Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / La medicina per i mali dell'Italia

La medicina per i mali dell'Italia

di Luca Ricolfi - 14/05/2010


.

L’Europa ha deciso, per ora, di salvare la Grecia dal collasso finanziario. Dopo l'annuncio della costituzione di un maxifondo di garanzia di oltre 700 miliardi di euro, le Borse hanno reagito positivamente, i titoli del debito pubblico dei principali paesi a rischio hanno recuperato terreno, la speculazione sembra battere in ritirata. Il clima che si respira, insomma, è da scampato pericolo. E tuttavia il sospiro di sollievo che aleggia nei governi e nelle opinioni pubbliche europee è a sua volta una nuova fonte di rischi, se non la principale.

Passata la paura, infatti, si fa più probabile l'eventualità che, rincuorati dal successo dell'operazione di salvataggio della Grecia, i governi si comportino come se la causa delle nostre difficoltà fosse la speculazione, e concentrino tutti i loro sforzi sulla regolazione dei mercati finanziari (sicuramente opportuna), anziché sulla rimozione degli squilibri strutturali che forniscono alla speculazione le sue armi. Il rischio, in altre parole, è che ci si preoccupi molto di tenere bassa la febbre, e assai meno di curare la malattia.

Nel caso dell'Italia le malattie sono essenzialmente due: un difetto di competitività e una pubblica amministrazione ipertrofica e inefficiente. Le due malattie sono intimamente collegate: la scarsa competitività delle nostre imprese dipende anche, se non soprattutto, dall'enorme massa di risorse che una pubblica amministrazione inefficiente sottrae ai produttori, in particolare alle imprese dell'economia emersa, che stanno sul mercato, pagano le tasse e cercano di competere. A quanto ammonta questa enorme massa di risorse sottratte alla crescita?

Un calcolo di larga massima dà i seguenti risultati. Gli sprechi nella pubblica amministrazione, presenti ovunque ma particolarmente ampi nel Lazio e nelle regioni del Sud, ammontano ad almeno 80 miliardi di euro l'anno. L'evasione fiscale e contributiva, che induce i governi a tenere alte le aliquote, ammonta ad almeno 120 miliardi di euro. In tutto fa 200 miliardi di euro che, ogni anno, vengono sacrificati per mantenere il patto scellerato su cui è basato il nostro Stato assistenziale: io ti permetto di evadere le tasse, ma ti inondo di agevolazioni, incentivi e sussidi. Il costo per il Paese è altissimo, perché una burocrazia arrogante e inefficiente, una giustizia civile lentissima, un territorio parzialmente sottratto al controllo dello Stato scoraggiano gli investimenti (in particolare quelli esteri) e disincentivano il fare impresa. E un'evasione fiscale record - solo la Grecia ha un sommerso più ampio del nostro - impedisce di dare ossigeno alle imprese regolari, mediante tagli robusti alle imposte societarie (Ires e Irap) e al cuneo fiscale.

Naturalmente so bene che è impossibile (e forse anche inopportuno) azzerare l'evasione fiscale, come è impossibile che la pubblica amministrazione sia ovunque efficiente come nei territori più virtuosi. E tuttavia per mettere l'Italia in condizione di tornare a crescere basterebbe molto di meno. Se, nel giro di qualche anno, si recuperasse anche solo un terzo dell'evasione fiscale (40 miliardi su 120) ci sarebbero le condizioni per abbattere le imposte sulle imprese, a partire dall'Irap, e per rendere un po' più pesanti le buste paga, oggi saccheggiate da un cuneo fiscale fra i più alti d'Europa. E se, anche grazie al federalismo, si dimezzassero gli sprechi, avremmo altri 40 miliardi di euro, con i quali potremmo dedicarci a completare il nostro Stato sociale. Sì, perché il paradosso dell'Italia è che essa ha lo Stato sociale più costoso del mondo (in relazione al Pil) ma si è dimenticata di costruirne dei pezzi importanti: asili nido, ammortizzatori sociali automatici e generali (estesi alle piccole imprese e ai precari), strumenti di lotta alla povertà e di sostegno degli anziani non autosufficienti. E infine, come ha più volte ricordato il ministro Brunetta, si possono varare le riforme a costo zero, a partire da quella della Pubblica amministrazione e dalle liberalizzazioni.

Ma qui, sul terreno delle cose da fare per non finire come la Grecia, si annida forse il pericolo più grande. Il rischio è che qualcosa per raddrizzare i nostri conti si faccia ma, per mancanza del necessario consenso, questo qualcosa sia la solita minestra: qualche ritocco dell'imposizione fiscale per rimpinguare le entrate, qualche taglio ulteriore (ma poco selettivo) della spesa pubblica corrente, qualche annuncio di risparmi futuri legati al federalismo fiscale. Il rischio, insomma, è che all'Italia, come ad altri Paesi europei con i conti in disordine, venga (giustamente) impedito di continuare a vivere al di sopra dei propri mezzi, ma in una spirale di deflazione anziché in un quadro di rilancio della crescita. In questo caso potremmo forse anche, fra qualche anno, ritrovarci con i conti pubblici in (relativa) sicurezza, con un deficit al 3% e un debito sotto il 100% del Pil, ma al prezzo della stagnazione. Uno scenario che può sembrare soltanto un brutto sogno, ma è semplicemente la prosecuzione delle tendenze degli ultimi anni. Fino al 2001 l'Italia cresceva meno del resto d'Europa, ma comunque cresceva, dal 2001 invece la crescita si è semplicemente bloccata. Da allora la produttività è ferma, e il Pil pro capite non aumenta più, e tutto ciò già nel periodo 2001-2008, ossia prima del grande tonfo del 2009. Questo è il problema, questa è la sfida che abbiamo davanti a noi.

.