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La libertà dell’uomo lo mette in grado di scegliere fra l’essere e il nulla

di Francesco Lamendola - 30/04/2010

 

 



L’atto che rende l’uomo persona, cioè sostanza spirituale unica e irripetibile, è la scelta; e non vi sarebbe scelta se non vi fosse libertà di scegliere: dunque, il fondamento ontologico della natura umana è la libertà.
Ma libertà di che cosa e libertà da cosa e per che cosa?
Libertà di essere, piuttosto che di non essere; e libertà dal nulla, piuttosto che per il nulla. Questa è la sua essenza, questo il suo destino.
Ma gli esistenzialisti, la cui ombra opprimente pesa su questa tarda modernità come una cappa di piombo, hanno travisato i termini del problema e, pur avendo visto giusto nelle premesse, ossia nel fatto della libertà come condizione stessa della persona, ne hanno poi tratto delle conseguenze assurde e distruttive, rispetto alle quali è necessario prendere le distanze.
Ha scritto Jean-Paul Sartre nel suo classico «L’essere e il nulla. Saggio di ontologia fenomenica» (titolo originale: «L’être et le néant. Essai d’ontologie phénomenologique», Paris, Librairie Gallimard, 1943; traduzione italiana di Giuseppe Del Bo, Milano, Il Saggiatore, 1965, 1980, pp.59-67 passim)

«Bisogna anzitutto riconoscere che non possiamo concedere al nulla la proprietà di “annullarsi. Perché, quantunque il verbo “annullarsi” sia stato formulato per togliere al nulla la benché minima  sembianza d’essere, bisogna ammettere che solo l’ESSERE può annullarsi, perché, comunque per annullarsi, bisogna essere. Ora, il nulla non è. Se possiamo parlarne, è perché possiede un’apparenza d’essere, un essere prestato… […] ma come deve essere questo essere,, in rapporto al nulla, perché il nulla venga alle cose per mezzo d’esso?  […] L’essere per cui il nulla succede nel mondo è un essere nel quale, nel suo essere, si fa questione del nulla del suo essere. l’essere per cui il nulla viene al mondo deve essere il suo nulla. E con questo bisogna intendere non un atto annullatore, che richiederebbe a sua volta un fondamento dell’essere, ma una caratteristica dell’essere richiesto. […]
Abbiamo visto […] che ogni domanda pone, per essenza, la possibilità di una risposta negativa. Con la domanda si interriga un essere sul suo essere o sulla sua maniera d’essere. Questa maniera d’essere o questo essere sono nascosti: rimane però sempre aperta una possibilità, che essi si svelino come un nulla. Ma per il fatto stesso che si considera  che un esistente può sempre svelarsi come NIENTE, ogni domanda presuppone che si realizzi un ripiegamento  annullatore in rapporto al dato che diviene così una semplice PRESENTAZIONE, oscillante fra l’essere e il nulla. […] Così, con la domanda, una certa dose di negatività è introdotta nel mondo: noi vediamo  il nulla profilarsi sul mondo, colorare le cose.  E nello stesso tempo, la domanda viene da un richiedente  che si giustifica nel suo essere di interrogante staccandosi dall’essere. È dunque, per definizione,  un processo umano. L’uomo si presenta , almeno in questo caso, come un essere che fa apparire  il nulla ne mondo, in quanto si investe del non-essere a questo scopo. […]
Non vo è dubbio che queste [negatività] siano realtà trascendenti: la distanza, per esempio, ci si impone come qualche cosa di cui bisogna tenere conto, che bisogna superare con sforzo. Pertanto queste realtà sono di natura particolare: indicano immediatamente un rapporto  essenziale della realtà umana col mondo. Traggono la loro origine da un atto dell’essere umano o da un’attesa  o da un progetto, indicano tutte  un aspetto dell’essere in quanto appare  all’essere umano che s’impegna nel mondo. Ed in rapporti dell’uomo col mondo indicati  dalle negatività non hanno niente di comune  con le relazioni A POSTERORI  che si sviluppano dalla nostra attività empirica. …]
