Missione politico-religiosa, schiavitù ed etnocidi negli Stati Uniti d’America
di Roberto Giammanco* - 13/05/2010
Il globalismo economico, mediatico e militarizzato del nostro tempo non può fare i conti con la sua storia: nella sua distruttività, non conosce il senso del limite. Paradigmi–slogan come “missioni di pace”, “guerre senza testimoni” o “scontro di civiltà” assicurano la continuità ad una civilizzazione distruttrice fondata, nel corso dell’età moderna, sul genocidio-etnocidio degli indios e dei nativi del Nord America, e su quell’insostituibile moltiplicatore del capitalismo che è la schiavitù in tutte le sue forme, anche moderne.
L’immaginario cristiano, con la sua oculata ambivalenza tra la conversione salvifica imposta all’infedele, da un lato, e la sua demonizzazione e distruzione dall’altro, ha sempre accompagnato questi genocidi, li ha fatti interiorizzare, assicurandone l’istituzionalizzazione e la durata. L’universalismo cristiano della missione corre parallelo, con puntuale sincronia, al globalismo della conquista e dell’etnocidio. Anche questo, senza limiti.
Cristoforo Colombo nel suo Libro de las profecìas si diceva certo che entro un secolo e mezzo sarebbe arrivata la Fine Tempi. Tutti gli infedeli, in primis gli ebrei sarebbero stati convertiti o distrutti, e la Terrasanta sarebbe stata liberata grazie all’oro che era sicuro di trovare nelle “miniere del re Salomone”. Colombo si sentiva portatore del disegno divino della redenzione dei cristiani e del conseguente, inevitabile sterminio di tutti gli infedeli.
Nel 1579 John Stubb, nella sua opera The discovery of the Gaping Gulf, definì gli inglesi “il popolo scelto da Dio” e, sempre nello stesso anno, John Lyly in polemica con i papisti della Chiesa di Roma, a quell’epoca identificata con l’Anticristo, affermava che “il Dio vivente è soltanto il Dio inglese”.
La Bibbia costituiva il punto di riferimento dominante in ogni aspetto della vita civile e politica. I Puritani che agli inizi del XVII secolo avevano attraversato l’Atlantico credevano fermamente che, in quanto “popolo scelto” spettasse a loro il compimento della missione di creare la Nuova Israele nelle solitudini selvagge dell’America del Nord. “Troveremo che il Dio di Israele è tra di noi – predicava John Winthrop nel 1630 – e farà sì che noi diventeremo lode e gloria per quelli che verranno… Noi dobbiamo considerarci come una città sulla collina, una nuova Sion…”
Il disegno divino sembrò manifestarsi con una prima, provvidenziale epidemia di vaiolo che annientò quasi completamente la popolosa tribù dei Pequot, che pure avevano accolto i Puritani aiutandoli a sopravvivere durante i primi inverni nella Nuova Inghilterra. Pochi anni dopo, nel 1637, le truppe della colonia del Connecticut agli ordini di John Mason massacrarono sistematicamente i Pequot superstiti incendiandone i villaggi e, come raccontò lo stesso Mason, “il terrore fu tale che per sfuggirci si buttarono tra le fiamme. Così il Signore, giudice degli infedeli, ha riempito quei luoghi di cadaveri”.
Sembra di leggere il Deuteronomio 20, 17: “Nelle città di questi popoli che il Signore tuo Dio ti dà in eredità non lascerai in vita alcun vivente, ma li voterai allo sterminio”. Una quindicina di Pequot superstiti furono imbarcati per le Indie occidentali e venduti come schiavi. Si concludeva così “la giusta opera di Dio”, come la definì il puritano William Bradford.
Dopo l’Indipendenza, la tattica dello sterminio assunse anche forme diverse. È incalcolabile il numero dei trattati stipulati dal Governo degli Stati Uniti e dai singoli stati con le cosiddette Nazioni indiane, tutti disattesi e molti interrotti, al momento della firma, dall’arresto o dall’assassinio dei capi nativi. Con la sua ironia di aristocratico Alexis de Tocqueville smascherava così l’ipocrisia del legalismo americano: “… a differenza degli spagnoli del XVI secolo, la condotta degli americani verso i nativi fu ispirata dal più puro attaccamento alle formalità legali … È assolutamente impossibile distruggere gli uomini con un maggior rispetto delle leggi dell’umanità”.
