Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Che ti passa per la testa. Le balle delle neuroscienze

Che ti passa per la testa. Le balle delle neuroscienze

di Nicoletta Tiliacos - 18/04/2010


C’è chi cerca di provare che l’amore per i romanzi dipende dall’evoluzione e chi individua nel cervello la “zona” della tendenza politica. Le balle delle neuroscienze

OAS_RICH('VideoBox_180x150');

Una delle più recenti amenità in arrivo dal mondo delle neuroscienze (la branca del sapere che studia la struttura, le funzioni e le malattie del cervello) riguarda l’Università di Yale. Dove, apprendiamo, c’è chi sta mettendo a punto un esperimento per sottoporre a risonanza magnetica alcune persone mentre leggono romanzi. Lo scopo? Capire come mai piace quel che piace e verificare – per così dire – l’ipotesi che la passione per la narrativa sia stata “selezionata” dall’evoluzione nella nostra specie.

Sono passati esattamente trent’anni, da quando il presidente americano Ronald Reagan, che sarebbe poi morto dell’incurabile malattia di Alzheimer, dichiarò che quello tra 1980 e 1990 doveva essere “il decennio delle neuroscienze”, alle quali sarebbero stati dedicati risorse e impegno senza precedenti. Reagan presentiva, “in parte a ragione”, spiega al Foglio l’etologo Enrico Alleva, direttore del reparto di Neuroscienze comportamentali dell’Istituto superiore di sanità, “che si fosse vicini a una serie di scoperte importanti, utili per affrontare i problemi di un’umanità occidentale sempre più ricca e sempre più invecchiata. E che per questo, come mai era avvenuto in precedenza, perdeva nel corso della vita l’uso dell’organo più delicato del sistema nervoso centrale, quel cervello ‘nascosto e protetto nella scatola cranica, che sembrava inaccessibile ai ricercatori’, come ha scritto il Nobel italo-svizzero Daniel Bovet”. Alleva ricorda che grazie all’istologo italiano Camillo Golgi, “insignito nel 1906 del Nobel insieme con lo spagnolo Santiago Ramón y Cajal, fu possibile aprire una nuova era nello studio del cervello. Golgi riuscirà, con un espediente da antichi maghi, a far succhiare il nero del sale d’argento nei neuroni, a colorarli e a mostrare che sono cellule. Golgi fino all’ultimo negherà che esistano cellule neuronali separate fra di loro, mentre Ramón y Cajal lo sosterrà, e a ragione. A Stoccolma, decisero di premiare entrambi, perché senza la reazione argentica di Golgi non saremmo riusciti a dar ragione a Ramón y Cajal. Sappiamo anche che, durante la cerimonia, i due né si salutarono né si strinsero la mano”.

Dopo esordi faticosi, nel corso degli ultimi tre decenni quello delle neuroscienze “è diventato un territorio in grande fermento – spiega ancora Alleva – ricco di promesse ma fortemente dominato dalla visione più riduzionista che possa esistere, cioè quella dei chimici e dei biologi molecolari. I quali si concentrano su triplette di Dna e da queste ‘saltano’ direttamente alla malattia psichiatrica, oppure alle funzioni del cervello e del comportamento. Dimenticano, così facendo, la lezione del nostro premio Nobel Rita Levi Montalcini e della sua biologia, che rispetta tutti i passaggi: dal livello molecolare a quello cellulare a quello tissutale, a quello di organo, a quello di sistema, a quello di individuo a quello di rapporto sociale tra individui. Se non si rispettano tutti questi livelli, ogni attribuzione diventa arbitraria. E’ così che si tende a dare una base genetica a qualsiasi comportamento, emozione, preferenza, con risultati grotteschi”.

E’ la caricatura delle neuroscienze che confluisce nella visione riduzionista di personaggi alla Richard Dawkins, l’ultradarwinista convinto che i geni “ci hanno creato corpo e mente” (“Il gene egoista”, Zanichelli). Ed è la stessa di Daniel C. Dennett, che impiega seicento e più pagine del suo “Coscienza. Che cosa è” (Laterza) per sostenere che “i vari fenomeni che compongono ciò che chiamiamo coscienza” sono soltanto “effetti fisici delle attività del cervello”. Pensavate che fosse amore, insomma, e invece è soltanto una scarica elettrica o una superproduzione di serotonina. Anche Dennett è uno di quei volenterosi esploratori e agrimensori del cervello impegnati ad accreditare mappature che localizzano “il posto” della coscienza, quello dell’amore, quello dell’invidia, o quello della propensione per il pensiero astratto. Per dirla sarcasticamente con un loro feroce avversario, il genetista Richard Lewontin, “una volta che sapremo esattamente come sono fatti i geni, sapremo che significa essere uomini, e sapremo anche perché alcuni di noi leggono la New York Review mentre altri non possono spingersi oltre il New York Post” (“Il sogno del genoma e altre illusioni della scienza”, Laterza).

