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La pericolosa geopolitica della scarsità alimentare

di Gianfranco Bologna - 14/05/2010


 

In questi giorni è in Italia Lester Brown (Nella foto), fondatore del Worldwatch Institute e fondatore e presidente dell'Earth Policy Institute (vedasi www.earth-policy.org) , in assoluto una delle figure più straordinarie della cultura ambientale internazionale seria e qualificata. E' a lui che si deve la grande intuizione della creazione del Worldwatch Institute a Washington nel 1974, l'Istituto "osservatorio del mondo" divenuto famoso per la sua innovativa capacità di leggere i problemi delle nostre società in maniera integrata, in un mix di aspetti ambientali, economici e sociali e la cui pubblicazione più famosa è il rapporto annuale "State of the World", tradotto in oltre 30 lingue e che Brown lanciò, la prima volta, nel 1984.

L'Earth Policy Institute, l'istituto che Brown attualmente presiede, è totalmente dedicato alla diffusione e promozione dell'eco-economia ed, in particolare, alla possibilità concreta di avviare un percorso delle nostre società, alternativo all'attuale che è basato sul classico meccanismo del Business-As-Usual (BAU). Questo percorso alternativo è il Piano B, un piano cioè che ci consentirebbe di uscire dal coacervo delle gravi crisi che abbiamo provocato (ambientale, climatica, demografica, alimentare, di giustizia sociale) e ci porterebbe ad affrontare più serenamente la sfida di un futuro sostenibile.

Brown ha dedicato tutti i suoi recenti sforzi a perfezionare questo Piano B, di cui ha pubblicato tre versioni nell'arco di questi anni, ed ora è disponibile, anche in italiano, la quarta versione ("Piano B 4.0. Mobilitarsi per salvare la civiltà" edizioni Ambiente). Brown è perciò in Italia, proprio per una serie di occasioni di presentazione di questo splendido volume che ho avuto il piacere di curare (come è avvenuto per quasi tutte le sue opere apparse in italiano, escluse le prime pubblicate negli anni Settanta) soprattutto per la lunga amicizia che ci lega da più di 25 anni. 

Nella nuova versione del Piano B, di cui avremo modo di trattare anche nelle prossime settimane in questa rubrica su "Greenreport", considerata la sua straordinaria importanza, Brown sottolinea, sin da subito, il deterioramento delle condizioni planetarie della sicurezza alimentare delle nostre società. Fornisce un quadro veramente chiaro ed articolato di quello che si sta verificando in merito. Sta infatti emergendo una pericolosa geopolitica della scarsità alimentare, in cui ciascun paese, agendo in nome dell'interesse nazionale, contribuisce purtroppo a rafforzare i processi deteriori in atto. La data d'inizio di questo processo viene fissata da Brown nel tardo 2007, momento in cui i paesi esportatori di frumento, tra cui Russia e Argentina, posero limiti o divieti alle esportazioni per cercare di controbilanciare l'aumento dei prezzi sul mercato interno. Seguendo un ragionamento analogo, il Vietnam ha proibito per qualche mese l'esportazione di riso, e così altri paesi esportatori più piccoli. Tali provvedimenti, apparentemente rassicuranti per chi in questi paesi ci abita, hanno creato il panico nelle decine di stati che dipendono dalle importazioni per la fornitura cerealicola.

A questo punto, mentre il prezzo dei cereali e della soia triplicava, i governi importatori si sono resi conto di non poter più fare affidamento sul mercato. Le contromisure, per alcuni paesi, si sono concretizzate nel tentativo di concludere accordi bilaterali di lungo periodo per assicurarsi la fornitura negli anni a venire. Le Filippine, un paese forte importatore di riso, ha negoziato un accordo triennale col Vietnam che ne garantisce la fornitura per un milione e mezzo di tonnellate annualmente. L'Egitto ha siglato un patto con la Russia per oltre 3 milioni di tonnellate di frumento l'anno. Altri importatori hanno trovato simili soluzioni. Ma in un mercato ove i venditori hanno la maggiore forza contrattuale , ben pochi hanno avuto successo.