L’etnocidio degli indiani fu portato avanti parallelamente allo sviluppo capitalistico con la conquista del West. Nel 1814 Andrew Jackson diresse i suoi uomini mentre scotennavano gli indiani morti per confezionare briglie per i cavalli e si premurò che i souvenir provenienti dai cadaveri fossero distribuiti alle signore del Tennessee. Nello sterminio dei Creek aveva sovrainteso alla mutilazione di ben ottocento cadaveri di uomini, donne e bambini amputando loro il naso per poterli contare e dimostrare a tutti che la sua missione di civiltà era stata compiuta. A giustificazione delle sue imprese, Jackson dichiarò che “questi selvaggi non possono neppure essere evangelizzati né c’è speranza che entrino a far parte della nostra civiltà”.
Nel 1829 fu proprio Andrew Jackson, ormai divenuto settimo presidente degli Stati Uniti, a firmare l’Indian Removal Act, la deportazione di 17.000 Cherokee dalla Georgia al Missouri lungo il “sentiero delle lacrime”. Pochi mesi dopo l’arrivo nel territorio indiano, i Cherokee erano ridotti a meno di 2000.
La guerra contro il Messico fu, per le truppe americane, nient’altro che una feroce scorreria che si concluse nel 1849 con la pace di Guadalupe Hidalgo che sanzionò l’annessione agli Stati Uniti di più di metà del territorio messicano. In California, all’arrivo degli americani la popolazione nativa era ridotta a un quarto rispetto al 1769, anno in cui erano giunti i missionari francescani il più autorevole dei quali era il padre Junipero Serra, oggi in odore di santità. I missionari battezzavano i nativi e poi li usavano come schiavi tenendoli in condizioni di vita insostenibili che li portavano alla morte o, in una larga percentuale, li spingevano al suicidio.
Gli imprenditori americani continuarono per decenni il commercio di schiavi indiani. La schiavitù era legalizzata dalle autorità: per quanto riguarda i bambini, bastava dimostrare che erano orfani. Nel 1864 le cronache parlano di moltissimi casi in cui, fuori delle riserve, si uccidevano i genitori per poter prendere i figli come schiavi. Erano considerati “schiavi umili e obbedienti, meglio dei neri…”.
Nel 1619, a Jamestown in Virginia furono sbarcati i primi venti schiavi negri. L’arrivo di quel manipolo di africani incatenati pose subito il problema di istituzionalizzare l’ineguaglianza per caratteristiche razziali accanto alla ineguaglianza per classe e per genere sessuale. Come gli indiani anche i negri, in quanto schiavi, erano “inesistenti”, “invisibili”; per di più erano percepiti come appartenenti ad una razza che si collocava a metà tra l’uomo e gli animali. Nella Costituzione degli Stati Uniti la schiavitù è riconosciuta e legittimata senza mai chiamarla per nome. Il numero dei rappresentanti dei singoli Stati – recita il testo dell’articolo 1, sezione 2 – è stabilito aggiungendo al totale delle persone libere, escludendo gli indiani, che non sono tassati, i tre quinti di “tutte le altre persone”. L’esclusione per caratteristiche razziali fu subito riconosciuta come lo strumento più efficace per lo sfruttamento del lavoro e per mantenere costante l’ineguaglianza sociale fra gli stessi bianchi.
L’illuminista Thomas Jefferson condannava la schiavitù in nome dei diritti naturali ma, al tempo stesso, si preoccupava che gli schiavi si ribellassero in massa. Nelle Notes on Virginia (1793-97) osservava: “…. Per quanto riguarda la memoria, i negri sono quasi alla pari con noi; per la ragione, no…. Milioni e milioni sono stati portati o sono nati qui in America. E se è innegabile che la maggior parte di loro non ha fatto altro che lavorare nei campi… tuttavia avrebbero potuto approfittare per imparare dalla conversazione e dai rapporti con i padroni… ”.
