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Nicola da Cusa ed Ibn’Arabi: due filosofi mistici

di Andrey Smirnov - 02/04/2010


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Le ricche tradizioni del misticismo Europeo e Arabo sono state entrambe il soggetto di una riflessione filosofica. In questo saggio, investigherò il modo attraverso il quale la visione mistica fu razionalizzata dai filosofi Nicola da Cusa ed Ibn’Arabi.(…)

La base comune che è posta sotto l’esplorazione filosofica di Nicola da Cusa e di Ibn ‘Arabi, forse potrebbe essere sintetizzata nella forma di due asserzioni collegate da vicino: la prima è la tesi che Dio sia indefinibile e la seconda è, invece, una formula che statuisca che il mondo non è Dio ma non è qualcosa d’altro da Dio. Queste asserzioni certamente erano note ai pensatori medievali, ma fu la tradizione mistica (sia Europea quanto Islamica) che diede loro un’interpretazione piuttosto fuori dal comune. Ciò che distinse i mistici fu anche il fatto di collegare strettamente – forse senza soluzione – queste due asserzioni.

I mistici intendono l’indefinibilità di Dio in un senso molto più ampio di quello degli altri pensatori e filosofi medievali. L’indefinibilità, come intesero i mistici, travalica i limiti dell’indefinibile in senso logico aristotelico. Per qualsiasi cosa che sia indefinibile per genus et differentiam non si esclude del tutto la possibilità di una sua descrizione e tale descrizione comporta, ovviamente, qualcosa di definito in merito alla stessa cosa descritta. Ma l’indefinibilità di Dio in senso mistico diventa de facto indefinitezza; ossia, esclude ogni proposizione definita circa l’essenza Divina. Qualsiasi proposizione di questo tipo, infatti, comporta una specie di limitazione imposta al Divino, mentre quest’ultimo è incompatibile con qualsiasi limite. L’ontologica illimitatezza di Dio, allora, comporta per un mistico un’indefinitezza epistemologica: ogni asserzione su Dio potrebbe essere quindi solo metaforica e non potrebbe servire da supporto certo di conoscenza. Per la stessa ragione, l’indefinibilità, misticamente intesa, non equivale in nessun senso alla negazione di qualche, o eventualmente tutti, gli attributi della Divina essenza: una definizione negativa di questo tipo, nonostante tutto, attribuisce pur sempre un certo limite a Dio, sebbene essa sia formulata in termini di negazione.

Nicola da Cusa ed Ibn ‘Arabi ambedue hanno risposto a questa sfida, partendo dal medesimo punto ma proseguendo per linee differenti.

Esistono due possibilità per costruire delle proposizioni che non predichino qualcosa del soggetto. Per evitare di affermare “qualcosa” si deve trasformare questo “qualcosa” in un “tutto” oppure in un “nulla” (“nulla” e “tutto” non sono qualcosa di definito e così non contraddicono la condizione che la proposizione costruita su Dio debba essere indefinita. In questo modo [il “tutto”], arriviamo alla nozione di Dio come un’assoluta ed esaustiva rappresentazione di tutto ciò che esiste o che potrebbe comunque arrivare ad esistere. In questo caso, nessun limite può applicarsi alla Divina essenza perché, dal momento che contiene tutto, non c’è nulla di esterno ad Essa, mentre la nozione di limitazione presuppone sempre qualcosa che è al di fuori del limitato.(..) Nel secondo caso [il “nulla”], l’indefinibilità di Dio significa che Dio è un assoluto “nulla” di cose esistenti: questo “nulla” sta a significare che Dio è illimitato perché Egli è già prima che ogni limite emerga; questi limiti, che sono concernenti l’essere “qualcosa”, sono pertanto incapaci di imporre qualsiasi confine all’Assoluto Nulla, che costituisce invece la possibilità della manifestazione degli stessi limiti. Per riassumere, Dio è indefinibile nel primo caso perché contiene tutti i limiti e nel secondo caso perché li precede.

