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Intrecci e strategie del capitale finanziario

di Gianfranco La Grassa - 18/04/2010


-sulla dominanza della finanza statunitense in Europa ed Italia-

 

 

Le parallele vicende dei mancati rimborsi, negli Stati Uniti, dei cosiddetti “mutui sub-prime”, ossia i prestiti concessi alle persone meno abbienti e/o considerate ad alto rischio di insolvenza, con relative ripercussioni in Europa, e la violenta impennata speculativa del prezzo del petrolio non possono non porre l’attenzione sulla crescita del peso della finanza (a dominanza USA) nella vita economica. Una crescita accompagnata da ideologie neoliberiste che mascherano la loro funzionalità al dominio imperialista statunitense inneggiando all’affermazione della “libertà individuale” e dell’“efficienza economica”, presuntivamente basata –questa– sul disimpegno dello Stato nell’economia e sulla centralità dei “mercati”. Pur considerandola senza dubbio tra i responsabili primari del peggioramento globale delle condizioni economiche e sociali di vita, Gianfranco La Grassa mette in guardia dal considerare la finanza una sorta di degenerazione del processo economico o di necrosi parassitaria sul corpo dell’economia reale in via di putrefazione. Partendo da una disamina nel suo complesso dei rapporti sociali dominanti, l’autore individua inscindibili e sovente intricati intrecci tra la sfera finanziaria e le altre sfere sociali principali (quella politica, quella produttiva e quella ideologico-culturale) della struttura capitalista. Gianfranco La Grassa invita dunque ad analizzare caso per caso e fase storica per fase storica il ruolo della finanza per capirne l’effettiva funzione ed il grado di dominanza sociale, escludendo in ogni caso che la speculazione finanziaria ed i crolli di Borsa, anche con i loro drammatici risvolti umani, annuncino lo stadio finale della società capitalistica e costituiscano il preludio per il definitivo disfacimento del sistema.

 

 

Secondo il marxismo "ortodosso", la dinamica –destinalmente votata al crollo– intrinseca al modo di produzione capitalistico condurrebbe ad una suddivisione dicotomica della società: la gran massa dei lavoratori di fabbrica (fra loro coordinati e cooperanti: il cosiddetto “lavoratore collettivo cooperativo”) da una parte, una esigua minoranza di proprietari azionari dall’altra. Da qui si arriva alla preminenza del “capitale finanziario”, posseduto da meri parassiti percettori di rendite e concentrato in grandi proprietà monopolistiche (banche, assicurazioni, fondi d’investimento di varia natura…). Secondo l’impostazione marxista il dominio del “capitale finanziario”, con annessa subordinazione della sfera produttiva e di quella politica, sancirebbe dunque l’entrata del capitalismo nel suo ultimo stadio. Che ne pensi?

      È a mio avviso urgente riconsiderare dal punto di vista teorico la funzione del capitale finanziario. Non ritengo la sua prevalenza, di per sé, un aspetto o sintomo della decadenza del sistema. Non esiste il predominio dei rentier. Anche gli agenti dominanti dei settori finanziari non sono semplici percettori di “rendite”, bensì più spesso agenti del conflitto strategico. Gli apparati finanziari sono ineliminabili fino a quando non saranno superati i rapporti capitalistici. La finanza nasce dalla presenza del denaro, e quest’ultimo è un “riflesso speculare” della produzione di merci, il suo necessario “duplicato” monetario. La finanza è uno degli aspetti che assume necessariamente la competizione per la preminenza nella sfera economica, ed è strettamente connessa –in una società fondata sulla merce e dunque sull’investimento di capitali quale mezzo d’espansione della propria potenza– alla conflittualità tra gli strateghi del capitale, che si trovano ai vertici delle imprese come degli apparati della sfera politica e di quella ideologico-culturale. Indubbiamente nel sistema capitalistico non sussiste lotta di strategie senza l’impiego degli strumenti monetari.