Ciò che è avvenuto in seguito è ancora più grave. L'impossibilità di negoziare accordi commerciali di lungo periodo ha condotto, i più ricchi tra i paesi importatori, ad una serie di risposte senza precedenti, caratterizzate dal tentativo di comprare o affittare, per lunghi periodi, grandi estensioni di terra coltivabile in stati stranieri. Al diminuire delle scorte alimentari, avverte Brown, stiamo quindi assistendo a una gara disperata per accaparrarsi la terra che va ben al di là dei confini nazionali. La Libia, che importa il 90 % dei suoi cereali e guarda con preoccupazione alla possibilità di poter accedere agli approvvigionamenti alimentari, è stato uno dei primi stati a guardare oltre le sue frontiere. Dopo più di un anno di negoziati, ha raggiunto un accordo per coltivare 100.000 ettari di terreno in Ucraina, seminando frumento per sfamare il proprio popolo. Questa forma di acquisizione territoriale è tipica di quei governi che hanno aperto un nuovo capitolo nella gestione geopolitica del cibo.

I negoziati di questo tipo già raggiunti o in fase di discussione non possono non farci riflettere. L'International Food Policy Research Institute (IFPRI) ha stilato una lista di circa 50 accordi, basandosi su un ampia rassegna mondiale. Dato che non è disponibile un registro ufficiale di queste transazioni, nessuno sa per certo quante ne esistano né quante ce ne saranno. Questa ondata di acquisizioni territoriali per coltivare alimenti in stati oltre frontiera, sottolinea giustamente Brown, è uno dei più grandi esperimenti di geopolitica mai condotti.

Il ruolo dei governi nel processo di acquisizione non è sempre lo stesso. In alcuni casi, sono aziende di proprietà statale a comprare le terre, in altri casi si tratta di privati che agiscono tramite la mediazione delle strutture diplomatiche governative che si occupano di negoziare un contratto favorevole per gli investitori.

Gli stati che stanno comprando terra sono soprattutto quelli le cui popolazioni hanno esaurito, o stanno esaurendo, le proprie risorse di acqua e suolo, inclusi l'Arabia Saudita, la Corea del Sud, la Cina, il Kuwait, la Libia, l'India, l'Egitto, la Giordania, gli Emirati Arabi Uniti, il Qatar. L'Arabia Saudita sta negoziando l'acquisto o l'affitto di terre in almeno 11 stati, tra cui l'Etiopia, la Turchia, l'Ucraina, il Sudan, il Kazakistan, le Filippine, il Vietnam e il Brasile.

Le nazioni che si stanno impegnando a vendere o affittare terre coltivabili sono, invece, paesi a basso reddito e, nella maggior parte dei casi, si trovano in zone ove la fame e la malnutrizione sono all'ordine del giorno. Alcuni dipendono dagli aiuti alimentari del Programma Alimentare Mondiale (PAM). Il Financial Times ha scritto che nel marzo del 2009 i sauditi hanno festeggiato la consegna del primo carico di riso prodotto su terre acquistate in Etiopia, paese in cui il PAM lavora per nutrire 4,6 milioni di persone. Altro stato scelto dai sauditi e da numerosi altri paesi importatori di grano è il Sudan, che per ironia della sorte è anche il paese dove il PAM è più impegnata nella lotta alla fame.

L'Indonesia ha accettato di cedere agli investitori sauditi 2 milioni di ettari di terra la maggior parte dei quali da destinare a risaie. Il gruppo saudita Binladin sta negoziando lo sfruttamento di 500.000 ettari di terra per la produzione di riso nella provincia indonesiana di Papua, ma l'accordo pare sia in stallo per problemi di natura finanziaria.

