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Mediterraneo. Un dialogo fra le due sponde

di Franco Cassano - 29/04/2006

 

Un incontro alla pari

Del Mediterraneo si può parlare in vari modi, e ormai da Braudel a Valery, da Morin a Matvejevic, lo scaffale sul quale allineare testi di grande qualità inizia ad essere affollato. Più rari sono i libri a più mani, quelli scritti da autori provenienti dai diversi paesi che circondano il nostro mare. Uno dei meriti del libro curato da Ferhat Horchani e Danilo Zolo, Mediterraneo. Un dialogo fra le due sponde, Jouvence, Roma 2005, è quello di presentare un confronto serio ed approfondito tra Europa e mondo islamico, attraverso gli interventi di cinque studiosi italiani (a Orsetta Giolo si deve la ricca bibliografia che chiude il volume) e quattro tunisini. Ovviamente da un lavoro così inedito e difficile non può emergere una risposta univoca e sicura, ma la polifonia delle voci raccolte nel libro non si risolve in una collezione dispersa di opinioni. Da una lettura approfondita emerge un utile inventario di problemi, che permette di mettere a fuoco sia alcuni punti di consenso sia i terreni sui quali la discussione va continuata.

Alcuni saggi si occupano delle trasformazioni istituzionali intervenute nei paesi della sponda sud e alla delicata questione del riconoscimento dei diritti individuali. È il caso del lungo e documentato studio di Mohamed Bouguerra sulla storia dello statuto personale nella codificazione tunisina, e del breve excursus che Hafidha Chekir dedica ai diritti delle donne nei paesi musulmani. Da entrambi i saggi emerge un quadro complesso, ma segnato dall'arretramento che i processi riformatori hanno subito sotto l'onda del fondamentalismo. Se però si comparano le dinamiche dei sistemi punitivi di entrambe le sponde, come fa Emilio Santoro, emerge che tale riflusso non è una caratteristica esclusiva del mondo musulmano, perché anche in Occidente, a partire dagli anni Settanta, le politiche penali hanno subito un profondo arretramento, passando dai vecchi obiettivi rieducativi ad un'enfasi crescente sulla pericolosità delle categorie a rischio (in primo luogo migranti, emarginati, ecc.).

Mettendo a confronto gli approcci teorici al tema della globalizzazione, Lucia Re illustra, accanto alle posizioni di Beck, Bauman e Bourdieu, quelle di Olivier Roy, che sottolineano il nesso forte esistente tra i processi di globalizzazione e l'emergere del fondamentalismo. Quest'ultimo, lungi dall'essere una difesa della tradizione, è, per Roy, intimamente legato ad una forma di esperienza religiosa tipica del mondo globalizzato, fondato sulla mobilità, sull'individualismo e sulla perdita dei legami tradizionali. Tesi interessante, che però non spiega come mai perché l'islamismo politico, figlio del mondo globalizzato, abbia scelto la via dell'opposizione frontale e della Jihad e non quella dell'inserimento al suo interno. Altra è la direzione in cui si muove il saggio di Paola Gandolfi, che studia i processi migratori, individuando nei migranti il veicolo di nuove forme di comunicazione tra le due sponde, un tramite prezioso per la crescita dell'autonomia della società civile dai governi, sia a nord che a sud del Mediterraneo.

Qualche considerazione va fatta sul saggio di Hamadi Redissi dedicato al rapporto tra Islam e modernità. Si tratta, come è evidente, di un tema delicato e complesso, ma ci risulta difficile nascondere alcune nostre perplessità su un punto cruciale del ragionamento. Pur essendo molto ricca di spunti, la riflessione di Redissi ci sembra infatti fondata su un'immagine della modernità priva di ombre, ben diversa dal quadro critico a cui noi siamo abituati. In tal modo per Redissi, e talvolta anche per Ferhat Horchani, la modernità, in quanto emancipazione da ogni tradizione, diventa un valore universale, un vero e proprio criterio di misura delle civiltà. 'L'occidente si è emancipato' afferma Horchani 'perché si è svincolato dalle tradizioni e ha vinto la battaglia della modernità che ha unito dal basso le società europee'. La modernità però non è solo opposizione alla tradizione, ma anche continuità con essa. Come dimenticare le tesi di Weber sulle radici religiose della razionalizzazione della vita che caratterizza l'Occidente? Oppure come non ricordare il dibattito sulle origini della modernità tra le posizioni di Lôwith e quelle di Blumenberg? O, per venire ai nostri tempi, come non pensare alle tesi di Remi Brague sul modello romano, che sottolineano l'assoluta singolarità della tradizione europea? Se invece si assume la modernità come un criterio di misura neutro ed universale, il dialogo tra le due sponde diventa un monologo: uno parla, l'altro ascolta, uno insegna, l'altro apprende. Il rischio è che la cultura islamica venga ridotta a una serie di vincoli e di ritardi, a un fondale sul quale si proiettano le avventure della modernità occidentale.

