che solo la crisi della cultura antagonista e dei gruppi della sinistra rivoluzionaria avrebbe liberato con la creatività dirompente e gli sberleffi del Settantasette.
Coloro che vivevano dentro lo spazio derivato dalla "conventio ad excludendum" dell'arco costituzionale, in una condizione che obbligava a definire la propria identità in modo nostalgico e con la testa voltata all'indietro, non potevano certo evolvere per aggiornamenti successivi, per quanto rapidi. L'uscita da una situazione definita gerarchicamente, con la preoccupazione dell'ortodossia e della strumentalizzazione, richiedeva un salto. E questo fecero: un salto in un altrove per arrivare a vivere la realtà, in sintonia con il proprio tempo, con i problemi e le esperienze che questa generava, finalmente svelata dalla caduta delle ideologie.
Anche noi, finalmente, vedevamo la città per quello che era, fuori dall'iconografia ideologica delle fabbriche degli operai e delle scuole degli studenti da mandare a volantinare alle fabbriche, con la mappa che si definiva lungo le strade degli scontri e dei morti, a partire da Piazza Fontana. Per sottrarci alle rigidità ideologiche e antropologiche la percorrevamo e la risignificavamo occupandone gli spazi come "indiani metropolitani" costretti nella riserva dagli "anni di piombo". I nostri coetanei, da destra, che vivevano una condizione, anche fisica, ben più ristretta, cosa potevano fare di meno che esplicitare una frattura generazionale e simbolica e rappresentarsi (e presentarsi) come gli Hobbit della Terra di Mezzo e, come loro, cercare un altrove per vivere la festa e l'incontro fuori dalle ristrettezze del ghetto? Con l'appropriazione e la pratica dei linguaggi espressivi come piattaforme di relazione collettiva, attorno a cui definire nuove ritualità assolutamente diverse dalle liturgie e dai simboli classici di partito. Erano pratiche che avevamo iniziato a percorrere anche noi come collettivi giovanili e nelle quali i nostri coetanei di destra si erano ritrovati immediatamente, ironia e sberleffi compresi. La voce della fogna ci parve subito un titolo spiazzante e simpatico. Anni dopo Luciano Lanna e Filippo Rossi nel libro Fascisti immaginari facevano riemergere un universo di produzioni musicali, cinematografiche e narrative, con i relativi protagonisti, in gran parte comune tra i giovani disposti lungo il discrimine destra/sinistra. Io e Alex Langer incontrammo così diversi nostri coetanei a casa di Monica Centanni a Venezia, scoprendo profonde sintonie che partivano dalla constatazione della similitudine dei modelli di sviluppo energivori, dello squilibrio ambientale e dell'equilibrio del terrore, cui servivano Three Miles Island-Usa e Chernobyl-Urss, le centrali dei disastri. La sensazione e la definizione di un'etica della responsabilità verso il vivente, attuale e futuro, apriva a tutti noi dei percorsi e delle sfide affascinanti che definivamo con una felice definizione di Alex Langer "Lentius, profundius, suavius", un proposito che rovesciava il motto olimpico. Ognuno di noi viveva infatti un travaglio intellettuale, politico ed esistenziale avendo ben chiaro il senso del proprio agire senza preoccuparsi dell'approdo politico, men che meno all'interno della geografia esistente definita lungo il vecchio asse destra/sinistra. Mettevamo in atto le nostre azioni su più piani, politico, metapolitico, sociale, con una incosciente e lucida soggettività collettiva, eppure: quanti avrebbero potuto rinfacciare ad ognuno di noi una primogenitura dei temi sollevati e una coerenza che noi non avevamo, per fortuna, mantenuto?
La difficoltà del salto che la comunità dei nostri coetanei stavano facendo proveniendo "da destra" portava con sé una solidarietà e una organicità, come condizioni necessarie e come valori relazionali, ma la loro rottura era feconda perché avevano scelto la "forma movimento", avevano alimentato un processo inerziale e liberatorio che riconsegnava al paese e al suo confronto/incontro tra culture un pezzo di società esiliata in patria. Questo è stato il portato più importante, la metafora che ha consentito il vero "sdoganamento", e come ogni processo/movimento ha avuto una natura virale, come uno sciame che varia nella forma e nella composizione ma svolge una fondamentale funzione di impollinazione. La strage di Bologna può aver contribuito a fermare temporaneamente lo spirito dei Campi Hobbit ma non poteva interrompere la domanda di cambiamento che essi hanno rappresentato e alimentato. Chiaramente un processo efficace di cambiamento che interessa le culture e le pratiche di coloro che sono interni all'articolazione politica e istituzionale non ha la dirompenza simbolica e le suggestioni di una serie di incontri, ludici e non, promossi da una comunità di giovani che volutamente prescinde e persino irride il contesto politico/istituzionale. È altrettanto chiara la portata del cambiamento nella cultura politica che si può generare con l'introduzione della cittadinanza per gli extracomunitari, con la reciprocità dei diritti e dei doveri, rispetto alla rendita speculativa sulla paura e sull'alterità verso l'altro da sé. E qui ha poco senso e nulla utilità una disputa genealogica per la titolarità esegetica della quale essere vestali. È invece importante vedere l'efficacia odierna di un approccio non ideologico, che fa dell'ecologia delle differenze, delle loro simbiosi e della loro competizione un assunto metodologico in luogo di quello ontologico. Le innovazioni tecnologiche e scientifiche, la natura globale delle relazioni su questa terra e le reazioni che comporta, richiedono una compromissione con l'idea di cittadinanza solidale con la quale ripensare insieme l'idea di una comunità consapevole. Coloro che hanno conosciuto la cultura e le pratiche della partecipazione politica - o metapolitica che sia- sono chiamati a vivere il proprio tempo, oggi in Italia, fuori da ogni illusoria collocazione da spettatore in condizione discreta.
In questa situazione di risignificazione della politica e della partecipazione ad essa oltre lo share e i sondaggi, l'identità individuale e collettiva si definisce dalla condivisione delle regole per la relazione tra cittadini e istituzioni, nonché dalle parole e dalle proposte con le quali definiamo e affrontiamo problemi che non troverebbero soluzione dentro agli schemi del secolo scorso.
Questa è la "rivoluzione possibile" che germoglia lungo gli ultimi quarant'anni, poco importa chi e quando è entrato o uscito dallo sciame e che posizione assume in esso, ciò che importa è che abbia [si crei] un ambiente e una direzione che gli consentano l'impollinazione. Non si tratta di definire nuove sintesi delle quali essere i certificatori ma di accettare un processo evolutivo che chiama in causa tutte le grandi famiglie democratiche e le loro culture di riferimento. È un processo che devono percorrere insieme, in una comunità aperta, tutti coloro che condividono una cultura della cittadinanza basata su regole condivise. Dopo la deriva personalistica e plebiscitaria prodotta dalla crisi dei partiti popolari della "Prima Repubblica" ci sarà bisogno di una stagione costituente e di persone e culture in grado di interpretarlo proprio perché al di fuori del discrimine destra/sinistra, come le nuove tematiche che la società odierna si trova a fronteggiare. In una situazione nella quale la disposizione lungo l'asse destra/centro/sinistra vede sempre più spesso emergere cordate che si contendono le risorse normative, economiche e finanziarie della cosa pubblica c'è bisogno del baricentro costituito da una "alleanza repubblicana" capace di esprimere la politica pubblica e una cultura di governo riferendosi agli interessi generali e ai beni comuni delle attuali e delle future generazioni.