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Sul promontorio estremo della notte c’è sempre una nuova alba che sta per sorgere

di Francesco Lamendola - 09/04/2010



Vi è sempre un momento, nella vita di un essere umano, in cui sembra che la notte abbia ingoiato la luce per sempre e che nessun sole tornerà a levarsi per rischiarare la vita; vi è sempre un momento in cui si dispera di tutto.
Vi è sempre un momento in cui ci si sente abbandonati da tutti; in cui sembra di essere circondati da ogni lato da problemi insormontabili; in cui ci si trova a pensare che, se anche scomparissimo dalla faccia della terra, nessuno se ne accorgerebbe.
Vi è sempre un momento in cui ci si sente come se si fosse arrivati sul promontorio estremo del giorno, e la notte incombesse all’intorno da ogni parte, pronta ad inghiottirci: come quando, nel bellissimo film di Kurosawa «Dersu Uzala», il capitano e la sua guida siberiana si perdono negli acquitrini attorno al Lago Khanka nell’ora del tramonto, e, mano a mano che la notte avanza, sembra loro di essersi smarriti in una paurosa terra di nessuno, ove le canne agitate dal vento paiono le anime tormentate dell’Inferno dantesco.
Quando ciò accade è perché, sopraffatti dalla pressione di circostanze urgenti, che non lasciano un po’ di respiro, si finisce per perdere di vista una semplice, semplicissima verità, che tuttavia racchiude tutta la saggezza della vita: che noi non siamo soli; non siamo monadi isolate e abbandonate ciascuna alle proprie risorse individuali.
Noi non siamo mai soli, per il semplice fatto che non siano separati da tutto ciò che esiste: siamo parte di un Tutto unico e armonioso, di quell’Essere che ci ha invitati all’esistenza e che ci guida, silenzioso e discreto, sulle strade faticose del mondo.
La verità è questa: che noi non siamo noi soltanto; che “io” è un’astrazione, e anche “tu” è un’astrazione; che c’è solo e unicamente l’Essere, di cui noi siamo parte; che, pertanto, noi siamo, alla lettera, invincibili e indistruttibili.
Certo non è invincibile questo nostro corpo fisico, così facilmente colpito da ogni sorta di offese; e non è invincibile il nostro spirito individuale, che tanto facilmente si lascia abbattere anche da difficoltà piuttosto banali. Ma invincibile e indistruttibile è la nostra essenza; lo è quel diamante che giace in fondo alla nostra anima e del quale, così spesso, ci dimentichiamo l’esistenza, quando non la ignoriamo addirittura.
Quella è la nostra forza: la forza che non viene da noi, ma dalle dimensioni superiori; la forza che ci trasmettono le persone che ci amano, in questa vita e nell’altra; la forza che ci infondono gli spiriti protettori dai qual siamo amorevolmente circondati, se le nostre intenzioni sono rette e la nostra coscienza è pura. Altrimenti, spiriti malvagi e presenze malevole ci tormentano e ci indeboliscono, rallentando in ogni modo la nostra evoluzione spirituale.
Noi siamo molto più forti di quel che non crediamo, ma la forza di cui disponiamo non è nostra, ci viene data nella misura in cui la sappiamo chiedere e in cui la sappiamo vedere, scoprire e utilizzare; e, soprattutto, nella misura in cui ne sappiamo fare buon uso, vale a dire per il bene nostro ed altrui.
Questa è la legge, così grossolanamente ignorata da quanti, dotati di sviluppati poteri psichici e dediti alla negromanzia e alle arti diaboliche della magia nera, si addentrano in maniera sconsiderata sui fiammeggianti sentieri della mano sinistra, al fine di nuocere al prossimo e di accumulare potere e ricchezza per se medesimi.
Ha scritto Martin Luther King nel suo libro «La forza di amare» (titolo originale: «Strenght to Love»; edizione italiana a cura di Ernesto Balducci, Torino, Società Editrice Internazionale, 1967, 1969, pp.  132-133):