Per la dimensione degli investimenti, è la Cina che spicca. La ditta cinese ZTE International si è assicurata il diritto di produrre olio di palma su 2,8 milioni di ettari (6,9 milioni di acri) nella Repubblica Democratica del Congo. L'olio di palma, va sottolineato, può essere impiegato sia in cucina, sia per produrre biocarburanti, il che ci indica come la competizione tra cibo e combustibile si stia facendo sentire anche nel campo delle acquisizioni di terreno all'estero. Il dato va messo a confronto con il fatto che sono 1,9 milioni gli ettari usati in Congo per produrre mais, l'alimento di base per 66 milioni di congolesi. Come l'Etiopia e il Sudan, anche il Congo dipende dalla PAC per la sopravvivenza. Intanto, la Cina sta negoziando l'acquisto di altri 2 milioni di ettari in Zambia, da usare per la coltivazione di jatropa, un arbusto perenne dai cui semi si può estrarre l'olio. Inoltre, la Cina ha acquistato terreni, o ha in progetto di farlo, in Australia, Russia, Brasile, Kazakistan, Myanmar e Mozambico.

La Corea del Sud, tra i più grandi importatori al mondo di mais, ha investito in diversi paesi: siglando accordi in Sudan per circa 690.000 ettari coltivabili a frumento, si è posta in prima linea nella corsa alla sicurezza alimentare. Tanto per farsi un'idea, è un'area che equivale ai tre quarti dei 930.000 ettari attualmente coltivati a riso in Corea del Sud, dove il riso è l'alimento principale. I coreani sembrerebbero anche interessati ai territori orientali della Russia, dove progettano coltivazioni di mais e soia.

Una caratteristica delle acquisizioni territoriali che passa per lo più inosservata è il fatto che queste sono anche di acquisizioni di acqua. Che sia terra irrigata o che ci piova, averne il possesso significa anche mettere le mani sulle risorse idriche del paese ospitante. Le terre acquistate in Sudan sono irrigate con l'acqua del Nilo, fiume che è già soggetto ad uno sfruttamento completo. La coltivazione di questi campi  potrebbe significare semplicemente minori risorse idriche per l'Egitto, che diventerebbe così sempre più dipendente dalle importazioni di cereali.

Giustamente Brown si interroga sui numerosi interrogativi che accompagnano queste acquisizioni territoriali concordate bilateralmente. Tanto per cominciare, negoziati ed accordi mancano di trasparenza. Nella maggior parte dei casi, sono coinvolti alti ufficiali dell'esercito, e i termini del contratto sono confidenziali. Come se non bastasse vi è anche l'esclusione di molti diretti interessati dal tavolo delle trattative (come, ad esempio, i contadini locali), i quali non vengono nemmeno informati, se non a giochi fatti. Se consideriamo il fatto che difficilmente nei paesi in cui i campi sono venduti o affittati le terre produttive verranno lasciate incolte, aleggia il sospetto che molti contadini locali verranno costretti a  spostarsi. I loro terreni potrebbero essere confiscati oppure acquistati a prezzi imposti dall'alto. Tutto questo contribuisce a spiegare come mai la firma di questo tipo di accordi viene spesso accompagnata dall'ostilità della popolazione ospitante.

Per fare un esempio, la Cina ha firmato un accordo con il governo delle Filippine per l'affitto di oltre un milione di ettari di terra i cui raccolti sarebbero stati portati verso la madrepatria. Non appena si è sparsa la voce, la rabbia della popolazione, in particolare dei contadini filippini, ha costretto il governo a fare marcia indietro. Una situazione simile si è verificata in Madagascar, dove la sudcoreana Daewoo Logistics era impegnata a negoziare lo sfruttamento di oltre 1 milione di ettari di terra, un'area grande come metà del Belgio. Lo scandalo ha contribuito ad alimentare la rabbia popolare che ha portato a un cambio di governo ed alla cancellazione dell'accordo. La Cina sta anche affrontando proteste popolari in Zambia, dove vorrebbe acquisire ben 2 milioni di ettari di terra coltivabile.