L’essere non può generare che l’essere e, se l’uomo è coinvolto in questo processo di generazione, non nascerà da esso che l’essere.  […] Tuttavia non è dato alla “realtà umana” d’annullare, anche provvisoriamente, la massa d’essere che le è posta di fronte. Può modificare invece i suoi RAPPORTI con questo essere. Per essa, mettere fuori campo un particolare esistente, è porsi essa stessa fuori campo in rapporto a questo esistente. In questo caso essa gli sfugge, si è messa fuori portata, si è ritirata AL DI LÀ di un nulla. A questa possibilità della realtà umana di produrre un nulla che la isoli, Cartesio, dopo gli stoici, ha dato un nome: LIBERTÀ. Ma la libertà non è che una parola. Se vogliamo penetrare la questione più a fondo, non dobbiamo accontentarci di questa risposta, e dobbiamo domandarci subito: che cosa è la libertà umana se  se per mezzo suo il nulla viene al mondo? […]
La libertà umana precede l’essenza dell’uomo e la rende possibile, l’essenza dell’essere umano è in sospeso nella sua libertà.  È dunque impossibile distinguere ciò che chiamiamo libertà dall’ESSERE della realtà umana. L’uomo non è affatto PRIMA, per essere libero DOPO, non c’è differenza fra l’essere dell’uomo e il suo ESSERE-LIBERO.»

 Questa parte del ragionamento di Sartre intorno alla natura del nulla, alla domanda che esso sottintende e alla libertà umana come dato inseparabile dall’esserci della persona è in gran parte condivisibile e, oseremmo dire, costituisce una tappa del pensiero che, ormai, possiamo considerare come durevolmente acquisita.
Quello che non convince, dell’esistenzialismo di Sarte, sono le conclusioni che egli trae da tali premesse; e, in particolare, come egli riesca a capovolgere il pensiero di un maestro assoluto come Kierkegaard, per approdare alle rive limacciose del nichilismo, che mai e poi mai potremmo considerare come un esito inevitabile dell’esistenzialismo kierkegaardiano.
Per Sartre, la libertà dell’uomo è libertà assoluta della coscienza, e tale libertà assoluta genera l’angoscia di fronte ai possibili, nonché il sentimento, schiacciante, di una responsabilità altrettanto assoluta.
I “sudici” borghesi, da Sartre impietosamente presi di mira nel romanzo «La nausea» (letteralmente: “salauds”, ossia “carogne, farabutti”), cercano di sottrarsi sia alla libertà che alla responsabilità, rifugiandosi nei valori tradizionali e sprofondandosi nella “routine”, il che li porta ad una vita totalmente inautentica, basata sulla malafede (concetti già espressi, e assai meglio, da Heidegger in «Essere e tempo»).
Tuttavia, se la malafede è l’esito della fuga  davanti alla responsabilità e alla libertà, Sartre, nelle sette od ottocento pagine de «L’essere e il nulla», non sa o non può trovare alcun modo d’essere autentico e positivo da parte del soggetto: tipico esempio di un pensiero filosofico nel quale alla poderosa «pars destruens» non corrisponde una sia pur timida «pars costruens»: il che è molto frequente nel pensiero della modernità, ma è anche indice di una grave e significativa debolezza speculativa.
Tutto ciò che Sartre si sente di proporre, in luogo della malafede e dell’inautenticità, è il tentativo di pervenire a una sintesi, manifestamente impossibile, fra l’in-sé e il per-sé, corrispondente all’idea di Dio come assoluta libertà e, al tempo stesso, come assoluta necessità. Un residuo kierkegardiano, oltre che hegeliano; ma anche - è chiaro - un residuo incongruo, nel panorama di un materialismo che sfocia nel tremendo giudizio sulla “inutilità” dell’uomo, visto, appunto, come una “passione inutile”.