Thomas Jefferson era convinto che, sessualmente, i negri erano ancora assimilabili al mondo animale. Va ricordato che lo stesso Jefferson era padrone di 185 schiavi, mentre Washington ne aveva 216. Dal 1795 al 1808 la domestica negra dell’illuminista Jefferson, Sally Hammings, gli aveva partorito cinque figli, emancipati poi appena divenuti adulti. Per questo nel 1802 fu accusato dei reati capitali di concubinato e missgenation, cioè di rapporti sessuali illeciti fra le due razze.
La società americana nasce dal sistema di casta già istituzionalizzato da quasi due secoli di dominio coloniale britannico. Con l’Indipendenza fu creato un meccanismo politico oligarchico basato sui diritti di proprietà individuale, sul libero flusso dei capitali e delle merci, sul controllo sociale della manodopera per “caratteristiche razziali”. In un tale contesto non suona affatto cinica l’affermazione di George Washington secondo cui “la schiavitù era sì immorale… e senza dubbio alcuno tutti gli schiavi avrebbero diritto alla libertà… Ma noi dipendiamo da loro per il lavoro pesante necessario a garantire il benessere della nazione, e per questo non possiamo abolirla”.
Il fondamento giuridico dell’articolo 1, sezione 2 della Costituzione lo dette James Madison, uno dei Padri Fondatori più autorevoli in materia di diritto. Leggiamo in The Federalist, n. 54: “Gli schiavi assommano in sé due qualità. Le nostre leggi sotto certi aspetti li considerano persone, e sotto altri proprietà… Gli schiavi non sembrano appartenere alla specie umana, ma piuttosto a quella categoria di animali irrazionali che rientrano nella categoria del legittimo possesso”.
Riguardo alla schiavitù John Carroll, teologo cattolico di Baltimora, firmatario della Dichiarazione di Indipendenza e anche lui padrone di schiavi, insegnava che la Chiesa riconosce solo quattro titoli validi per la schiavitù: cattura in guerra, punizione per i crimini più gravi, compravendita e nascita.
La posizione della Chiesa cattolica era stata sempre de facto favorevole alla schiavitù, praticata in prima persona (confronta su questo tema l’unico studio, documentatissimo, della bibliografia italiana: Chiesa e schiavitù, Roma, 2009, di Alessandro Corvisieri che è qui presente).
Nel 1537 i frati domenicani, su ispirazione di Bartolomè de las Casas, ottennero da Paolo III Farnese l’Enciclica Sublimis Deus del 2 giugno del 1537, diretta a tutta la cristianità. Cito dall’Enciclica: “… dichiariamo che i predetti Indios e tutti gli altri popoli che in futuro verranno scoperti dai cristiani, anche se non sono cristiani, non possono essere privati della libertà e del dominio delle loro proprietà… né che si possano ridurre in schiavitù”, pena la scomunica per tutti i trasgressori. Ma 1 anno e 17 giorni dopo, il 19 giugno 1538, lo stesso Paolo III emette il Breve Non indecens videtur in cui dichiarava di “cassare, cancellare e annullare” l’Enciclica che vietava la schiavitù.
Cosa era accaduto? Nell’incontro di Nizza, l’imperatore Carlo V gli aveva fatto presente che, se l’Enciclica fosse stata applicata, avrebbe perduto il quinto dell’oro e dell’argento di sua spettanza, estratto dalle miniere del Nuovo Mondo, oltre al fatto che sia gli encomenderos che gli ordini religiosi non avrebbero più potuto disporre di manodopera.
Dopo questa autocensura papale, che la Chiesa ha sempre occultato, non ci fu più alcun intervento per l’abolizione della schiavitù. Con l’esaurimento della manodopera india, anche nell’Impero spagnolo furono importati schiavi negri.
Nelle varie confessioni cristiane le posizioni assunte nei confronti della schiavitù erano sostanzialmente identiche. I testi giustificativi di Paolo sono sempre gli stessi (1 Corinzi 7:20; Colossesi 3:24; Efesini 6:5-8; Pietro 1 2:18-20; Filemone 25:8-20), tutti a prova dell’eterna simbiosi fra missione cristiana e potere economico-sociale.
