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Un aprile che non finisce, e un passato che non passa

di Alessandra Colla - 30/04/2010

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In questi giorni d’aprile, come ti muovi sbagli.
Qualunque cosa si dica o si faccia, salta sempre su qualcuno a farti un processo alle intenzioni — e meno male che ci si limita a quello. Non che la cosa non succeda tutto l’anno, sia chiaro: ma in questo periodo è più frequente e anche più scontato, va’. Se non temessi di apparire troppo dissacrante, citerei volentieri Pietre di Antoine.

Fatto sta che il clima non è dei migliori — e non parlo di quello atmosferico, che pure dà da pensare. Così, so già che se parlassi di Sergio Ramelli o di Alberto Brasili scontenterei comunque qualcuno: e allora lascio stare.
Invece preferisco riflettere sul fatto che a 65 (ses-san-ta-cin-que) anni di distanza dalla conclusione della seconda guerra mondiale ci sia ancora gente disposta a scannarsi (metaforicamente, ma sospetto che lo farebbe volentieri in real life) su dicotomie vetuste come fascismo/antifascismo e comunismo/anticomunismo— come se non fossero categorie ormai consegnate alla storia, come se non fossero fenomeni ormai conclusi, come se il muro di Berlino non fosse caduto e la guerra fredda non fosse finita e le Twin Towers non fossero crollate.

In tutta onestà, oggi come oggi (e per la verità da un quarto di secolo almeno) non riesco a vedere un pericolo nel fascismo o nel comunismo o nei loro contrari o corollari eccetera eccetera. I pericoli sono altrove: e il bello è che sono così macroscopici che la gente neanche se ne accorge — un po’ come la luce del sole, che se la guardi troppo a lungo invece di rischiarare acceca.
Anzi, quando sento le qualifiche di “fascista” e “comunista” affibbiate a persone di cui non farò i nomi perché ne rigurgitano già i media d’Italia — quando sento questo, non riesco neanche più a innervosirmi. Mi viene da ridere — dio mi perdoni, con tutto il rispetto per il sangue copiosamente e generosamente versato dall’una e dall’altra parte, e che sembra essere scorso via come acqua sulle piume di un’anitra.

Tutto questo avvitarsi su di un odio non più generazionale ma generato da un’ignoranza cupa e dall’ottuso incancrenirsi su schemi ridotti a gusci vuoti mi fa un’immensa tristezza — pari soltanto all’immensa rabbia che mi monta dentro quando leggo e sento di maestrini che non sono né buoni né cattivi, ma soltanto stupidamente funzionali al mantenimento dell’Italia nel suo status non già di nazione sovrana (come dovrebbe essere e come non è più da un pezzo) bensì di colonia americana. E se penso che le cose avrebbero potuto andare diversamente (e quanto!), mi viene quasi voglia di mollare tutto — e Valle Giulia sembra ormai così lontana.