 

Nella tua visione, la competizione nella sfera economica non è dunque guidata dal fine del massimo profitto…

Infatti. Il profitto è uno scopo subordinato, un mezzo per un fine più alto: la dominanza. Il profitto è solo un alimento (finanziario) per la lotta. L’impresa in quanto unità produttiva viene subordinata all’impresa quale strumento del conflitto strategico per la supremazia tra oligarchie dominanti. Da ciò se ne deduce: a) ciò che caratterizza fondamentalmente i dominanti nella sfera economica non è la proprietà dei mezzi produttivi (in specie nel suo aspetto finanziario, con la tendenziale riduzione dei dominanti a rentier), bensì il controllo e uso delle strategie di reciproca lotta, che comporta pure alleanze ai fini dell’efficace conduzione della stessa; b) non sussiste alcuna tendenza definitiva e irreversibile alla centralizzazione del potere (identificato con la proprietà), e si verifica invece la periodica riacutizzazione dello scontro, con processi di frammentazione della produzione, ondate innovative, crescita della complessità e complicazione della sfera economica della società capitalistica per quanto concerne i settori di cui consta e i loro rapporti interattivi; c) in ultima analisi, e come suo aspetto decisivo, la competizione interdominanti nella sfera in oggetto è l’espletamento di funzioni strategiche tese alla potenza quale mezzo per conquistare la supremazia, che, pur interessando più direttamente l’economia, sono comunque politiche.

 

      L’efficienza economica –in termini di riduzione dei costi, incremento dei ricavi, ampliamento delle quote di mercato, innovazioni di processo e di prodotto, eccetera– gioca comunque un ruolo importante…

      Non però decisivo, tant’è che in molti casi gli agenti strategici accettano profitti bassi, e perfino perdite anche rilevanti, pur di porsi nelle migliori condizioni per successivi “attacchi” miranti al sopravvento. Diciamo che la razionalità detta strumentale –l’ottimale combinazione dei fattori produttivi, secondo l’economica neoclassica, o la tensione al massimo profitto (massima estrazione di plusvalore dalla forza lavoro), secondo il marxismo– crea condizioni vantaggiose ma non sufficienti a prevalere nella competizione interimprenditoriale. Il successo dell’impresa non è dovuto semplicemente alla sua efficienza organizzativa e tecnica in termini di produzione. Decisivo è tra l’altro il collegamento con le funzioni più propriamente politiche e gli apparati che di esse sono i “naturali” portatori. Gli Stati –che, oltre ad avere funzioni di coercizione e repressione, sono strutturati in base alle esigenze dell’amministrazione della “cosa pubblica” e dello sviluppo di strategie politiche tese all’acquisizione del dominio in date porzioni o aree geografico-sociali– sono cruciali ai fini della concorrenza tra imprese. Si deve comunque ribadire che la strategia è una politica tesa a conseguire il predominio, non certo il massimo sviluppo delle forze produttive. Quest’ultimo è perseguito, ma come obiettivo subordinato a quello fondamentale, cioè quale mezzo per procurarsi il necessario alimento della lotta.

 

Ma se nell’ambito della conflittualità tra i vari gruppi di agenti dominanti, quelli della sfera finanziaria prendono il sopravvento, non si rischia di prosciugare le risorse finanziarie da destinare alla sfera produttiva, con inevitabili ripercussioni sulla stabilità dello stesso sistema capitalistico?

      Ribadisco che, in se stessa considerata, la finanza, intesa con riferimento agli istituti che trattano “liquidità”, non diventa mai parassitaria tout court, così come ha sempre ritenuto il marxismo della tradizione. E non è nemmeno soltanto quello che pensava Schumpeter: un tramite per trasferire risorse dai vecchi settori imprenditoriali a quelli innovativi. In date fasi, quando la finanza sembra aver assunto definitivamente e stabilmente la preminenza nella sfera economica, essa diventa indubbiamente “parassitaria” e tende ad autonomizzarsi sempre più dalla produzione in senso proprio. Quando –per motivi che vanno certo indagati più a fondo– le funzioni degli agenti strategici delle imprese finanziarie, e dunque la strategia del “far denaro per mezzo di denaro”, conquistano il predominio, indubbiamente viene progressivamente disseccata la fonte che alimenta le strategie del conflitto, con conseguente grave danno per lo sviluppo delle forze produttive.