«In India, mia moglie ed io passammo una deliziosa fine di settimana nello Stato di Kerala, il punto più meridionale di quell’immenso paese. Mentre eravamo là,  visitammo la bella riva di Capo Comorin, che è chiamata “Fine del Paese”, perché è veramente il luogo dove termina la terra dell’India.  Nulla si stende dinanzi a voi se non l’immensa distesa dei flutti. Questo bel luogo è il punto in cui si incontrano tre grandi masse d’acqua, l’oceano Indiano, il mar d’Arabia e il golfo del Bengala.  Seduti su una gigantesca roccia leggermente sporgente sull’acqua, noi eravamo soggiogati dall’immensità dell’oceano e dalle sue terrificanti immensità. Mentre le onde si spiegavano  in successione quasi ritmica e si schiacciavano  contro la base della roccia in cui noi eravamo seduti, una musica oceanica risuonava dolcemente al nostro udito.. Ad occidente, vedevamo il sole magnifico, una grande cosmica sfera di fuoco, che sembrava proprio immergersi nell’oceano. Quando non lo si poté quasi più vedere, mia moglie mi sfiorò e disse: “Guarda, martin, non è bello? Io guardai intorno e vidi la luna, un’altra sfera di scintillante bellezza. Mentre il sole sembrava sprofondare nell’oceano, la luna sembrava sorgere dall’oceano. Quando il sole fu infine fuori di vista la tenebra avviluppò la terra, ma, ad oriente, la raggiante luce della luna sorgente risplendeva suprema.
Dissi amia moglie: “Questa è un’analogia di quello che spesso accade nella vita”. Noi abbiamo sperimentato, quando la luce del giorno svanisce, lasciandoci in una buia e desolata mezzanotte, momenti in cui le nostre più elevate speranze si sono trasformate nello strazio della disperazione, o quando siamo vittime di qualche tragica ingiustizia o di qualche terribile sfruttamento. In tali momenti, il nostro spirito è quasi sopraffatto dall’oscurità e dalla disperazione, e noi sentiamo che non vi è luce in alcun luogo. Ma sempre, di nuovo, guardiamo verso oriente e scopriamo che là vi è un’altra luce, che risplende anche nelle tenebre, e la “lancia del disinganno” si trasforma in una “freccia di luce”.
Questo sarebbe un mondo insopportabile, se Dio avesse solo un’unica luce, ma dobbiamo sentirci consolati, perché Dio ha due luci: una per guidarci nello splendore del giorno, quando le speranze sono realizzate e le circostanze sono favorevoli, ed una luce per guidarci nelle tenebre della mezzanotte, quando noi siamo contrastati e i giganti dormienti dell’oscurità e della disperazione si levano nell’anima nostra. La testimonianza del salmista è che noi non dobbiamo mai camminare nelle tenebre.»

Sì: il sole scompare nel buio della notte ma la luna, con la sua luce amica, sorge a sua volta per rischiarare i passi del nostro pellegrinaggio terreno e per confortarci con la sua dolce, antica  presenza.
Chi non ricorda la novella di Luigi Pirandello «Ciaula scopre la luna», in cui si narra l’infinito sollievo di un povero minatore siciliano che, letteralmente terrorizzato al pensiero di dover uscire all’aperto nel buio ostile della notte, scopre la benevola compagna celeste, che riversa sul mondo, generosamente, la sua luce amica?
Fuor di metafora, come bene ha scritto Martin Luther King, quando batte la mezzanotte della nostra vita, dovremmo sempre ricordarci che essa, se da un lato annuncia la fine di un giorno, dall’altro preannuncia l’inizio di un giorno nuovo: il momento più buio della notte reca in se stesso il germe ed il presentimento della luce che ritornerà.
Noi non dovremmo mai commettere l’errore di identificarci con la nostra disperazione presente, ma ricordarci sempre che siamo parte di un cosmo vivo, di una realtà infinitamente più vasta, ove luce e tenebre, gioia e dolore sono fusi in una trama incomparabile, la cui superba bellezza potrà essere compresa solo quando avremo occhi per coglierne l’insieme: il che non può avvenire fino a che siamo legati alla condizione spaziale e temporale.