Per Sartre, tutte le scelte sono equivalenti e tutte inutili e illusorie: non rimane che lo scacco ontologico dell’esistenza: il paradosso, cioè, di una esistenza nella quale si è gettati senza senso e senza scopo, per consumarsi vanamente nell’inautenticità o nell’impotenza, e sempre nell’angoscia e nella disperazione.
Ma è proprio inevitabile questo approccio catastrofico; e, soprattutto, è davvero coerente con le premesse? Vediamo.
Nei suoi primi saggi di psicologia fenomenologica, «L’immaginazione» (1936), «Abbozzo di una teoria delle  emozioni» (1939) e «L’immaginario» (1940), Sartre getta le premesse per l’edificio imponente di «L’essere e il nulla», del 1943; in particolare, sostenendo che l’emozione e l’immaginazione sono tipi organizzati di coscienza, cioè dei particolari modi di relazionarsi con il mondo e di conferirgli un significato, nonché (più o meno come aveva detto Pirandello qualche anno prima)  una forma dell’esistenza umana.
La funzione immaginativa è, per Sartre, l’elemento più importante della psicologia umana, perché permette alla coscienza di prendere le distanze  dalle cose e dai fatti, annullando la totalità dell’esistenza in vista di significati che sono posti liberamente dalla coscienza.
Secondo il filosofo francese, si dà una forma di complementarità, che è anche intrinsecamente contraddittoria, fra l’essere della coscienza, che egli (seguendo le orme di Hegel) chiama il “per-sé”, e l’essere del mondo, o essere “in-sé”: il primo è libertà assoluta, che dà significato ai dati della situazione; il secondo è l’Essere per antonomasia, ossia realtà fattuale opaca e massiccia, che fa da supporto all’attività intenzionale della coscienza e che, al tempo stesso, ne costituisce il residuo irriducibile.
Nel romanzo «La nausea», del 1938, Sartre descrive a forti tinte il confitto tra l’essere della coscienza e l’essere del mondo; quest’ultimo appare come dotato di una pienezza bruciante e, contemporaneamente, assurda, al punto che il protagonista ne è schiacciato e nauseato e, rispetto ad esso, si sente “di troppo”. Questo sentirsi di troppo spiega come l’esperienza metafisica del protagonista (e, per Sartre, proprio come per Pirandello, dell’uomo in generale) sia quella dell’assurdità dell’esistenza e della sua totale contingenza.
Ma è proprio così?
Non è forse vero che, invece di PORRE il dualismo ontologico fra l’essere della coscienza perennemente protesa a superare la fatticità dei possibili e l’essere come presenzialità bruta, di cui si può dire solamente che «è ciò che è», sarebbe stato necessario DIMOSTRARLO, o almeno porsi il problema di provarlo in qualche modo?
Infatti, mole cose si potrebbero contestare di questa base speculativa della filosofia sartriana, a cominciare dall’identificazione dell’Essere con la “presenzialità bruta” e con la “fattualità opaca e massiccia”. Presenzialità, fattualità? Certo, è un modo anche questo di vedere l’Essere; ma è un modo parziale e molto soggettivo, che si discosta dal filone classico della filosofia, sia antica che moderna, almeno fino a Kant: perché è con Kant che il “noumeno”, la cosa in sé, comincia a diventare il “caput mortuum” del pensiero contemporaneo.
In questo senso, Sartre è più kantiano che kiergkegaardiano; e il criticismo, come abbiamo cercato di mostrare a suo tempo, nasce da una grave limitazione che il pensiero moderno compie nei confronti di se stesso (cfr. «L’”io penso” kantiano e l’autocastrazione del pensiero moderno», consultabile sempre sul sito di Arianna Editrice).