 

Mi sembri confermare quanto riportato prima…

Ciò avviene però solo in date fasi temporali. E/o in certe aree del capitalismo mondiale. In altre fasi temporali –i cui effetti positivi determinano un trend di lungo periodo di complessivo forte sviluppo capitalistico, per quanto caratterizzato da onde cicliche– o in altre aree della formazione capitalistica mondiale, la finanza resta in prevalenza legata alle funzioni di strumento nel conflitto per la supremazia; e tale conflitto manifesta allora, almeno come tendenza principale, i suoi effetti propulsivi in relazione alle forze produttive. Ricapitolando dunque: non esiste alcuna oggettiva e deterministica deriva parassitaria della finanza; essa non è necessariamente padrona della situazione in ogni congiuntura; il suo rapporto con i gruppi di agenti strategici dominanti (anch’essi interconflittuali) della sfera politica e ideologica-culturale si caratterizza differentemente in contingenze specifiche e diverse. In realtà manca una vera sintesi nell’interpretare motivazioni e obiettivi dell’attività degli agenti dominanti economici (produttivi e finanziari), politici e ideologico-culturali.

 

Puoi precisare il punto?

Finanza, produzione, politica e sfera ideologica-culturale sono strettamente intrecciate. All’interno di tale complesso –che non è un raggruppamento unitario, bensì diviso in tanti sottogruppi (o lobbies) fra loro in scontro per la preminenza– non si può affermare, in linea di principio, quale sia il settore predominante. Si tratta infatti di una questione da vedere caso per caso, che si risolve a seconda di determinate congiunture e di determinate funzioni cui tale complesso assolve a seconda dell’articolazione geopolitica dei diversi sistemi-paese sul piano mondiale. Detto altrimenti, economia e politica, tanto per dirne una, non stanno sempre nello stesso rapporto, in ogni data congiuntura storica, così come spesso pensa il marxista rigido ed economicista, che sostiene essere il capitalista colui che comanda a bacchetta il politico. Non sempre è così, ci sono momenti in cui le parti perfino si invertono, o comunque, il politico agisce in stretto collegamento con l’agente economico-finanziario e tuttavia avendo una ben maggiore lungimiranza strategica. Ci sono però altrettante contingenze storiche in cui, senza dubbio, il politico è un povero guitto che recita la parte assegnatagli dai dominanti della sfera economica. In Italia, in questa fase, è indubbiamente così. Ritornando al punto precedente, senza questa sintesi teorica che permetta di far luce su tale intreccio, anche la comprensione della funzione del capitale finanziario e delle sue connessioni con le altre sfere sociali diventa abbastanza complicata.

 

In tal senso il marxismo ortodosso non c’è molto di aiuto, mostrandosi invece quasi sempre pronto ad annunciare l’imminente tracollo dell’attuale sistema sociale…

…che invece prosegue il suo cammino, “escogitando” sempre nuove forme storiche dei rapporti in nuove formazioni sociali particolari e macinando i suoi avversari: magari proprio mediante crisi e “crolli”. Tali profezie errate discendono dalla credenza che la causa ultima della crisi sia o il sottoconsumo o la sovrapproduzione o la caduta del saggio del profitto, eccetera. Il tutto condito sempre con l’attribuzione della predominanza al capitale finanziario, considerato altresì un preciso sintomo dell’ormai definitiva putrescenza del capitalismo, che avrebbe raggiunto il massimo livello di sviluppo delle forze produttive. E allora, come vaticinava perfino Marx, scoccherebbe l’ora della rivoluzione proletaria (o operaia). In realtà, se dovesse scoppiare oggi la sognata crisi, come auspicano alcuni sull’onda della botta dei “mutui subprime” statunitensi, si può essere certi che da questa non sortirebbe affatto nemmeno l’inizio della fine del capitalismo né si verificherebbe la rivoluzione contro il capitale. Basti semplicemente pensare a cosa è successo negli Stati Uniti dopo la crisi del 1929, a prescindere ovviamente dalle drammatiche ripercussioni sulla vita delle classi dominate. Quella crisi finanziaria non ha portato alla fine del capitalismo, ma solo ad un passaggio dalla predominanza di certi gruppi di agenti strategici (delle tre sfere sociali, in non lineari né tanto meno semplici intrecci fra loro) a quella di altri gruppi.

 

A proposito di Stati Uniti. Quale funzione svolge a tuo avviso il capitale finanziario?

