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Onore e filo spinato: una tesi di laurea

di Mario M. Merlino - 30/04/2010

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Laurearsi a ottant’anni è inusuale, nonostante i tanti corsi oggi per la terza età. Laurearsi alla Facoltà di Magistero, Arezzo, fra ragazzi che oscillano fra i venti e i trent’anni. L’anagrafe ci induce ad immaginarci un vecchio signore, un po’ svanito e qualche acciacco di troppo, seduto su una panchina a leggere il giornale, portare a spasso nipotini e cane, giocare a bocce in qualche centro anziani.
E laurearsi, con tutti i crismi dell’ufficialità accademica, raccontando con sobrio linguaggio e corretta documentazione di come vissero e furono trattati quei prigionieri italiani, durante il secondo conflitto mondiale, dal 1943 al 1946 nel campo di Hereford, Texas. Prigionieri, va chiarito, non cooperatori. Termine questo quasi del tutto sconosciuto come tutta la loro vicenda.
Siamo nei giorni successivi all’8 settembre, alla resa e alla fuga del re e del governo Badoglio sotto la protezione alleata. Accadimento tragico e lacerante, comunque lo si voglia giudicare, se inevitabile necessità o vergogna patria. E vissuto, tragico e lacerante, anche fra i cinquantamila prigionieri condotti negli Stati Uniti dopo la definitiva sconfitta e resa in Nord Africa ai primi di maggio del ‘43. Fra costoro il capo manipolo della milizia forestale Adriano Angerilli, volontario, fronte francese e quello greco-albanese, successivamente la Libia e la cattura in Tunisia. E’ l’autore della tesi in questione, rientrato in Italia fine febbraio 1946 nel porto di Napoli, discriminato, epurato, e poi reintegrato nel corpo forestale dello Stato. Oggi, all’età di novantadue anni, tutte le mattine attraversa il centro storico di Arezzo, compra diversi quotidiani, che si legge attento e curioso, ascolta la radio e non guarda la televisione, a pranzo sempre e solo un minestrone di verdure e per cena un bicchiere di latte.
Chi erano i non-cooperatori? Nell’ottobre del 1943 e nei mesi successivi, in tutti i campi di detenzione in Africa, India e Inghilterra, oltre che in Usa,
vennero invitati i prigionieri a sottoscrivere una scheda di collaborazione a favore degli alleati, ove si richiedeva di promettere di lavorare in favore degli alleati “contro il nemico comune, la Germania”, di non abusare la fede e la fiducia accordata; di ubbidire a tutti gli ordini promulgati.
La maggior parte si trovò a firmare per fede monarchica o dichiarando il proprio antifascismo, nella speranza in tutti che ciò comportasse il rapido rientro in Italia. Motivo quest’ultimo disatteso dalle autorità carcerarie. Vi fu, però, un quarto della totalità dei prigionieri che si rifiutò, in primo luogo per rivendicare la non perduta dignità di soldati italiani combattenti e, come scrive ancora il generale Angerilli, “personalmente non ebbi mai dubbi, cedimenti, tentennamenti o vituperevoli calcoli”.
Una parte di costoro, appunto definiti non-cooperatori, furono ristretti a Hereford in in Texas. E su di loro la pressione perché retrocedessero dalla decisione assunta, magari con una solenne bastonatura nella notte (accadde il 20 aprile 1944) e riducendo progressivamente le razioni di cibo.
L’Associazione culturale Novecento di Trieste si è presa cura di stampare la tesi con buona veste grafica e meritorio intento. Perché si tratta di vicenda storica, anche se marginale nell’apocalittico furore della seconda guerra mondiale, che andava offerta alla conoscenza di studiosi, ricercatori e curiosi del novecento in armi.
Va detto che su Hereford sono apparsi alcuni libri di ricordi autobiografici dal Fascist’s Criminal Camp di Roberto Mieville già pubblicato nel 1948, a Fame in America di Armando Boscolo nel 1954, che ha ispirato un recente e modesto film con Luca Zingaretti, e a Prigionieri nel Texas di Gaetano Tuniati, edito nel 1985. E lo scrittore Giuseppe Berto, troppo presto e ingiustamente accantonato, su quel campo di prigionia ha scritto il suo primo romanzo Il cielo è rosso.
Una tesi è ovviamente altra cosa, dove non si richiede - né il generale Angerilli ne ha la pretesa - d’essere scrittore, ma acquista quella legittimità di documento e valore scientifico. E, quindi, diviene un implicito invito a giovani laureandi di non ritenere impraticabile la via d‘una sana rivisitazione e revisione di tanti aspetti delle vicende belliche e non, legate all’Italia durante il periodo fascista.
Perché, come Renzo de Felice costantemente confermava, o lo storico - per sua stessa natura – è un revisionista o finisce per fare il passacarte. Certo, sovente, si richiede ad una tesi solo d’essere corretta nelle citazioni ed esaustiva nella bibliografia.
La tesi di Adriano Angerilli, proposta al lettore di “Novecento” con il titolo Hereford, Texas: onore e filo spinato, è al contempo e l’uno e l’altra. Qui sta uno dei suoi meriti. Se, poi, va oltre la mente e coinvolge qualche curiosità ed emozione ben venga. C’è da chiedersi, infine, se i luoghi di restrizione consentano di far emergere virtù e capacità che si ritiene non possedere nella quotidianità dell’esistenza.
Piccoli delinquenti in prigione si scoprono ed escono grandi criminali. Stalin, in carcere, da rapinatore si politicizzò e sappiamo tutti come andò a finire con la morte di Lenin e per trent’anni successivi. Nello spazio ristretto di Hereford - e la tesi del generale Angerilli è puntuale e puntigliosa nell’attestarlo - ritroviamo scrittori, come s’è detto; qui Alberto Burri dismise le vesti del medico per scoprire, utilizzando i sacchi di juta contenenti fagioli o riso, la vena del futuro artista innovativo e di fama; e i politici del futuro parlamento italiano sia di destra che di sinistra, attestando che il sentimento dell’onore è privilegio ben più forte d’ogni connotato ideologico; giornalisti e docenti universitari e pittori e matematici. O, forse, non il luogo in sé, ma una cultura che, fra molti errori e troppi compromessi, aveva comunque fermentato e dato, nel dolore e nel sacrificio, i suoi frutti migliori.