Europa: come uscire dal coma
di Sergio Terzaghi - 26/04/2006
Fonte: Sergio Terzaghi
L’Europa pare in coma irreversibile. Qualcuno sogna ancora il suo risveglio nonostante il panorama politico continentale sia desolante. Il deficit democratico è sotto gli occhi di tutti e crisi economiche sono prossime in diversi stati. Il sogno europeo è ben vivo sebbene l’individualismo intacchi le sfere più alte, lo spontaneismo proprio del terrore islamista sembri incontrollabile e nel Vecchio continente non venga prodotto uno stile di vita originale. I sognatori confidano nell’insegnamento di Nietzsche, secondo cui “l’Europa si farà sull’orlo della tomba”. Il de profundis pare vicino perché chi ipotizza la costruzione d’una nuova Europa continua ad arroccarsi su posizioni inconciliabili. Alcuni, gli euro-possibilisti, evidenziano i difetti dell’Unione Europea ma non offrono correttivi validi ad una sua unificazione politica. Altri, i cosiddetti sovranisti, spesso catalogati come “euroscettici”, desiderano solo conservare la sovranità nazionale in reazione alle spinte sovraterritoriali delle classi dirigenti detentrici del potere. Altri ancora, gli euro-entusiasti, sono sempre più inclini a conferire un senso meramente economico al Vecchio continente, il quale potrebbe così confluire a pieno titolo in un blocco transatlantico sempre pronto ad imbracciare le armi onde affrontare le sfide paventate dal mercato globale. Alla luce di tutto ciò, il momento di crisi è evidente e profondo: alcuni fatti suffragano questa tesi.
Nei giorni successivi al referendum francese sulla “costituzione europea”, Daniel Fried, sottosegretario di stato con delega agli affari europei, si aggirava per il Vecchio continente. Condoleeza Rice, che l’ha voluto con sé al Dipartimento di Stato, gli ha affidato la prima missione europea dopo il “no” francese. Friend è stato a Roma, Parigi e Berlino con l’obiettivo di spiegare che l’amministrazione statunitense intende aiutare gli europei ad uscire dai loro guai in nome dell’interesse comune. Il filantropico diplomatico non ha esitato ad esprimere il proprio rammarico riguardo alla empasse della “meravigliosa idea europea”. Friend ha persino affermato che “un’Europa inward looking non fa bene all’Europa e non fa bene al grande progetto di espansione della democrazia”. Invero, quest’Europa traballante serve agli Usa poiché rappresenta un’importante piattaforma sulle aree di crisi aperte. Inoltre, la prossima inclusione nella Unione europea degli stati dell’est e della Turchia, un’operazione considerata strategica sotto molti punti di vista, rafforza l’influenza statunitense sul suolo continentale. Infatti, Daniel Friend, durante le sue visite, ha voluto sottolineare come gli Usa non abbiano mai preso posizione sul Trattato ma, soprattutto, ha caldeggiato che l’Unione a 25 si faccia a prescindere dai referendum. L’amministrazione statunitense è evidentemente preoccupata dal fatto che l’Europa ritorni a sognare, a pensare in modo indipendente, seguendo buona parte degli input che vengono dalla cittadinanza del Vecchio Continente. Ciò preoccupa proprio perché, secondo i nei-cons, i tempi sarebbero maturi per fondare un grande spazio globale di libero scambio, che non può ovviamente prescindere dal mercato europeo. Gli strateghi statunitensi sanno che i “no” che vengono dall’Europa possono tramutarsi, un domani, in un “no” alla Romania, all’Ucraina e, ancor più probabile, alla Turchia. A riguardo, è quindi evidente come Angela Merkel e gli altri membri della coalition of willings, nonostante ai fini elettorali si mostrino dissenzienti verso la Turchia, abbiano dato a Friend chiare garanzie sull’allargamento. L’amministrazione Usa, certa dell’affondamento dell’Europa politica, è consapevole che una zattera sovraffollata in alto mare, non ha grandi prospettive, se non attendere un salvatore a cui conferire gratitudine. Washington pertanto inviterà ad “appesantire” la zattera. Ciononostante, il Vecchio continente ha in sé la possibilità per uscire dalle crisi. Infatti, ciò che preoccupa maggiormente l’amministrazione statunitense è la partecipazione dei popoli europei nel conferire un senso alla futura Europa. La cittadinanza ha, in alcuni stati-nazionali, gli strumenti per dare importanti segnali ed infatti, seguendo il percorso già intrapreso, potrà mettere nuovamente in discussione le finalità, la democraticità, le istituzioni e gli uomini che formano l’attuale classe dirigente della Ue. Al contempo, però, i cittadini europei dovranno prendere coscienza che è necessario un nuovo progetto di civilità. Un’Europa sociale, che declini gli attuali stati-nazioni, quindi federale, ma unita politicamente e militarmente è qualcosa di innovativo che esula dall’odierna realtà dei fatti: un’Europa che può far tornare a sognare.
