Partitocrazia, cancro dello Stato
di Massimo Fini - 26/04/2006
Nel 1946, Guglielmo
Giannini, singolare
e poliedrica figura,
commediografo e giornalista,
creò il movimento
dell’“Uomo Qualunque” che
prendeva il nome dell’omonimo
settimanale che aveva
fondato nel 1944. La sua
idea di fondo era che per
governare l’Italia sarebbe
stato sufficiente un buon
‘Ragioniere dello Stato” che
avrebbe dovuto rimanere in
carica cinque anni senza
possibilità di rinnovo del
mandato. Alle elezioni per
l’Assemblea Costituente del
1946 “L’Uomo Qualunque”
prese più di un milione e 200
mila voti, pari al 5.28% dell’elettorato,
e mandò in Parlamento
più di trenta deputati.
Una forza quindi piuttosto
significativa. Ma contro
il movimento dell’“Uomo
Qualunque” si scatenò il
fuoco di sbarramento di tutti
i partiti che lo sommersero
col più profondo disprezzo,
tanto che il termine ‘qualunquismo’
divenne l’insulto più
sanguinoso del gergo politico
secondo solo a quello di
“fascista”.
Politici di professione ne
videro infatti immediatamente
il pericolo: con una
soluzione come
quella proposta da
Giannini i partiti avrebbero
perso quasi tutto il potere.
La formazione di quella che
in seguito sarebbe stata
chiamata ‘partitocrazia’,
vale a dire l’occupazione ad
opera dei partiti della società,
era infatti in atto già in
quel lontanissimo 1946.
E aveva origine nel Clan che
comprendeva tutti i partiti,
dai comunisti ai monarchici.
Autoproclamatisi “liberatori”
di un’Italia che era stata
invece “liberata” dagli
angloamericani, i partiti si
sentirono autorizzati ad
occupare tutte quelle strutture
che erano ancora rimaste
in piedi nel Paese
distrutto (prefetture, sindaci,
settori della Pubblica
Amministrazione). Una
marcia che non si sarebbe
più fermata e che già negli
anni Sessanta avrebbe provocato
le famose, e inutili,
prediche del costituzionalista
Giuseppe Maranini contro
la degenerazione partitocratica.
Nonostante i Padri fondatori
si fossero prudentemente
limitati a nominare i partiti
in un solo articolo della
Costituzione, il 49 (“Tutti i
cittadini hanno diritto di
associarsi liberamente in
partiti per concorrere, con
metodo democratico, a
determinare la politica
nazionale”) queste organizzazioni
lobbistiche hanno
finito, nel corso del tempo
per occupare anche i restanti
138. E se negli anni Cinquanta
e Sessanta il fenomeno
non è stato così totalizzante
è, paradossalmente,
perché c’era un partito, la
Dc, che aveva una maggioranza
quasi assoluta e poteva
quindi permettere di controllare
solo i gangli vitali
dello Stato lasciando campo
libero per il resto. Ma a a
partire dagli anni Settanta,
col coinvolgimento dei socialisti
e il consociarsi del Pci
al potere, la spartizione di
ogni spazio pubblico divenne
ferrea, scientifica, e pressoché
istituzionalizzata con il
famoso ‘manuale Cencelli’. I
partiti non si accontentarono
più di occupare, indebitamente,
tutte le Istituzioni
dello Stato, ma misero le
mani sulle industrie pubbliche,
le Spa comunali, le
banche, le casse mutue,
quelle di risparmio, le compagnie
di assicurazione; le
cooperative di soggiorno, i
conservatori, gli acquedotti;
gli ospedali, le Usl.
Questa spartizione competitiva
della società favorì,
anzi, determinò quella
immensa corruzione che
sarebbe stata poi scoperchiata
da Mani Pulite e che
è costata ai cittadini italiani
600 mila miliardi delle vecchie
lire, un quarto del debito
pubblico. Ma nemmeno
Mani Pulite ha indotto
partiti a ridimensionarsi, a
limitarsi, a sgombrare almeno
una parte del campo che
da decenni occupano illecitamente
(valga per tutti,
come esempio, la Tv di Stato).
Al contrario, marciano
con l’arroganza e la prepotenza
di sempre. È l’indegno
spettacolo che han dato in
queste ultime settimane e
mesi, con una coalizione,
quella di centrodestra, che
pur di non mollare il potere
e i suoi privilegi, ci ha retrocesso
a Paese degno degli
ispettori Onu, e l’altra,
quella di centrosinistra, che
da quasi un anno si è messa
a litigare su come spartirselo
prima ancora di averlo
conquistato, entrambi totalmente
indifferenti ai problemi
di coloro che dovrebbero
governare, attente solo al
proprio ‘particulare’, inducono
a pensare che il vituperato
Guglielmo Giannini
avesse visto giusto.