Inoltre, chi lo dice che  il “per sé” corrisponde a un modo di essere della coscienza basato sulla libertà assoluta rispetto ai dati della situazione, dell’essere nel mondo? Questo, invece, è molto hegeliano: di quella folle filosofia di Hegel, secondo la quale non è l’essere che crea il pensiero, ma il pensiero che crea l’essere; per poi  confondere tutto in una stessa identità.
Questo pensiero delirante è alla radice di tutta la speculazione di Sartre, il quale, in verità, non si mostra molto originale nel suo modo di sviluppare l’hegelismo; il quale, nel trattare il problema ontologico, aveva almeno il pregio di una certa originalità.
Che cosa significa, infatti, affermare - come fa Hegel nel primo volume della sua «Wissenschaft der Logik» o «Scienza della logica» - che «il puro essere e il puro nulla sono la stessa cosa» e, subito dopo, aggiungere che  «il vero non è né l'essere né il nulla, ma che l'essere, - non passa -, ma è passato, nel nulla, e il nulla nell'essere»?
Che cosa significa, in quest'ultima proposizione, il concetto di "vero"? Da quale cappello di prestigiatore è mai saltato fuori, così, all'improvviso?
Hegel aveva appena finito di ribadire che l'essere indeterminato (l'essere in sé), quando passa nell'essere determinato, si "toglie" (si identifica con il suo contrario, annullandosi), per poi "risorgere", passando, in una nuova e più perfetta forma di essere (essere per sé), secondo la nota triade dialettica: tesi-antitesi-sintesi.
Dunque, «il nulla è (esiste) nel nostro intuire o pensare, o piuttosto è lo stesso vuoto intuire e pensare ch'era il puro essere»; e ancora, «il nulla è così la stessa determinazione o meglio assenza di determinazione, e perciò in generale lo stesso, che il puro essere».
Ora, però, salta fuori la categoria del "vero": il vero  che non è né l'essere, né il nulla, ma il fatto del passaggio dell'essere nel nulla e del nulla, al tempo stesso, nell'essere.
Sembra tutto un bel gioco di prestigio; ma non si capisce da dove tutto ciò provenga.
Chi è, inannzitutto, che pone questo "vero", se non c'è nulla anteriormente all'essere  e se, d'altra parte, l'essere, anteriore a ogni determinazione, è l'essere "vuoto", e solo determinandosi si concretizza, per così dire, ma al tempo stesso si annulla; per poi risorgere, più o meno miracolosamente, dalle proprie ceneri, trasformato in un glorioso essere-per-sé?
È chiara la derivazione da Spinoza, ed è chiaro che Hegel incorre nelle stesse aporie del suo predecessore. Se l'essere indeterminato è privo di qualità, allora é chiaro che non è l'Essere; è soltanto la possibilità dell'essere o, meglio, la possibilità dell'essere dei singoli enti.
Ma per mezzo di quale miracolo questo essere indeterminato, a un certo punto, prende a determinarsi, contrapponendosi al non essere del suo contrario, e dunque identificandosi col nulla? Questo è un passaggio decisivo, e anch'esso viene semplicemente "posto", ma niente affatto spiegato.
Ora, in filosofia non basta porre l'essere e il non essere; bisogna giustificarne i passaggi.
E se il "vero" non è la verità dell'Essere, a quale vero mai si riferisce Hegel? Forse alla "verità" dell'osservatore, ossia del soggetto pensante?
Egli, probabilmente, avrebbe risposto che non c'è alcuna reale distinzione fra il soggetto pensante e il pensiero in quanto tale: la sua filosofia, infatti, ruota attorno al perno dell'identità di Reale e Razionale: e dove c'è l'uno, lì c'è anche l'altro.
Un pensiero che non pensa nulla, anzi, che pensa solo se stesso, sarebbe dunque all'origine di tutta la realtà.
Questa è la concezione del Motore Immobile di Aristotele. Ma Aristotele non si sognava di presentare il Motore Immobile come la realtà assoluta, come l'ultimo grado di realtà.