“Ciascuno rimanga nella condizione in cui era quando fu chiamato. Sei stato chiamato da schiavo? Non ti preoccupare: anche se puoi diventare libero, approfitta della tua condizione. Perché lo schiavo che è stato chiamato nel Signore è un uomo libero al servizio del Signore. Allo stesso modo, chi è stato chiamato da libero è schiavo di Cristo” (1 Corinzi 7:35).
“Schiavi, obbedite ai vostri padroni terreni secondo la carne, con timore e tremore, come a Cristo… prestando servizio volentieri come chi serve il Signore e non gli uomini” (Efesini 6:5-8).
Nelle piantagioni del Sud gli schiavi potevano essere definiti cristiani solo a patto di accettare la “sanzione divina” per ogni disobbedienza al padrone terreno. Premio: la salvezza eterna, ovvero “la torta in cielo”, come diceva quel grande chiarificatore che è stato Malcolm X. La dottrina che attribuiva alla saggezza divina la caduta della razza negra nella schiavitù ebbe la sua copertura biblica con la grottesca “teologia di Canaan” (Genesi 9:21-27). Noè, ubriaco si addormenta nudo. Il più giovane dei suoi figli, Cam, lo guarda mentre giace in quell’atteggiamento scomposto e ne parla con i fratelli Sem e Jafet che ricoprono il vegliardo tenendo lo sguardo volto altrove. Al risveglio raccontano tutto all’ormai sobrio Noè il quale maledice Canaan, il più giovane dei quattro figli di Cam, assegnandolo in perpetua schiavitù con tutti i suoi discendenti a Sem e Jafet. Quell’episodio servì al clero schiavista per legittimare il principio secondo cui i figli meritano di essere puniti per le colpe dei padri e per riaffermare che l’autorità dipende dal dettato biblico.
Nel Maryland, in gran parte cattolico, gli schiavi erano proprietà personale dei preti, dei conventi, dei seminari e delle scuole cattoliche. In Louisiana, in base al Black Code, il Codice Nero di Bienville (1724) fondatore di New Orleans, tutti gli schiavi dovevano essere battezzati; ammessi sì in chiesa e ai sacramenti ma esclusi da ogni altra pratica religiosa. Il vescovo Martin D. Natchitoches definiva la schiavitù “una soluzione autenticamente cristiana grazie alla quale milioni e milioni di esseri umani passano dalla notte dell’ignoranza e del paganesimo alla luce abbagliante dello Spirito Santo”.
Negli Stati Uniti, il primo prete cattolico nero ricevette gli ordini nel 1891, e fino al 1930 erano attivi solo tre preti neri. Al contrario i battisti e i metodisti permettevano ai neri convertiti di predicare; e furono queste le origini della Chiesa Nera, che peraltro rimase sempre segregata. Le Chiese Nere, autofinanziate e poverissime, divennero il microcosmo ideale della società che i neri non avevano, e insieme l’arena in cui esercitare i modelli, le facoltà e le aspirazioni che la società bianca proponeva e materializzava per sé, negandoli a loro.
Alla radice dell’immaginario politico-religioso della nazione americana c’è l’idea di missione del popolo eletto. Nel 1749 Benjamin Franklin laicizzò quell’idea presentandola come “religione civile”, un contenitore di tutte le realtà religiose disposte ad accettare queste premesse: esistenza di Dio, creazione del mondo, missione perpetua per garantire una convivenza fondata sui valori biblici di una democrazia oligarchica.
Nella storia degli Stati Uniti il capitalismo si è sempre sviluppato come darwinismo sociale all’ombra della “religione civile” che porta in sé l’esclusione e la demonizzazione di tutte le culture che non rientrano nel suo canone politico e biblico.
Di volta in volta, l’immaginario della missione perpetua si chiamerà Destino manifesto, Guerra giusta, Esportazione della democrazia, Difesa della civiltà occidentale contro grandi o piccoli “imperi del male”.
Il globalismo economico, mediatico e militarizzato che decide chi deve vivere e chi deve morire si intreccia indissolubilmente con tutta la violenza della Missione.
*Per gentile concessione dell’Autore e del Circolo Amerindiano di Perugia, il testo dell’intervento tenuto dal prof. Roberto GIAMMANCO in occasione del XXXII Convegno Internazionale di Americanistica (Perugia, 3-10 maggio 2010).