Ci sono quindi due possibili modi di razionalizzare il concetto mistico di un Dio indefinibile: uno, come “Divino nulla” che si rende manifesto (lett.: esplicito) attraverso il mondo, oppure un secondo come “Divino Tutto” avente il mondo quale suo riflesso. Possiamo trovare queste interpretazioni logicamente possibili della prospettiva mistica sia nella filosofa di Nicola da Cusa che in quella di Ibn ‘Arabi.

Secondo Nicola da Cusa, la relazione tra Dio e il mondo deve essere intesa come una relazione di “contrazione” (complicatio), e di “dilatazione” (explicatio). Ogni stato delle cose, che possiamo aspettarci di trovare nel mondo, è  la dilatazione di quanto è contratto in Dio. Questo non vuol dire, però, che ciò che è contratto necessariamente si debba dilatare, tutt’altro invece, ciò-che-è-contratto-in-se-stesso resta per sempre contratto e, come tale, rimarrà sempre una sovrabbondaza di possibilità che mai si manifesteranno e che mai saranno scoperte. La categoria della “contrazione” si riferisce ad un principio ideale che porta all’esistenza tutto ciò che è “dilatazione” (come a dire, tutte le forme che possono essere trovate nel mondo), ma ciò nonostante, mai questo principio cessa di essere contratto. E’ solo in termini logici che la contrazione precede la dilatazione, laddove ontologicamente esse procedono sempre insieme.(..)

Venendo alla filosofia di Ibn ‘Arabi, scopriamo che egli intende l’indefinitezza di Dio in maniera opposta a quella di Cusano. “Dio è definibile da tutte le definizioni”, egli dice, “ma le forme che appartengono al mondo non possono essere ordinate e limitate… Questo è  perché la definizione di Dio è al di là della conoscenza: essa può essere raggiunta solo comprendendo la definizione di ogni forma, il che è impossibile; dunque, la definizone di Dio è impossibile.” Sebbene il concetto di Dio in Ibn ‘Arabi esprima apparentemente la medesima idea della totalità dell’esistenza, in realtà esso è radicalmente differente da quello di Cusano in un aspetto che presumo sia decisivo per le caratteristiche generali della sua filosofia. La totalità dell’esistenza è compresa da Ibn ‘Arabi come sempre presente (o, per usare la terminologia di Nicola da Cusa, sempre dilatata). Dio, nella filosofia di Ibn ‘Arabi, non sta prima ma al di sopra di ogni limite, a cagione del fatto che Dio li comprende tutti: Dio è il Tutto-del-mondo.

Come Cusano, Ibn ‘Arabi ricorre all’illustrazione geometrica delle sue idee filosofiche e, inoltre, utilizza anche il punto come un concetto base. Immaginiamoci Dio come un punto, dice Ibn ‘Arabi, e immaginiamoci che il cerchio attorno a questo punto circondi tutta l’esistenza (qui, come nell’esempio seguente concernente l’Uno e i numeri, Ibn ‘Arabi sta seguendo chiaramente la tradizione Neoplatonica); quindi, quanto è lasciato fuori del cerchio è la non-esistenza. Il punto è la prima fonte e base del cerchio, dato che il cerchio non apparirebbe se non fosse per il punto. Questo cerchio d’esistenza è completamente coperta dai raggi (dei quali ve ne è una moltitudine infinita) ed ogni raggio  inizia dal punto centrale  finisce in un punto della circonferenza: il punto sulla circonferenza, dice Ibn ‘Arabi, è niente [perché è il punto al centro ad essere più importante]. Cusano, mentre  non dissente dall’immagine del cerchio, ribadisce il fatto che il punto centrale è il cerchio contratto e il punto sulla circonferenza stessa non può essere uguale al suo centro. Per Ibn ‘Arabi, il punto centrale è il cerchio virtuale nel quale tutti  i puntii sono uguali l’un l’altro (dato che non ci sono differenze attuali in Dio), e la realizzazione attuale di questi punti (ossia, il disegno di un raggio) non aggiunge nulla a quanto era stato sempre virtualmente là, ma serve solamente come suo riflesso attuale (che è sempre incompleto, poiché un’infinita moltitudine di raggi mai coprirà tutto il cerchio). (…)

Andrey Smirnov: La Filosofia Mistica e la ricerca della Verità