Infatti è evidente che dove c'è pensiero, lì c'è anche un pensatore; ma il pensatore e il pensiero non possono essere una sola e medesima cosa, se non a un livello assoluto di realtà. Invece l'essere indistinto e indifferenziato di Hegel, anteriore a ogni determinazione, si fa pensiero di qualcosa (come?) e, in tal modo, scende nel piano del relativo, annullandosi.
Bisogna proprio deificare la storia, a questo punto, per farlo risorgere, sotto forma dell'essere per sè! In che modo lo potrebbe, altrimenti, se fosse solo pensiero pensato da un pensante che giace sul piano del relativo?
A noi pare che sia proprio una astrazione: un qualcosa di cui possono parlare i professori universitari, compiacendosi di aver scoperto e smontato il meccanismo della Ragione universale fin nei suoi più minuti ingranaggi; ma che non solo il senso comune, ma anche una sana mente filosofica, non possono e non potranno mai concepire.
Tanto meno potrebbero concepire come un tale essere indistinto e indifferenziato, una volta piovuto nel cielo degli enti e "scontratosi" con la sua negazione (o negatosi con la sua affermazione, il che, per Hegel, sembra essere lo stesso) , si annulli istantaneamente, come un atomo di antimateria che si urti con un atomo di materia; per poi ricomparire allo stato di essere-per-sé, superamento di ogni opposizione e inveramento di ogni opposto.
E adesso torniamo a Sartre.
Non vi sono delle vere e proprie ragioni per cui egli sostiene che l’essere della coscienza è contraddittorio; piuttosto, è abbastanza chiaro che egli confonde, più o meno senza rendersene conto, l’essere della coscienza con l’Essere in quanto tale, ricalcando pari pari l’ingiustificabile commistione già operata da Hegel fra i due piani della realtà.
Al contrario, sarebbe stato necessario distinguere l’essere dell’uomo, che è un essere relativo e contingente, dall’Essere in quanto tale, che è assoluto e necessario. Ora, solo all’Essere in quanto tale spettano, simultaneamente, gli attributi della massima libertà e della massima necessità; non certo all’essere dell’uomo.
L’essere dell’uomo è relativo, quindi non ha senso porlo come  libertà assoluta che dà significato ai dati della situazione (mescolando, nel pasticcio, anche una parte della lezione di Husserl e della sua fenomenologia), perché l’essere relativo non può che esprimersi per mezzo di una libertà relativa. I dati della situazione, vale a dire l’in-sé del mondo, non sono totalmente riconducibili alla libertà della coscienza. Non si stenta a credere che, posto in questi termini il problema della libertà, esso provochi la vertigine e la nausea all’essere per-sé; ma la verità è che quest’ultimo non possiede alcuna libertà assoluta, ma solo una libertà relativa.
Come potrebbe, infatti, ciò che è, per definizione, relativo, possedere un grado assoluto di libertà? Da dove gli deriverebbe tale carattere di assolutezza?
Anche l’affermazione che «La libertà umana precede l’essenza dell’uomo e la rende possibile, l’essenza dell’essere umano è in sospeso nella sua libertà», a ben guardare, non va molto d’accordo con il corollario che Sartre ne ricava, ossia che «è impossibile distinguere ciò che chiamiamo libertà dall’ESSERE della realtà umana», nel senso che  «’uomo non è affatto PRIMA, per essere libero DOPO, non c’è differenza fra l’essere dell’uomo e il suo ESSERE-LIBERO». Infatti, se fosse vero che la libertà precede l’essenza dell’uomo (ma, in tal caso, libertà di chi o di che cosa?), allora non sarebbe vero che l’essere dell’uomo coincide con il suo essere libero, ma il suo essere libero precederebbe il suo essere; il che è, manifestamente, assurdo.
Ma lasciamo perdere queste aporie di minor conto e concentriamoci sulle conseguenze, enormemente più grandi delle premesse, che Sartre ricava dalla sua impostazione speculativa di matrice kantiana e soprattutto hegeliana.