Nel paese dominante centrale –alla faccia di tutte le teorie (ideologie) che predicano la fine delle funzioni degli Stati nazionali– la finanza non è semplice parassitismo, non è sintomo di decadenza del sistema-paese; essa raccoglie, distribuisce, indirizza le risorse prelevate verso la ricerca scientifico-tecnica finalizzata all’espansione di nuovi settori fondamentali per il dominio futuro come l’aerospaziale, le biotecnologie e gli OGM, ed il rafforzamento ed ammodernamento del potenziale bellico per meglio affrontare e assolvere i compiti di dominio globale. Tutto questo, certo, può convivere, come mostra appunto l’odierna realtà statunitense, con ampi processi di deindustrializzazione e delocalizzazione produttiva in settori non strategici, con drammatiche conseguenze sull’occupazione in loco. La finanza serve infine alle manovre belliche come alla corruzione di governi, di ceti politici e culturali, eccetera, in vista dell’allargamento della propria sfera d’influenza e controllo. Solo l’economicista ideologico crede di vedere, tanto per fare un esempio, nel debito pubblico, nello squilibrio della bilancia commerciale e nell’elevato indebitamento di tutti gli operatori privati (famiglie ed imprese) negli USA il preludio al loro declino o imminente crollo. Intendiamoci: potrebbe pure verificarsi una crisi gravissima, come quella dei “mutui subprime” lascia intendere. Ma come già nel 1929 essa non determinerà l’affondamento né degli USA né del sistema capitalistico. Potrebbe benissimo essere iniziato il declino della potenza economica e politica statunitense, ma non certo a causa della preminenza del capitale finanziario, che l’economicista (soprattutto marxista) suppone parassitario di per se stesso.

 

È comunque vero che gli istituti finanziari USA realizzano profitti strepitosi. Guardiamo alle banche d’affari, attraverso la speculazione finanziaria oppure gestendo operazioni di “fusione ed acquisizione”, sottoscrivendo i titoli che le finanziano o presentando carissime parcelle a titolo di “consulenza”…

 Proprio questa tua considerazione mi offre il destro per mostrare come le banche statunitensi, oltre a ricercare ovviamente di conseguire quanti più profitti possibile, si pongono anche l’obiettivo della preminenza del capitalismo USA nel suo complesso. Analizziamo ad esempio la fusione Mittal-Arcelor (2006). In precedenza la francese (o franco-lussemburghese) Arcelor intendeva fondersi con la russa Severstal, e insieme sarebbero diventate il più grande produttore di acciaio del mondo. Non si tratta di un settore di punta, di forte innovazione, ma certamente l’acciaio è materia prima per moltissime produzioni. Per giungere all’accordo, l’Arcelor aveva rigettato la prospettiva di un’Offerta Pubblica d’Acquisto (OPA) lanciata su di essa dalla Mittal Steel, una grande impresa americo-indiana, di proprietà della omonima famiglia (che risiede principalmente negli USA) per il 74%; si tratta, nominalmente, di fondi (Richmond Investment Holdings e LNM Global) che hanno sede nei cosiddetti “paradisi fiscali”; non è quindi per nulla chiaro, al di là della ufficiale proprietà della famiglia in questione, chi si nasconda poi realmente dietro quel 74% azionario che di fatto rende inattaccabile la Mittal. L’Arcelor, al contrario, aveva l’85% delle azioni in libera circolazione in Borsa, fattore che la rendeva più vulnerabile a scalate.

 

L’Arcelor dunque resiste alle pressioni della Mittal per accordarsi con la russa Severstal. Che succede a questo punto?

Immediatamente si mette in moto la famigerata e potentissima banca d’affari USA Goldman Sachs –ormai una delle principali punte di lancia (finanziarie) nella strategia americana tesa all’egemonia mondiale– e solleva l’opposizione di “piccoli azionisti” (cioè di speculativi hedge funds e di fondi pensione inglesi e USA) che raggruppano il 29-30% del capitale azionario della società francese. Nel contempo l’Unione Europea –questa organizzazione politico-monetaria succube degli Stati Uniti– concede alla predetta società americo-indiana il diritto di lanciare la sua OPA sulla Arcelor. Quest’ultima oppone resistenza, sostenuta dal governo francese che ha sempre espresso parere favorevole all’unione con la Severstal. A fine giugno si arriva alla stretta finale: la Mittal aumenta a dismisura la propria offerta d’acquisto e l’Arcelor capitola.

 

Qual è stato a tuo avviso il fattore decisivo?

