Credenze religiose della Cina antica
di Erkes - 25/04/2006
Fonte: libreriaAr
Erkes, Credenze religiose della Cina antica. Traduzione di Julius Evola, Edizioni di Ar, Padova 2005;
in Eurasia n 1/2006, a cura di Claudio Mutti |
Il Chou-li (Rituale dei Chou) e il Li-chi (Libro dei Ri ti), due dei Tredici Classici del canone confuciano, furono scoperti da Liu Hsiang negli archivi imperiali cinesi, assieme ad altri testi redatti in antica grafia. Quando Liu Hsiang “presentò all’accolta degli Eruditi di corte le sue scoperte, costoro, timorosi che questi altri classici potessero inficiare in qualche modo l’autorità della loro dottrina, lo accusarono di falso e lo perseguitarono in tal modo che lo costrinsero a lasciare le cariche a corte”. Così informa Pio Filippini Ronconi, che aggiunge: “La sua rivincita non tardò: allorché salì al trono l’usurpatore Wang Mang, fondatore della dinastia Hsin (9-23 d. C.), egli divenne segretario di Stato e non ebbe più ostacoli per proclamare la sua dottrina” (Storia del pensiero cinese, Torino 1964, p. 113). Il Chou-li ed il Li-chi sono le fonti essenziali alle quali attinge Eduard Erkes per delineare il quadro della più antica religione cinese, un quadro che il sinologo tedesco articola in cinque sequenze, rispettivamente dedicate al sacerdozio sciamanico, agli spiriti, alle divinità antropomorfe, alle usanze sepolcrali, alle divinità della natura. Ne risulta una ricostruzione che non solo va ad integrare quelle esposizioni che privilegiano le forme tradizionali della Cina “classica” (confucianesimo, taoismo, buddismo), ma si inserisce anche nella serie degli studi di storia delle religioni specificamente dedicati allo sciamanesimo (gli studi di Erkes sono stati infatti utilizzati da Mircea Eliade per il paragrafo dello Chamanisme dedicato alla Cina). L’edizione italiana di questo saggio costituisce comunque un fatto curioso, perché Julius Evola, che lo tradusse nel 1958 per l’IsMEO, polemizzò più volte contro alcuni concetti di matrice razionalista e positivista fatti propri da molti storici delle religioni – tra i quali possiamo situare anche Eduard Erkes. Quest’ultimo infatti fissa il punto di partenza dell’evoluzione antropica cinese in un primitivo Sinanthropus che, “sebbene avesse appena superato lo stadio animalesco” (p. 9), tuttavia si trovava già in possesso di alcune idee religiose. “Come fra i popoli primitivi in genere” (p. 29), così anche in Cina la scena religiosa sarebbe stata dominata dall’animismo e dalla magia, la quale, scrive Erkes, “dell’animismo è controparte inseparabile e (…) secondo l’opinione di certi etnologi sarebbe ancor più antica di esso, per cui viene anche chiamata pre-animismo” (p. 10). Di qui l’esplicito richiamo, da parte dell’Autore, alla nozione etnologica di mana. D’altronde Erkes non perde nessuna occasione per ribadire la sua adesione alle concezioni naturaliste. Anche se avanza qualche timida riserva nei confronti dell’”idea corrente degli etnologi” (p. 73) circa l’assoluta primordialità del culto delle divinità naturali, egli si guarda bene dal respingere il pregiudizio secondo cui lo stadio delle origini religiose sarebbe stato caratterizzato da un superstizioso “culto delle forze della natura” (ibidem); anzi, a tale presunto culto egli ne affianca un altro, “quello dei fattori sociali” (ibidem), arrivando a immaginare un sincretismo derivante dall’unione del culto degli antenati con la religione naturalistica. E dal culto naturalistico di una primitiva divinità acquatica, forse una “personificazione del mare” (p. 86), si sarebbe sviluppata, attraverso l’evoluzione del pensiero religioso, la stessa metafisica cinese, sicché il Tao sarebbe “un principio cosmico panteistico” (p. 86). I pregiudizi ideologici dell’Autore, in ogni caso, non compromettono più di quel tanto l’essenziale validità del saggio, che, come abbiamo detto più sopra, contiene informazioni preziose sulla fase più antica della tradizione estremo-orientale. |