La situazione tipica dell’uomo moderno è caratterizzata, appunto, dall’angoscia della solitudine, del disincanto, della perdita di speranza; e la malattia più tipica della sua vita interiore, la depressione, consiste in un cupo ripiegarsi dell’anima su se stessa, in un annebbiamento e in un restringimento degli orizzonti esistenziali, in una discesa nel vortice del malessere, simile alla discesa nel Maelström descritta da Edgar Allan Poe.
È forse un caso che tanti eroi letterari della modernità concludano con il suicidio la loro parabola terrena, cominciando con il Werther di Goethe e terminando con il Martin Eden di Jack London; per non parlare di tutti quelli, come l’Emilio Brentani di Svevo - ma il loro numero è legione - scelgono quella forma silenziosa e poco appariscente, ma altrettanto drammatica di suicidio, che è il chiudersi definitivamente alla dimensione della speranza e della gioia, per lasciarsi sopravvivere, inerti e desolati, in semplice attesa della morte fisica?
E quante malattie mortali, dall’infarto al cancro, alle varie forme di tumore del sangue, altro non sono che una modalità di suicidio inconsapevole, scelta dal nostro organismo il quale, gravato dalla vita come da un peso insopportabile, a un certo punto si ribella ed avvia dei processi biologici degenerativi, ben deciso a farla finita, contro la forza disperata ma inerte del più antico degli istinti, quello della sopravvivenza?
In un certo senso, è come se l’uomo moderno, il borghese, e, più ancora, l’uomo post-moderno, ossia l’uomo radicale, avessero completato il cerchio aperto dall’uomo cristiano, caratterizzato dall’apertura alla dimensione della speranza - nel significato pieno, teologico della parola - per ricadere, ma in forme esasperate dall’alienazione consumista, nella di-sperazione propria dell’uomo antico, simboleggiato da Achille.
L’uomo antico era disperato perché lottava incessantemente per conquistare sempre più gloria e, quindi, sempre più onore, ma con la piena, sconsolata certezza della propria mortalità e della sostanziale mancanza di senso del proprio vivere: atteggiamento mentale che appare chiarissimo nel dialogo fra Glauco e Diomede, nel VI libro dell’«Iliade» (vv. 145-149; traduzione di Guido Vitali), per bocca del guerriero licio, alleato dei Troiani:

«… Magnanimo Tidide,
che mi domandi tu della mia stirpe?
Qual delle foglie, tale degli umani
è la progenie; ché le foglie a terra
i venti le disperdono, e la selva
rigermogliante poi le riproduce
quando il tempo rivien di primavera;
nascon, muovo così le stirpi umane.»

Dobbiamo, pertanto, riaprire il cerchio della speranza e riconquistare la salda convinzione che né i singoli esseri viventi, né le specie e le stirpi, nascono a caso e a caso scompaiono, nell’incessante travaglio della natura; che sia per il singolo individuo, sia per le generazioni che lo precedono e che lo seguono, esiste il cielo di un nuovo mattino, destinato a dischiudersi e a risplendere dopo la notte oscura della morte.
C’è una parte di noi che lo sa, che lo intuisce, che lo conosce con un grado certezza non misurabile nei termini del Logos razionale; una parte che abbiamo voluto ignorare e soffocare, quasi vergognandocene, in nome di uno scientismo tanto presuntuoso quanto sterile.
Torniamo ad ascoltarla, quella parte nascosta in fondo alle pieghe della nostra anima: essa non s’inganna, ma sa molte più cose di quante non ne sappia la nostra fredda, superba ragione strumentale e calcolante.
Ricordiamocelo, quando ci troviamo sul promontorio estremo della notte e ci sembra, talvolta, che quell’abisso di oscurità finirà per inghiottire ogni cosa.
Ricordiamocelo sempre, che una nuova alba è destinata a sorgere: a noi, non resta che attenderla.