La parte finale del saggio di Horchani (oltre che l'introduzione, scritta a due mani con Zolo), in cui vengono analizzati gli effetti dell'occidentalizzazione forzata indotta dalla globalizzazione, ci sembra invece molto più convincente. Affiora qui una visione critica della modernità, la coscienza del nesso stretto esistente tra espansione della cultura occidentale e dominio. Un nesso che non è nato negli ultimi venti anni, perché tutta la storia dell'Occidente ha tenuto saldamente insieme modernità, universalismo ed espansione. Da sempre la storia della modernità è anche storia della globalizzazione e dell'universalizzazione dell'Occidente. Quella che noi chiamiamo globalizzazione si muove all'interno di questo solco, di una lunga storia in cui l'Occidente ha costantemente cercato di farsi mondo e di rendere il mondo uguale a se stesso.

La sottolineatura di questo nesso è il cuore del saggio di Zolo e della sua polemica contro la pretesa, contenuta in ogni universalismo, di fare di una cultura il criterio di misura delle altre: non a caso Zolo parla di 'fondamentalismo della modernità'. L'unica premessa seria di un dialogo effettivo tra le culture è la critica di tutti i fondamentalismi. È qui il cuore del messaggio che viene dal Mediterraneo. Le culture possono dialogare solo se ognuna di esse abbandona la pretesa del possesso esclusivo della verità, se ogni interlocutore è convinto di avere qualcosa da insegnare, ma anche qualcosa da imparare dall'altro. Giustamente Horchani ricorda nel suo saggio l'umanesimo islamico e l'Islam liberatore: importanti sviluppi creativi che smentiscono l'idea di una tradizione immobile e sempre uguale a se stessa. Ma per sconfiggere il fondamentalismo oggi è necessario un passaggio più impegnativo, occorre puntare su una grande ripresa creativa della cultura islamica, capace di disegnare una 'terza via' tra il fondamentalismo e la subalternità. Si tratta di dimostrare non solo che la cultura islamica è capace di rinnovarsi sotto gli stimoli della modernità occidentale, ma che essa riesce a mettere in circolo nel dibattito teorico temi e spunti autonomi, capaci di suscitare l'interesse degli altri, di correggere l'asimmetria oggi dominante nel dialogo.

Un'indicazione in questa direzione può venire dal cosiddetto 'femminismo islamico', espressione che alla nostra sensibilità appare quasi un ossimoro. Esso è una critica del potere patriarcale influenzata sicuramente dal femminismo occidentale, ma non riducibile ad esso, consapevole che le linee del dominio sono complesse e la loro decostruzione richiede non una banale pratica imitativa, ma un lavoro creativo. Si tratta non di abbandonare la propria tradizione, ma di metterla in movimento, di distinguere ad esempio, come fa Fatima Mernissi, tra il Corano, che riconosce l'uguaglianza di tutti i fedeli di fronte a Dio, e la marea di interpolazioni anti-femminili successive dovute agli interpreti. Ma non si tratta di un impulso unidirezionale. Da questo lavoro critico lo stesso Occidente può apprendere qualcosa di sé che spesso preferisce rimuovere. Quando la Mernissi critica la 'tirannia della taglia 42', ci rivela come anche in Occidente lo sguardo maschile continui a governare, tramite il denaro e il successo, il corpo femminile.

Il rinnovamento della tradizione non coincide con la sua estinzione, ma con la sua capacità di chiamare le altre tradizioni ad una discussione paritaria e creativa, di rivelare ad esse il proprio lato d'ombra. Da questo rapporto, nel quale ogni interlocutore insegna all'altro a contemplare il lato di sé che non ama guardare, tutti hanno da guadagnare. È questa la strada maestra per arrivare a definire l'universale del futuro, che non sarà l'imposizione di una cultura alle altre, ma una costruzione a più mani.