Pensare l'identità
di Fabio Pagano - 30/04/2006
L'identità, specialmente quella collettiva, è oggi un concetto alquanto di moda. Da più parti se ne discute e il termine identità viene utilizzato nelle occasioni più svariate. E non a caso l'identità ha fatto il suo ingresso persino nell'ultima campagna elettorale, trovando difensori fino a ieri insospettabili.
Questo gran parlare di identità pone di fronte alla necessità di chiarire il concetto stesso, che in effetti viene utilizzato in maniera piuttosto equivoca. Quello dell'identità collettiva è un problema, si dice a ragione, moderno. Non si era mai sentito il bisogno di affrontarne la sua reale portata concettuale perché, semplicemente, non ve ne era alcun bisogno. Una comunità era tale in quanto conservava le sue radici naturalmente . Il senso di appartenenza era innato: tutto contribuiva a scandirlo. Scrivere oggi di identità collettive significa quindi prendere atto di qualcosa che si è definitivamente perso? È questo il rischio paralizzante che si corre a parlare di identità, per chi lo fa difendendo la valenza positiva del concetto. Descrivere un malato, se non addirittura un cadavere.
Volendo semplificare, si possono considerare due approcci al problema delle identità collettive. Il primo è quello proprio del pensiero dominante, pesantemente condizionato da quella che Alain de Benoist ha felicemente definito “l'ideologia dell'identico”. Partendo da ciò che accomuna gli uomini e rifuggendo ciò che invece li differenzia, questo pensiero, figlio della modernità, non concepisce l'identità che come mera caricatura. Si tratta della rappresentazione di un pensiero debole, incline soltanto a ciò che può essere quantificabile o sistematizzabile, a ciò che è razionalmente dimostrabile. E l'identità, invero, è concetto poco scientifico.
L'identità collettiva, infatti, non si misura. Il sentimento di appartenenza non è quantificabile. Il legame con le proprie radici, la propria storia, il proprio ambiente presuppone un uomo differenziato, lontano dal tipo umano oggetto delle scienza moderna e irriducibile all'individuo razionale di stampo illuminista. L'identità chiama in gioco pulsioni emozionali ed istintive, non esclusivamente razionali, considerate sintomo di un mondo arretrato e, quindi, pericoloso. Per questo chi riafferma la necessità di difendere le identità collettive si trova spesso ad essere accusato di razzismo, nazionalismo o fanatismo, o semplicemente di essere favorevole al regresso del mondo. Evidentemente, molti di coloro che si richiamano positivamente all'identità lo fanno in questo stesso orizzonte dettato dalla modernità: per costoro l'identità è sinonimo di chiusura e particolarismo, in perfetta coerenza con la concezione tutta moderna che vede l'uomo quale individuo isolato che si trova quasi costretto a rapportarsi agli altri, e lo fa generalmente mediante un contratto. L'idea stessa di nazione, che trova tra i fautori dell'identità ancora parecchi ammiratori, è il frutto di questa concezione artificiale e giacobina, che passa senza soluzione di continuità da un individuo assoluto ad una collettività assoluta, che non conosce corpi intermedi né differenze al proprio interno. La mondializzazione può essere facilmente ricondotta al culmine di questo processo, in cui l'appartenenza politica alla nazione è superata a vantaggio dell'umanità, come aveva già intuito Heidegger : “ Il nazionalismo non è superato dal puro internazionalismo, ma solo allargato ed eretto a sistema”.
Di conseguenza, come accaduto in qualche recente caso, il discorso sull'identità diviene mero luogo comune propagandistico, giocato in vista di un tornaconto elettorale e riferito al problema più urgente di questo inizio secolo, e cioè quello della sicurezza. Ancora una volta il concetto di identità è legato, hobbesaniamente, a quello di paura. Paradossalmente il richiamo all'identità collettiva è fatto in nome di una visione del mondo, fondata su un individuo che persegue esclusivamente il suo utile particolaristico e che concepisce la sua libertà come mera difesa, che contribuisce a distruggerla.
Vi è un approccio alternativo all'identità collettiva? La risposta può essere affermativa, ed è ad appannaggio di tutti coloro che fanno dell'identità uno dei concetti fondamentali di un pensiero forte. Questo approccio non considera l'identità da un punto di vista squisitamente razionalista ed illuminista. Non vuole spiegare l'identità, o almeno non si accontenta di questo. Questo pensiero concepisce l'individuo come un essere radicato, che si rapporta continuamente agli altri ed all'ambiente che lo circonda: individuo concreto e differenziato, fatto di ragione ed istinto in equilibrio tra loro. Certo, un essere non statico, ma dinamico: un individuo che ha il senso delle proprie radici e che vive partecipando e contribuendo alla storia della propria comunità. L'identità collettiva è il frutto del riconoscimento di radici comuni che non devono essere scritte da nessuna parte (si pensi al dibattito sulla Costituzione europea), ma semplicemente esistono : nella terra che si abita, nel paesaggio che si riconosce, nelle parole che ci si scambia, nei simboli che accomunano, nella interiorità di ognuno. Ed è questa consapevolezza della propria identità, della propria provenienza che permette di rapportarsi a colui che è differente, rispettandolo e non ritenendolo un pericolo oppure un essere da rendere identico.
È vero che l'identità è un concetto problematico, ed è altrettanto esatto che quello all'identità è un riferimento sempre più vago, perché sempre più si riduce ciò che differenzia rispetto a ciò che omologa i popoli. Ma oggi un pensiero forte e ribelle può costruirsi sull'identità: criticando la concezione dominante del pensiero unico e l'uomo che ne consegue, troppo spesso occupato non solo a consumare merci, ma anche emozioni. Ma soprattutto restituendo l'individuo alla sua dimensione concreta, quella locale. In questo senso, l'identità si sceglie . Si riconosce , in se stesso e negli altri. Pensare l'identità collettiva significa riappropriarsi di una dimensione naturale, che è lì a portata di mano. Riappropriarsi dei simboli, della terra, dei gesti. Procurarsi gli strumenti per comprendere meglio una realtà che ci sfugge, velocemente. Per legare il passato al futuro. La provenienza alla meta. Non è necessario un pensiero che ci dica cos'è precisamente l'identità. Ma occorrono uomini che decidano di viverla , difenderla, costruirla.