Questo nuovo sistema di garantirsi la sicurezza alimentare solleva anche interrogativi relativi alle conseguenze sul mercato del lavoro. Due paesi coinvolti, Cina e Corea del Sud, intendono in alcuni casi importare la propria forza lavoro. In ogni caso, ci si può chiedere di  quale utilità sia ai paesi ospitanti l'introduzione di operazioni di agricoltura fortemente meccanizzata destinata al commercio su vasta scala in luoghi che sono generalmente caratterizzati da altissimi tassi di disoccupazione.

Brown si domanda giustamente : «Al salire dei prezzi nella nazione ospite, riuscirà il paese investitore a mietere il grano cresciuto in terra straniera? O dovrà circondare i campi di forze di sicurezza per garantirne il raccolto e la spedizione? Consapevole del potenziale problema, il governo del Pakistan, che sta cercando di vendere o affittare 400.000 ettari, offre una forza di sicurezza di 100.000 uomini per proteggere le terre e gli impianti degli investitori. Contro chi dovranno proteggersi? Contro i Pakistani affamati? O contro i contadini le cui terre sono state confiscate per permetterne la vendita su vasta scala?».

E ricorda come un ulteriore elemento inquietante degli investimenti in terreni coltivabili è rappresentato dal fatto che si stanno concentrando anche su paesi come il Brasile, l'Indonesia e la Repubblica Democratica del Congo, dove aumentare l'estensione dei campi spesso significa abbattere le foreste tropicali che oggi sequestrano grandi quantità di carbonio. Questo potrebbe significare un aumento delle emissioni globali di anidride carbonica e, quindi, un impatto negativo su quei cambiamenti che stanno mettendo a rischio la sicurezza alimentare mondiale.

Il governo Giapponese, l'International Food Policy Research Institute (IFPRI) e altri soggetti hanno suggerito l'introduzione di un codice di condotta per regolare questi accordi verso una forma rispettosa dei diritti di coloro che vivono nei paesi in cui le terre sono acquistate così come i diritti degli investitori. Sembra che sia la Banca Mondiale che la FAO che l'Unione Africana stiano preparando codici di questo tipo. )

Brown scrive: «La crescente insicurezza alimentare sta quindi introducendo una nuova dimensione nella geopolitica della scarsità, con la possibilità di spostarsi al di là dei confini nazionali nella competizione per l'acqua e per la terra. Molte acquisizioni si svolgono in paesi affamati e poveri, dove sottraggono la poca terra fertile agli abitanti. Il rischio è che crescano la fame e l'instabilità politica, portando ad un aumento del numero di stati collassati.

Nessun paese può scampare agli effetti della diminuzione globale delle scorte alimentari, neanche gli Stati Uniti, il granaio del mondo. Se, ad esempio, la Cina andasse a cercare sul mercato globale grandi quantità di cereali, come ha fatto da poco per la soia, guarderà necessariamente agli Stati Uniti, paese leader nell'esportazione di grano. Per i consumatori statunitensi, l'idea di dover competere per i raccolti di grano con i 1,3 miliardi di consumatori cinesi, il cui reddito continua a salire, è uno scenario da incubo.

In queste condizioni, gli Stati Uniti potrebbero pensare di mettere limiti alle esportazioni, come hanno fatto negli anni settanta con cerali e soia in seguito all'impennata dei prezzi sul mercato interno. Ma non è una  scelta che gli Stati Uniti si possono permettere di fare nei confronti della Cina che è creditrice verso gli Stati Uniti per oltre 1000 miliardi di dollari conseguenza del debito pubblico statunitense. La Cina è sovente il primo compratore alle aste mensili di Buoni del Tesoro con cui gli Stati Uniti finanziano il proprio deficit fiscale. In un certo senso, la Cina è diventata il banchiere degli Stati Uniti. Per quanto i prezzi possano continuare a salire, i consumatori statunitensi si troveranno ben presto, volenti o nolenti, a condividere il proprio grano con i consumatori cinesi».