Proprio l’azione delle banche d’affari USA. La ditta anglo-indiana aveva alle sue spalle cinque colossi finanziari: Crédit Suisse, l’inglese HSBC, la francese Société Générale e soprattutto Citigroup e Goldman Sachs, giudicata il pivot del dispositivo dell’OPA. L’azienda francese aveva anch’essa dei pezzi da novanta, a partire dalle francesi BNP Paribas e Calyon. Nella vicenda sono però intervenute anche la banca statunitense Merrill Lynch, che assieme ad UBS ha strutturato la strategia di Arcelor, e soprattutto la Morgan Stanley, chiamata dal consiglio d’amministrazione di Arcelor ad aiutarlo a valutare le offerte (da parte di Severstal e Mittal) indipendentemente dalla direzione generale. Curiosamente la Morgan ha affidato la valutazione delle offerte a Michael Zaoui, fratello di Yoel Zaoui, responsabile europeo del settore fusioni ed acquisizioni della Goldman Sachs ed artefice delle strategie della Mittal.

 

Altro che “conflitto d’interessi”…

Alla faccia degli sciocchi che cianciano di fine degli Stati nazionali, la Goldman e la Morgan sono economicamente avversarie, ma giocano le loro partite sapendo bene quant’è importante che comunque il dominio imperiale statunitense non venga indebolito. La Morgan si è presa dall’Arcelor le sue belle parcelle, ma l’ha di fatto indebolita con alcuni “illuminati” consigli. A favore dei “più potenti”, in senso soprattutto politico, si è schierato tra gli altri anche il finanziere Zaleski –sodale di Bazoli, capo del recentemente formato gruppo Intesa-San Paolo– con il suo oltre 7%. Infine, l’intensa attività di lobbying della Goldman –in collegamento con ambienti finanziari e politici francesi– ha “convinto” i sindacati a schierarsi per la fusione (subordinazione) dell’Arcelor con la Mittal. In generale, comunque, come sottolinea un efficace dossier francese disponibile anche sul sito www.ripensaremarx.it, «l’OPA di Mittal su Arcelor serve perfettamente gli interessi economici e politici degli Stati Uniti» e «tutta la comunità finanziaria statunitense è stata particolarmente attiva per favorire quest’OPA», su tutti appunto l’opera d’influenza di Goldman Sachs, di cui il dossier sottolinea i legami con le autorità statali USA, ma anche l’azione degli “hedge funds”.

 

Quale lezione politica hai tratto da questa operazione?

Una conferma del predominio del complesso finanziario-industriale, e in ultima analisi politico, statunitense. Nei paesi capitalistici avanzati dell’Unione Europea che si sono adattati al predominio mondiale del suddetto paese, invece, il capitale finanziario –banche e assicurazioni soprattutto, perché da noi i fondi pensione non hanno la stessa forza che negli USA– appare nel suo aspetto peggiore. La finanza e la politica (gli agenti del conflitto di strategie) non dedicano le più ampie risorse al finanziamento della ricerca, dei settori innovativi, della potenza necessaria ad espandere le aree di influenza, eccetera. La finanza e la politica si dedicano ad una sistemazione degli assetti politico-istituzionali ed economico-finanziari in modo tale da accoccolarsi, in posizione subordinata, nella rete interrelazionale di supremazia intessuta a livello mondiale dal conflitto tra i gruppi dominanti del paese centrale. Le lotte intercapitalistiche in Europa sono essenzialmente condotte sul fronte finanziario (banche e assicurazioni) e, quando si guardi al capitale azionario e ai consigli di amministrazione delle imprese in questione, si vede quanto stretti siano i controlli da parte della finanza statunitense, che tra l’altro con le sue banche è nominata sempre come “advisor” (“consulente”) delle operazioni di fusione transfrontaliere in Europa. La lotta tra gruppi finanziari nell’area europea resta, in ultima analisi, subordinata al conflitto (intestino) tra i colossi statunitensi dello stesso settore, attivi nel sostegno alle strategie politiche dei diversi gruppi di potere USA, la cui articolazione e configurazione solo in parte ricopre la divisione tra lobbies repubblicane e democratiche, poiché la trasversalità politica dei gruppi finanziari è molto alta e i loro intrecci complicati. Nei paesi avanzati non centrali, gli “strateghi” del capitale produttivo (industriale e settori annessi e connessi) si dedicano soprattutto alla ricerca di assistenza (“pubblica” e finanziaria) e investono assai meno in settori innovativi e di punta, eccetera.

