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Quelle opposte memorie sul Risorgimento erano sintomo di vitalità

di Giovanni Belardelli - 30/04/2010


 
Giovanni Belardelli ripercorre la storia della memoria collettiva del Risorgimento, che ha spesso dato origine a controversie e divisioni nella società italiana del XIX e del XX secolo.
Già all’indomani di quegli eventi il sentimento nazionale non era affatto unitario e c’era chi vedeva nell’Unità d’Italia solo una conquista da parte dei Savoia. Nel corso degli anni molto spesso le controversie sul Risorgimento furono alimentate dalle divisioni politiche e dal tentativo dei partiti di appropriarsi della memoria collettiva di quegli eventi. Solo nel secondo dopoguerra il Risorgimento divenne sempre più un tema di secondo piano e perdendo l’attenzione della società italiana le polemiche si affievolirono.


È da qualche anno che in alcuni settori dell’opinione pubblica italiana va facendosi strada una lettura fortemente negativa del Risorgimento. Ma non si tratta di un fenomeno del tutto nuovo, visto che fin dal 1860 il ricordo degli avvenimenti che avevano portato alla nascita dello Stato nazionale fu caratterizzato da polemiche, conflitti, rotture. C’era un’Italia monarchica e ufficiale che considerava casa Savoia come protagonista principale e quasi unica del Risorgimento, tanto da lasciare in ombra perfino il ruolo di Cavour; c’era un’altra parte del Paese che criticava un’unificazione che, sosteneva, aveva coinciso con la «conquista piemontese» del resto d’Italia ed identificava il vero Risorgimento, l’unico che meritasse d’essere celebrato, con l’azione di Garibaldi e dei democratici. C’era infine una parte della popolazione che, su posizioni cattoliche intransigenti, condannava in blocco il Risorgimento perché aveva sottratto al Papa i suoi territori rendendolo sostanzialmente prigioniero del nuovo Stato italiano. […]
In particolare, il conflitto tra opposte memorie si manifestava quando c’era qualche anniversario da celebrare, dando luogo alla pratica delle due differenti manifestazioni: a quella ufficiale, in cui parlavano i rappresentanti delle istituzioni, si contrapponeva quella della sinistra (composta da democratici e mazziniani, ma da un certo punto in poi anche da socialisti) che celebrava un suo Risorgimento alternativo, considerato come una rivoluzione che, interrotta da Cavour e dal re nel 1860, occorreva riprendere per costruire uno Stato veramente democratico e popolare. […]
Le contese sulla memoria del Risorgimento proseguirono, assumendo nuove forme, durante la Prima guerra mondiale e poi durante il regime fascista. Per subire infine, dopo il 1945, una mutazione decisiva. Nonostante si sostenga spesso che, grazie alla Resistenza, il sentimento di appartenenza nazionale rinacque e con esso si rivitalizzò anche l’eredità del Risorgimento, quel che allora accadde fu piuttosto il contrario. Grazie all’appropriazione-distorsione che il fascismo aveva fatto dell’eredità risorgimentale (separando l’idea di patria da quella di libertà), ma anche grazie all’affermarsi nell’Italia democratica di partiti (anzitutto la Dc e il Pci) sostanzialmente estranei alla tradizione del Risorgimento, la Repubblica nasceva da una cesura rispetto a tale tradizione. «L’Italia come grande Stato nazionale ereditato dal Risorgimento è stata distrutta», osservava Ugo La Malfa nel dicembre 1943. Né forse dovremmo sottovalutare il fatto che, con la sconfitta della monarchia nel referendum del 1946, veniva a scomparire uno dei soggetti cardine di cui fino ad allora la memoria del Risorgimento si era alimentata.
Le dispute su quella memoria sarebbero durate ancora per qualche anno, soprattutto in occasione di Italia ‘61, cioè delle celebrazioni per il centenario dell’unità, quando gli esponenti del principale partito di governo, la Dc, alterando non poco la verità storica presentarono il Risorgimento come un incontro tra l’Italia cattolica e il movimento nazionale. Lo denunciò tra gli altri, sul “Mondo”, Mario Pannunzio, rappresentante di un’Italia liberaldemocratica ed erede del Risorgimento che si trovava ad essere ormai minoranza. Ma fu l’ultima volta che ci si divise e ci si accapigliò seriamente a proposito dell’eredità risorgimentale: la «grande modernizzazione» avvenuta all’epoca del cosiddetto miracolo economico, a cavallo degli anni cinquanta e sessanta, stava cambiando radicalmente anche il panorama mentale del Paese, imponendo un lessico e dei valori tutti improntati al progresso, alla modernità, al futuro. Da allora in poi l’eredità del Risorgimento, più che essere oggetto di memorie in conflitto, tenderà a farsi sempre più sfocata, debole, incerta. Già nel 1961 lo storico Rosario Romeo, paragonando le celebrazioni di quell’anno con quelle svoltesi per il cinquantenario dell’Unità, osservava che nel 1911 la tradizione risorgimentale era apparsa ancora «operante come viva realtà ideale e morale»; nel 1961, invece, «sotto la cornice grandiosa delle manifestazioni ufficiali», si percepiva un «certo senso di distacco non solo delle masse ma anche delle classi colte e dirigenti».
Da quando Romeo scriveva sono passati altri cinquant’anni; che oggi le «masse» e le «classi colte e dirigenti» possano guardare con interesse e partecipazione alla tradizione del Risorgimento è cosa alquanto improbabile. Rispetto alla lunga stagione del «Risorgimento conteso», la peculiarità dell’Italia attuale è che sono ricomparse delle memorie antirisorgimentali veicolate dall’antiunitarismo della Lega, dalla ripresa in una parte dell’opinione pubblica meridionale delle antiche recriminazioni sul «saccheggio del Sud», infine dalle pulsioni antirisorgimentali del mondo cattolico vicino a Comunione e liberazione. Ma a queste inclinazioni antirisorgimentali non sembra contrapporsi qualcuno ancora interessato a considerare la nascita dello Stato nazionale come qualcosa non proprio da buttar via: non nel mondo politico o nella società italiana, ma neppure nella scuola, dove la «novecentizzazione» della storia introdotta dal ministro Berlinguer ha reso quasi impossibile una conoscenza adeguata del Risorgimento.