Il punto di partenza, il sentiero del dissenso, è già stato tracciato. Invero, i “no” europei, rimossi troppo in fretta dagli euro-entusiasti, vengono da lontano: sul Trattato di Maastricht si era espresso negativamente il 49,2% dei francesi. Quest’ultimi mostrano da diverso tempo un disagio di cui nessuno ha voluto prender atto. Il clima pre-refendario “è stato avvelenato dall’accanimento con cui si è voluto ridicolizzare il normale sentimento patriottico e la preoccupazione, spesso legittima e per nulla xenofoba, suscitata dall’allargamento; o gettare il sospetto sul desiderio di mantenere, a fronte della globalizzazione, una certa sovranità sulla propria sorte e sulla propria identità. E dal disprezzo con cui si è cercato di spazzar via ogni critica. Tutto questo, con in più l’insicurezza sociale e identitaria e il senso d’espropriazione democratica, ha finito per chiudere gli sbocchi. E ha spinto i francesi a dare l’ennesimo segnale”[1]. Sul punto, Jean-Claude Juncker ha sostenuto che “l’Europa, così come è oggi, non si fa amare. Perciò l’Europa prospettata dal progetto di Costituzione è stata bocciata”.
Nonostante ciò, c’è chi si rifiuta di comprendere i motivi del dissenso. Riccardo Perissich, per decenni il funzionario italiano di maggior prestigio dell’UE, con l’incarico di direttore generale del mercato interno, sostiene che “è in atto una gigantesca ondata populista che può travolgere non solo l’integrazione europea ma anche la democrazia del continente”[2]. Inoltre, la Gran Bretagna, a maggior ragioni dopo la tragedia di Londra, non vuole rinunciare al suo ruolo di braccio destro degli Stati Uniti. Pertanto, il governo Blair opera nella Ue in modo “impoltico”: quanto più la nuova Europa sarà larga e informe, tanto più le sue prospettive politiche saranno evanescenti. L’Inghilterra, non a caso, ha sempre caldeggiato la causa dell’allargamento e vede di buon occhio l’ingresso dell’Ucraina. Invero, “l’obiettivo inglese è una grande comunità atlantica, dalla Turchia alla California, di cui Londra, beninteso sarebbe il perno e la cerniera. (…) Le grandi linee della politica inglese: no all’unità politica dell’Europa, sì ad una comunità atlantica con due capitali, Washington e Londra”[3]. I “no” di Francia e Olanda al Trattato hanno rafforzato l’idea britannica di un’Europa limitata a una vasta zona di libero scambio, che guarda verso gli States. Questa visione è ampiamente condivisa dai dieci Paesi dell’Est appena entrati nell’Unione. I nuovi membri dell’Unione sono europei per ragioni di mercato e atlantisti, ossia apertamente schierati con Usa e G.B., per la politica e la difesa. E’ chiaro che, se le cose non cambiano, questa strada porterà verso un’Europa sempre meno europea e sempre più americana.