 

L’Italia è paradigmatica in tal senso…

Il nostro paese, in particolare, è diventato campo di battaglia perché non siamo in una posizione affatto marginale (come siamo spesso portati a credere), ma invece piuttosto importante per rafforzare il controllo sul continente. L’Inghilterra non basta agli USA. La posizione geografica italiana è rilevante per il controllo dell’area mediterranea e mediorientale e per l’est europeo. In questo scenario vanno collocati gli avvenimenti susseguenti alla caduta del Muro di Berlino (1989). Attraverso “Mani Pulite” è stato spazzato via quel certo corrotto ceto politico DC-PSI che però, data l’esistenza del campo “socialista”, si consentiva qualche modesto margine di autonomia. Basta citare Craxi.

 

In che senso?

È noto l’appoggio dato con Andreotti all’OLP di Arafat o il caso di Sigonella (1985), dove il governo italiano si rifiutò di consegnare alle forze speciali statunitensi i quattro palestinesi che avevano dirottato l’Achille Lauro, e poi con questi il loro capo, Abu Abbas. Secondo Francesco Cossiga (il Giornale, 8 settembre 2007), «la volontà di Craxi di non consegnare Abbas era dettata dalla necessità di non disperdere il credito politico che l’Italia aveva nei confronti dei palestinesi e del mondo arabo in generale». Tre mesi dopo Sigonella, nel gennaio ’86, Craxi, saputo in anticipo dell’imminente raid USA su Tripoli, avvertì Gheddafi, «mettendolo così al sicuro». In quel frangente la rappresaglia libica di Tripoli, che come risposta al bombardamento lanciò dei missili contro Lampedusa, fu un semplice bluff «per coprire gli amici italiani agli occhi degli americani». Secondo Cossiga, «se fosse vera, la vicenda, confermerebbe l’autonomia assoluta (?, ndr) dell’Italia sulle faccende mediterranee e arabe». Un controllo ancor più accentuato sull’Italia era dunque sicuramente uno dei primari obiettivi strategici USA del dopo Muro. Non a caso, dunque, a mio avviso, tra il 1992 e 1993 si avviò un vasto processo di privatizzazione del settore pubblico, processo aperto da Amato e accelerato da Ciampi (già Governatore della Banca d’Italia e nel 1993 Premier) e da Prodi (ai vertici dell’IRI); e con l’aiuto dell’allora direttore generale del Tesoro (1991-2001), Draghi…

 

Quest’ultimo poi divenuto appunto vicepresidente in Europa proprio della banca d’affari USA Goldman Sachs (2002-2005) prima di approdare a Banca d’Italia.

Appunto. La privatizzazione riguardò in primo luogo proprio il settore bancario e poi, via via, l’apparato industriale. Il dominio statunitense in Italia prese soprattutto la via della forte influenza sul nostro apparato finanziario privatizzato, investito da intensi processi di centralizzazione capitalistica. Basti anche pensare al ruolo delle banche d’affari e fondi esteri USA nell’azionariato ma anche nella predisposizione (sempre come “advisor”) dei gruppi bancari Intesa-San Paolo e Unicredit-Capitalia. Il teatrino della politica –con i due schieramenti contrapposti (che si tenta reiteratamente di scomporre e ricomporre altrimenti) ormai putridi fino all’inverosimile– cela alla vista della popolazione quanto di ben più decisivo, e di fortemente negativo per la nostra autonomia, avviene nel sistema economico (produttivo-finanziario). Cela lo strapotere e il parassitismo della finanza –subordinata a quella USA– e il continuo degrado, con imbrogli e manovre varie per tirare avanti qualche anno, della nostra grande impresa, ancora centrata sul metalmeccanico (e l’auto in particolare) e con forte ritardo e debolezza di fondo nei settori di punta di un sistema avanzato. Un degrado che si copre con continue sovvenzioni “pubbliche” a tale settore grande-imprenditoriale decotto, arretrato. Sovvenzioni per sostenere le quali diventa ormai urgente colpire a fondo quel settore piccolo-imprenditoriale (e il lavoro detto autonomo) che prima era stato gonfiato non solo per ragioni di equilibrio sociale. Se e quando si parla di economia, ci si limita a cianciare di liberalizzazioni che colpiscono solo tale lavoro autonomo, rafforzando i settori oligopolistici. Su questo, e concludo, non mi stancherò di ripetere che una forza politica seria deve operare per la ricomposizione tra “lavoro dipendente” e lavoro cosiddetto “autonomo”.

 

 

intervista a cura di Agostino Santisi