Sempre Lewontin, in un colloquio di qualche anno fa con il cognitivista Massimo Piattelli Palmarini, riportato sul Corriere delle Sera, raccontava che il filosofo Elliott Sober dell’Università del Wisconsin a Madison, con il quale Lewontin collaborava da anni, aveva concepito “un interessante paradosso. Immaginiamoci di cercare il gene che predispone a fare la calza. Sober mostra in grande dettaglio come procederebbe questa insensata ricerca e come finirebbe, per assurdo, nel dare buoni frutti. Per esempio, ci aspettiamo di localizzarlo su un cromosoma X, in quanto si trasmette di madre in figlia. Potremmo fare un’analisi della trasmissione lungo i rami delle famiglie, e così via. Risparmio qui i dettagli della ingegnosa storia immaginata da Sober. Ebbene, la sua è una pertinente caricatura di molte di queste scoperte di geni che si pretende causino o predispongano a un certo comportamento”. E che si accompagnano, nel campo specifico delle neuroscienze, alla sindrome della “localizzazione” compulsiva e meccanicistica di gusti, attitudini, predisposizioni, idiosincrasie nelle varie parti  del cervello. Mentre, aggiunge Enrico Alleva, “tutta la biologia, compresa la buona neuroscienza non sensazionalistica, ci dice che l’organismo è plastico, e che anche il più semplice, come il moscerino della frutta, ha una sua ‘biografia’, fatta di incontri ambientali e di apprendimento, che lo modificano e lo influenzano. E’ quello che chiamiamo ‘epigenetica’. Chi invece si ostina a cercare passioni e istinti nelle zone del cervello riesce a far sembrare anche Cesare Lombroso un moderato meccanicista”.

In un saggio del 2008 (“Chi sono i nemici della scienza?”, Lindau) lo storico della matematica Giorgio Israel ha enumerato, nell’appendice dedicata ai “documenti di malascienza”, alcune delle più risibili applicazioni delle neuroscienze, degne di accompagnarsi alla “neurocritica letteraria” di Yale. Al Foglio, Israel spiega che ora, negli Stati Uniti, “sta dilagando l’uso della risonanza magnetica come prova giudiziaria per stabilire se ci si trova di fronte a un criminale. Un certo studio sostiene che ci sono soggetti nei quali una sconnessione tra area frontale e area limbica del cervello sarebbe causa – non si sa poi perché – di comportamenti aggressivi. Chi evidenzia questo tipo di problema sarebbe quindi un potenziale criminale, che ora può essere smascherato grazie alla risonanza magnetica. Il guaio è che, nel caso di un presunto assassino contro il quale non esistevano prove definitive, questa è stata accettata da un tribunale e ha comportato la condanna. Su Nature – aggiunge Israel – un neuropsichiatra ha commentato: ‘Il cervello non uccide, uccidono le persone’. La cosa tremenda è che nella corsa all’oggettivizzazione, la visione scientista e non scientifica delle cose porta a trasferire tutto in termini di cervello. Non c’è più ambiente, non c’è più persona, c’è solo il cervello. Un altro esempio ancora più ridicolo è quello della top ten dei film più coinvolgenti, ottenuta sempre con la solita risonanza magnetica. La quale non fa altro che rappresentare un minore o maggiore afflusso di sangue a certe zone del cervello e quindi l’attivazione di certe zone neuronali. Ma constatare l’attivazione di una zona del cervello non significa dedurre i pensieri che stanno passando per la testa di una persona”.

In un libro appena pubblicato in Italia (“Adolescenti”, Einaudi Stile libero), un vivace docente di Anatomia clinica veterinaria a Cambridge, David Bainbridge, spiega con linguaggio seducente e colorito perché “gli adolescenti si comportano da animali”, e descrive quell’età come una dotazione appositamente dedicata alla nostra specie dall’evoluzione. La sovrabbondanza di materia grigia corticale, unita alle famose “tempeste ormonali”, fanno dell’umano adolescente un essere incline al mugugno, all’instabilità, alla ricerca di emozioni forti, alla malinconia e ai bruschi cambiamenti d’umore… Vi sembra non ci sia nulla che già non sapeste, di voi stessi tra i dodici e i vent’anni, o dei vostri figli e nipoti? O che non sapesse già il celebrato Salinger del “Giovane Holden”, per non parlare di Louisa May Alcott di “Piccole donne”? E’ vero, sapevate già tutto. Ma volete mettere la rassicurazione scientifica e certificata con risonanza magnetica di chi, poniamo, conferma che, mai come nell’adolescenza, è attiva la zona cerebrale che sovrintende all’influenzabilità?

Il vero vizio di un certo modo di intendere le neuroscienze, spiega ancora Israel, “è quello di fissare un parallelismo tra certi fenomeni cerebrali e concomitanti fenomeni mentali, presentando i primi come cause dei secondi”. Questo modo di procedere, secondo Israel, significa che “è in corso una vera e profonda crisi della ricerca scientifica. I risultati scientifici valgono a livello mediatico, sul terreno della banalizzazione e della semplificazione estrema, e sbagliata, mentre l’etica della ricerca è minoritaria. Che senso ha fare la risonanza magnetica per stabilire che un certo film mi ha emozionato più di un altro? Lo so già da me. Non varrebbe nemmeno la pena parlarne, se non fosse che queste cosiddette ‘ricerche’ spesso hanno in mano il bandolo dei finanziamenti”.