Sullo specifico punto, Jurgen Habermas, ha affermato che lo scenario più probabile è “uno slittamento del nostro continente, economicamente unificato ma in declino come potenza politica, fino ad essere fagocitato nel risucchio sociopolitico della potenza egemone”[4]. Inoltre, Bernardo Valli ha affermato come l’Europa stia diventando sempre più americana poiché “sta senz’altro constatando di essere un mosaico di nazioni incapaci di costruire un’entità politica, e quindi destinate a muoversi nella costellazione imperiale”[5]. Pertanto, il dissenso referendario sebbene sia un punto di partenza non è sufficiente poiché lascia l’Europa in uno stallo controproducente. Come detto, l’antidoto consisterebbe nel diffondere la speranza d’un nuovo progetto di civiltà europea, pregno di prospettive politiche. Non è caso che ogni dibattito sulla Ue sia stato carente dell’analisi sulle sue finalità politiche: è carente poiché a tutt’oggi non esistono! Durante la campagna referendaria, i “politici” hanno fumosamente esposto le ragioni della “Costituzione” ma hanno evitato chiarimenti circa le finalità dell’Unione europea. Di conseguenza, i cittadini hanno risposto negativamente ai referendum poiché vogliono sapere con certezza dove li condurrà il progetto della “Costituzione europea”: verso uno spazio di libero scambio integrato in un grande mercato mondiale, verso una potenza autonoma chiamata a regolare la globalizzazione, verso una specie d’ONU regionale con frontiere sempre provvisorie? All’Europa non manca lo spirito della Politica, mancano i politici. La politica europea è potenzialmente forte, i politici europei sono attualmente deboli. Pertanto, non v’è da stupirsi quando il neoconservatore di Washington Bill Kristol esterna tutto il suo entusiasmo attraverso il grido “Vive la France!”. Non è un ringraziamento diretto al popolo francese ma alla sua classe dirigente! Inoltre, Ian Buruma, scrittore e professore di Diritti Umani al Bard College di New York, aggiunge che “un motivo per cui molti europei sono irritati con la potenza americana è la loro abitudine a esserne dipendenti. Il sogno utopistico di una pace mondiale modellata sull’Unione Europea, una Pax Europea, per così dire, ha potuto prosperare soltanto sotto la protezione della Pax Americana. Gran parte del comportamento europeo contiene un elemento dell’eterna protesta adolescenziale contro il padre da cui si dipende. Ma costruire un’Europa come superpotenza rivale vorrebbe dire Stati Uniti d’Europa veri e propri, che pochi vogliono veramente, e in ogni caso sarebbero piuttosto impraticabili con più di venti stati-nazione”[6]. A Buruma, anche editorialista de “Il Corriere della Sera”, occorre rispondere puerilmente: la creazione di una superpotenza rivale - gli Stati Uniti d’Europa, formula di per sé debole perchè rimanda ancora alla frammentazione propria dei moderni Stati-nazione – é evidentemente ostacolata dagli States, i quali non possono riconoscere l’esistenza di un Terzo, tra l’amico ed il nemico. Invero, una nuova Europa che agisca in qualità di Terzo, il quale è per sua definizione indipendente, potrebbe regolare i conflitti tra il McMondo e la Jihad, gettando le basi per una Pax Europea. Ma v’è di più. Ian Buruma incorre nell’errore d’assimilare la “società occidentale” a una grande famiglia. Gli Usa si arrogano la paternità sull’Europa, ma è un ruolo che la maggioranza degli europei – che non sono per nulla anti-americani - non gli risconosce. I cittadini del Vecchio continente sembrano non voler più concedere a nessuno la loro sovranità: pertanto non riconoscono alcuna autorità fuorché loro stessi. Come detto, sono i compiacenti politici europei, innamorati del potere fine a stesso, che non possono prescindere dalla patria potestà a stelle e strisce. Tutto ciò evidenzia altri problemi dell’Europa: la crisi della rappresentanza e della sovranità. Infatti, in Francia, deputati e senatori, riuniti in conclave, avevano approvato con il 90% dei voti la “Costituzione europea”. Il popolo, in libere elezioni, l’ha respinta con la percentuale del 55%. Sul punto, Jean Beaudrillard ha rilevato “il fallimento stesso del principio stesso della rappresentanza, nella misura in cui le istituzioni rappresentative non funzionano più nel senso “democratico”, vale a dire dal popolo e dai cittadini verso il potere, ma esattamente all’inverso dal potere verso il basso”. Il sogno europeo non può quindi prescindere da una rivisitazione di concetti quali sovranità e rappresentanza. Se Thomas Jefferson, nel 1826, durante il cinquantesimo anniversario della Dichiarazione di Indipendenza, scrisse che il mondo avrebbe sicuramente seguito l’esempio americano, quale “segnale di uomini che insorgono a spezzare le catene cui l’ottusa ignoranza e la superstizione li ha costretti, per assumere la benedizione e la sicurezza”, i popoli europei, federandosi tra loro, ricostruendo un legame sociale, riscoprendo i propri miti ed i propri simboli ma anche creandone di nuovi, ritroveranno il fascino seduttivo dell’Europa e del suo nuovo Sogno di democrazia e d’indipendenza. Parafrasando Rifkin, gli statunitensi sono soliti affermare come per il sogno americano valga la pena morire. Che per il sogno europeo valga la pena vivere![1] Hubert Vedrine, già ministro degli esteri francesi, in “La Repubblica”, 14 giugno 2005.
[2] Citato da Mario Pirani, E’ populista difendere l’economia europea?, in “La Repubblica”, 13 giugno 2005.
[3] Sergio Romano, “Il Corriere della sera”, 12 giugno 2005.
[4] Jurgen Habermas, “La Repubblica”, 9 giugno 2005.
[5] Bernardo Valli, “La Repubblica”, 11 giugno 2005.
[6] Ian Buruma, “Il Corriere della Sera”, 24 agostio 2005.