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Akira Kurosawa, l’ombra del guerriero

di Marco Iacona - 24/03/2010

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Akira Kurosawa è stato un uomo di cinema molto colto, uno di quelli che si è ispirato ai geni della letteratura di sempre come William Shakespeare e Fedor Dostoevskij e che a sua volta ha fornito spunti a non finire a chi è venuto dopo o insieme a lui. Dal Sergio Leone di Per un pugno di dollari al western americano dei Magnifici sette fino al George Lucas della saga di Guerre stellari, ed è stato probabilmente – per i temi trattati nei film – una della miglior “cerniere” fra Oriente e Occidente che si ricordino. È giusto dunque parlare di lui a cent’anni dalla nascita (23 marzo 1910), perché il cinema internazionale non sarebbe stato quello che è stato senza la sue abilità narrative colme ora di trasognate apparizioni ora di crudissimo e sanguinario realismo.

Il regista della Sfida del Samurai – il film al quale si ispirò il nostro Leone, con Toshiro Mifune nel ruolo che qualche anno dopo sarà di Clint Eastwood – non ha saputo rinunciare né al racconto “caotico” del mito medioevale – divulgato con un’abilità poco riconosciuta fra le mura di casa – né alle tecniche o alle citazioni di tipo squisitamente teatrale. Ma Kurosawa è stato anche un maestro dell’epica contemporanea abbinata, col massimo dell’abilità, a un pessimismo senz’alcuna macchia di retorica. Run lavoro del 1985 – uno dei suoi ultimi film – liberamente ispirato a Re Lear di Shakesperare, finisce con parole che sanno di condanna senza appello per il genere umano. In un Giappone infernale nella materia e nella sostanza non sembra esserci spazio per uomini e donne di “buona volontà” bensì per esseri umani stupidi e violenti che vivono o sopravvivono assassinando i loro simili e che credono nella vendetta e nel dolore. I “buoni” e leali non vengono creduti e l’unica regola che vale è la sottomissione dello sconfitto al più forte e al vincitore. In tutto questo l’onore dei soldati è un limite solo parzialmente valicabile dalla brutalità della guerra e dalla brama di potere. Una lezione.

Nato a Tokio, educato rigidamente e sensibilissimo alle arti e alla pittura (per un po’ illustrerà perfino romanzi rosa e libri di cucina), Kurosawa si avvicina al cinema grazia la fratello maggiore Heigo. Debutta come regista nel ’43 con Sugata Sanshiro una originalissima storia sullo judo, e va avanti quasi con un film l’anno fino alla metà degli anni Sessanta, inizialmente attratto da tematiche sociali poi anche da temi basati sulla “valorizzazione” dell’individuo con tanto di sconfitte, emozioni ed eterne illusioni.

Dal ’70 in poi girerà poche altre pellicole, fino al 1993 anno di Madadayo – Il compleanno, ultima fatica prima di scomparire quasi novantenne nel 1998. Freddo (forse solo apparentemente) e pignolo fino alla ricerca della perfezione (celebri le sue lunghissime riprese, con un rapporto di dieci metri di pellicola girata per poterne utilizzare e conservare soltanto una), “Tenno” Kurosawa – Kurosawa l’Imperatore questo il suo soprannome – ha donato agli occidentali alcune perle di una cultura, quella orientale, che col trascorrere degli anni è apparsa sempre meno lontana dal sentire degli occidentali, divenendo così soprattutto da noi, lui nobile discendente di una famiglia di Samurai, un artista “di casa.” Il regista di Tokio è stato infatti definito il meno giapponese dei cineasti del Sol levante anche se pare non abbia mai particolarmente gradito le interpretazioni di “natura occidentale” dei suoi film.

Del 1951 è per esempio uno dei primi capolavori di Kurosawa uno dei simboli riconosciuti del cinema orientale Rashomon (col grande Mifune per molti anni quasi un suo alter ego, nel ruolo di un brigante da strada) che vincerà il Leone d’oro a Venezia e poi l’Oscar come miglior film straniero. È la pellicola che rivelerà alla cinematografia internazionale non solo un grande maestro ma anche l’intero cinema giapponese. Un colpo di scena irripetibile. Poi nel ’54 il notissimo e imitatissimo I Sette SamuraiIl trono di sangue che si ispira invece a un Macbeth, ancora di Shakespeare, trasferito però nel ‘500, e nel ’75 Dersu Uzala, il piccolo uomo delle grandi pianure, finanziato dall’Urss, che è la storia di un’amicizia e di un cacciatore solitario – un mongolo della tundra – che non resiste alla cosiddetta civiltà e sceglie di vivere e poi morire nel suo ambiente naturale cioè la taiga siberiana. Il film vinse sia al Festival di Mosca sia, ancora, alla notte degli Oscar hollywoodiani, ed è fondamentale nella biografia del regista nipponico perché segna il ritorno al successo dopo la delusione del suo film del ’70 (Dodes’ka den), di seguito alla quale – come un vero guerriero che cerca di salvaguardare l’onore perduto – Kurosawa aveva perfino tentato il suicidio. (ancora con Mifune), considerato uno degli spaccati più “fedeli” del Giappone del periodo delle guerre civili. Nel ’57 concluderà

Ma non finisce qui. Anzi. Nell’80 esce Kagemusha, l’ombra del guerriero con cui Kurosawa tornerà a trattare uno dei suoi argomenti prediletti, il Giappone delle tradizioni, e negli anni Novanta infine Sogni (una pellicola formata da episodi diversi, a testimoniare anche la varietà di temi e interessi del tokyoto) e Rapsodia in agosto grazie ai quali si riaccendono i toni antimilitaristi e pacifisti di “Tenno” Kurosawa. Si tratta peraltro dei due film coi quali il pubblico più giovane ricorderà per sempre la grande poesia – e lo sguardo antiprogressista – dell’Imperatore; un omaggio a Vincent Van Gogh interpretato da Martin Scorsese e il Richard Gere interprete del film dedicato al ricordo della bomba atomica su Nagasaki. Con lucidità, destrezza e fantasia Kurosawa ha cercato di raccontare la storia dell’orrore della guerra atomica dalla parte degli sconfitti, degli adulti sempre meno numerosi e dei bambini ai quali è destinata la cura della memoria. Quella memoria che insieme all’“uomo” e in cento “luoghi” diversi – ove positivo e negativo riescono perfino a confondersi – è stata una delle protagoniste della carriera cinematografica di uno degli artisti più imitati della seconda metà del XX secolo.