E allora vai con le risonanze magnetiche uso “mappatura delle emozioni, dei pensieri e degli stati mentali, ormai diventata una vera e propria industria. Questo non significa che non si tratti di un’attività che può essere seria e utile – puntualizza Israel – perché, come ha osservato il filosofo Paul Ricoeur in un libro-dialogo con il neuroscienziato Jean-Pierre Changeux, nessuno può seriamente contestare che, quando penso, qualcosa accada nel mio cervello. Ma di qui a concluderne che i processi fisici che avvengono nel cervello – registrati con la risonanza magnetica – siano la ‘causa’ dei pensieri e del loro contenuto di significato, equivale a stabilire un’identificazione grossolana tra correlazione e causalità”.

Un esempio di questo modo di procedere, spiega Israel “è quella ricerca dell’Università di New York – pubblicata su Nature Neuroscience – che identifica in una regione tra i due emisferi cerebrali (la corteccia cingolata anteriore) nientemeno che la zona coinvolta nelle scelte politiche. Se sei di destra o di sinistra, insomma, lo decide il minore o maggiore spessore della corteccia cingolata anteriore, che sarebbe meno reattiva nei conservatori e più intensamente coinvolta nei progressisti”. Così, prosegue Israel, “un aspetto materiale (il comportamento di certi neuroni) viene messo sullo stesso piano di una caratteristica soggettiva, storica e contingente, come l’essere liberal o conservatore. E le nozioni relative, in quanto inerenti alla struttura del cervello, diventano categorie astoriche e universali: l’umanità, dalle caverne a oggi, si sarebbe sempre ripartita in liberal e conservatori. Ridicolo”.

Le neuroscienze, naturalmente, non sono solo questo. Studiosi riconosciuti, come Giacomo Rizzolatti, che con la sua équipe dell’Università di Parma ha evidenziato la funzione dei “neuroni specchio” (quelli che si attivano quando si compie una certa azione e anche quando si vedono altri compiere quell’azione), alla vera domanda inevasa delle neuroscienze (come fa la materia a pensare se stessa?) rispondono così: “Possiamo davvero pensare di catturare la coscienza guardando alle sincronie delle scariche neurali? Se prendiamo dei bicchieri e cominciamo a farli suonare, dopo un po’ entrano in risonanza: vuol dire che sono diventati qualcosa di cosciente? Mi sfugge come dalla sincronia possa emergere una materia che pensa se stessa” (“La parola contesa tra filosofia e scienza. 2006”, il Mulino). Dal canto suo, l’ultraottantenne Marvin L. Minsky, uno dei fondatori dell’Artificial intelligence lab del Mit (ma ora convinto che il progetto dell’intelligenza artificiale sia fallito), ha spiegato – nel 2006, a BergamoScienza – che “la creatività dipende dalla cultura. E’ misteriosa, perché non conosciamo come avvenga il pensiero del senso comune, né si sa come avvenga il pensiero non ordinario, quando si è creativi”. Ha anche definito “folle” la teoria che “la mente sia divisa in due parti, una destra e una sinistra”, perché “non ci sono due parti del cervello: per quel che posso dire, ce ne sono quattrocento”. Il senso è: del funzionamento del cervello non sappiamo nulla, o quasi: “Quanti processi attivi il cervello umano è in grado di muovere contemporaneamente? Nessuno lo sa”.

Come sempre, quando si tratta di scienza, la dichiarazione di non sapere è una garanzia, rispetto all’eccesso di assertività. Anche il filosofo del linguaggio John R. Searle, docente a Berkeley, ammetteva in un suo saggio del 1998 (nulla è cambiato da allora) che “non abbiamo una teoria del funzionamento del cervello, allo stesso modo in cui abbiamo una teoria atomica della materia, una teoria germinale della malattia, una teoria genetica dell’ereditarietà”. E aggiungeva: “Potrebbe risultare che il tentativo di comprendere il cervello a livello dei neuroni è senza speranza, quanto lo è cercare di comprendere il motore di un’auto al livello delle molecole di metallo del cilindro” (“Il mistero della coscienza”, Raffaello Cortina). Ma l’idea di scassinare il mistero del cervello è un’idea troppo seducente, soprattutto per chi non è affatto propenso, come ha scritto Giorgio Israel, “a saper discernere criticamente i risultati oggettivi dalle indebite estrapolazioni metafisiche”.

Nel frattempo, più delle risonanze e delle mappature delle emozioni – e parafrasando Lewontin che preferisce Tolstoj – per capire meglio la natura umana pensiamo sia tuttora più utile leggere Dostoevskij. Chi invece volesse un bagno di novità neuroscientifiche, sappia che venerdì prossimo, a Roma, si apre il forum “The Brain revolution”, dedicato ai centouno anni di Rita Levi Montalcini.