In «L’essere e il nulla», egli afferma che il rapporto con l’altro si configura negativamente, perché consiste in una reciproca riduzione a oggetto, ossia a “in-sé”, fin dall’esperienza di relazione che si può definire primaria per eccellenza, vale a dire quella dello sguardo; per cui «l’essenza del rapporto tra le coscienze è il conflitto». Qui, specialmente, si vede tutta la debolezza del modo di procedere di Sartre, che, riducendo la filosofia a psicologia spicciola, pretende poi di stabilire delle leggi eterne e universali, cioè, di nuovo, di fare della filosofia, anzi, addirittura della ontologia, ma utilizzando materiali da costruzioni transitori ed effimeri.
Chi lo dice, infatti, che, fin dall’atto del guardarsi, l’altro si configura per me come un nemico, ed io come un nemico rispetto a lui? Non vogliamo negare che ciò accada; ma non è affatto la regola: al contrario, lo si può considerare tipico delle persone pochissimo evolute sul piano della consapevolezza spirituale. È tipico di queste ultime persone porsi, già solo con l’atto della vista, in un rapporto conflittuale con l’altro, con il quale esse ingaggiano, immediatamente, una sorta di battaglia degli sguardi.
E ciò sarebbe sufficiente per trarne la conclusione che «l’inferno, sono gli altri?». Suvvia, è davvero un po’ poco, per farne una affermazione di carattere filosofico; sembra piuttosto una di quelle dubbie perle di “saggezza” che gli uomini amano scambiarsi sull’autobus o, magari, al tavolino del bar, quando sono in vena di facili sentenze.
No, signor Sartre; non ci siamo.
Non è così che si fa filosofia; e le oltre settecento pagine del suo volume sono un buon esempio di filosofia mancata: un qualcosa di pretenzioso e di gratuito nel medesimo tempo; oltre che pochissimo originale.
È così: a costo di dare un dispiacere a tutti i giovanotti e le signorine che amavano girare per Parigi, nel secondo dopoguerra, con la sigaretta in bocca e l’aria vissuta e desolata - versione più recente dei “poeti maledetti” di quasi un secolo prima - non c’è molto di originale nel lungo sproloquio de «L’essere e il nulla»: è un minestrone mal digerito di Kant, Hegel, Kierkegard e Husserl, con qualche spruzzata di Heidegger e Jaspers.
Il tutto, ovviamente, agitato a lungo e rimescolato in salsa marxista e antiborghese; componente, quest’ultima, che ha dato un contributo decisivo alla fortuna non del libro, ma del suo autore, a molti anni dalla pubblicazione di quello, col ’68 che ormai batteva alle porte.
Certo: la libertà dell’uomo è una libertà relativa. Ma è proprio essa la cosa più preziosa che egli possieda, perché lo mette in grado di scegliere fra l’essere e il nulla.
Il nulla, per l’essere umano, sarebbe la mancanza di libertà morale: ma, come dice lo stesso Sartre - lo abbiamo visto -, noi non potremmo nemmeno concepire l’essenza dell’uomo, indipendentemente dalla sua libertà.
Certo: la libertà è fonte di angoscia. Lo aveva già detto, e molto meglio, Kierkegaard.
E dunque?
L’angoscia non è affatto una malattia mortale; la malattia mortale è un’altra: è la disperazione di chi vorrebbe sopprimere in sé l’angoscia, negandone le profonde ragioni metafisiche, vale a dire la tensione dell’anima verso l’infinito.
E l’uomo sartriano, l’uomo esistenzialista, è tremendamente, irrimediabile votato alla disperazione, senza alcuna possibilità di scampo.
Possibile che Sartre abbia letto Kierkegaard così male da non rendersene conto?
Possibile che anche i tanti lettori di Sarte siano stati così distratti o così inconsapevoli da non rendersene conto?