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Quando il "rating" non convince...

di roberto bonuglia - 14/05/2010



Il rating di cui tanto si parla in questi giorni non è altro che «un metodo utilizzato per classificare sia i titoli obbligazionari che le imprese in base alla loro rischiosità». Esistono, infatti, delle agenzie specializzate nell’indicizzazione di titoli e aziende secondo tali criteri. Le più importanti sono la Standard&Poor's, la Moody’s e la Fitch Ratings. Queste tre agenzie, nonostante siano in pochi a saperlo, svolgono un ruolo strategico nei mercati internazionali globalizzati senza precedenti e di fondamentale importanza: distribuiscono pagelle, danno voti sulla solvibilità dei debiti sovrani, innalzano o declassano nazioni intere applicando ad esse una vera e propria “classificazione di qualità” secondo tre gradi di giudizio che loro stesse hanno ideato (A, B, o Junk bond).

Ma chi sono e da dove vengono queste tre sorelle che arbitrano i destini e le fortune di mezzo mondo? Prima di tutto è giusto ricordare che le tre agenzie non sono né enti morali né associazioni a scopo benefico, bensì «società private a scopo di lucro». Quella di James Moody, ad esempio,nacque nel 1909 come guida di oltre 200 compagnie ferroviarie americane: ne passò al setaccio i bilanci, ne studiò gli investimenti e diede loro un voto basato sull’affidabilità. Un baedeker utilissimo, dunque, imitato 7 anni dopo dalla Standard Company (che in seguito si fonderà con la Poor’s) e, poco più tardi, dalla Fitch. In America, dopo la crisi del ’29, il rating sulle obbligazioni divenne obbligatorio: da quel momento in poi, le banche poterono acquistare solo titoli certificati dalle tre agenzie. Per “le tre sorelle” fu l’inizio di un’ascesa che non si è più arrestata: da decenni, «chiunque voglia piazzare sul mercato un’obbligazione per autofinanziarsi (un’azienda, una banca, una compagnia di assicurazione, un fondo comune, uno Stato) deve cercare di strappare un voto positivo alle tre agenzie; senza quel voto, è sostanzialmente impossibile raccogliere denaro sul mercato».

Nell’applicazione dei criteri di rating, quindi, le agenzie possono produrre delle vere e proprie tempeste nei mercati nazionali ormai sempre più uniti dalla globalizzazione economica delle borse e dei loro operatori. Ed è successo proprio questo nei giorni scorsi quando è stata diffusa una vera e propria “graduatoria” dei paesi dell’eurozona che sono stati classificati in base al grado di rischiosità insito nei propri sistemi finanziari: la Grecia - declassata solo 15 minuti prima della chiusura delle Borse e fanalino di coda di questa classifica - era di poco staccata da altri tre paesi sull’orlo della crisi (Portogallo, Italia e Irlanda) a loro volta preceduti da Belgio e Spagna in piena impasse economica.

Per capire la rilevanza di tali agenzie può essere utile ricordare che solo la pubblicazione di tale classifica ha prodotto un vero e proprio dissesto finanziario che ha interessato non solo la povera Grecia, ma anche quei paesi che erano stati dichiarati solamente “a rischio” per il 2010. La nostra Piazza Affari, ad esempio, è crollata proprio lo scorso giovedì esponendosi - come succede sempre in questi casi -, alla speculazione finanziaria dei broker internazionali. Fin qui, date le regole della finanza mondiale, tutto nella norma se non fosse palese il conflitto di interesse che caratterizza proprio il mondo del rating e, in modo specifico, l’azione delle tre agenzie prima citate. Esse, infatti, pubblicano i rating ma, al contempo, svolgono attività di “banca di investimenti”. Ciò significa che è molto elevato “il rischio” (N.d.R) di un uso strumentale del rating che “potrebbe” essere strumentalizzato nell’interesse della banca ovvero dei propri clienti – soprattutto quelli che detengono nell’istituto di credito ingenti patrimoni - per attività speculative in Borsa, o per l’acquisizione di asset a prezzi di realizzo.

Un declassamento del rating di aziende o soggetti pubblici particolarmente indebitati, ha dunque la conseguenza a breve termine di provocare un rialzo degli interessi applicati ai prestiti in corso e, di fatto, un aumento – anch’esso a breve termine - degli oneri finanziari. Di fronte ad una tale situazione il debitore potrebbe cedere beni immobili e mobili di sua proprietà a prezzi di realizzo allo scopo di evitare un peggioramento del rating. E chi se non le stesse agenzie di rating sono di solito pronte a rilevare ed acquistare tali beni?

Ecco che il cerchio si chiude e si rivela «il grande potere concentrato nelle mani di pochi» che in ogni momento, con le proprie decisioni, possono condizionare le borse e, dunque, le sorti di intere economie nazionali. Va poi considerato che le tre agenzie sono tutte americane e private mentre gli “effetti” della loro azione si ripercuotono quasi sempre in Europa e indistintamente sia nei soggetti pubblici che in quelli privati operanti nei nostri mercati. Facile, quindi, pensare che dietro la loro azione si celi una sorta di speculazione americana sui paesi dell’eurozona, colpiti ogni qualvolta “alzino la testa” e/o rendano le proprie economie potenzialmente “indipendenti”: non è forse un caso che Grecia, Spagna, Portogallo, Irlanda avessero vissuto solo qualche anno fa, momenti di grande espansione economica? Come è possibile che dopo un lasso così breve di tempo si trovino agli ultimi posti delle classifiche di rating? Come mai alle tre sorelle, così attente alle contraddizioni insite nelle economie europee sfuggì la rischiosità dei mutui subprime, “splendida invenzione” tutta americana e una delle cause principali del crac del 2008? E’ troppo malizioso pensare che la Standard&Poor's, la Moody’s e la Fitch Ratings in realtà orientino la propria azione per aiutare Wall Street a scommettere al ribasso contro il ventre molle dell’Unione Europea e contro l’euro?

E’ una domanda che in molti si sono posti dopo l’ultima crisi tanto che il francese Michel Barnier - Commissario europeo alle finanze - ha aggiunto che dovrebbe esistere anche una grande agenzia di rating europea e che non sarebbe sbagliato, in linea di massima, pensarla come un soggetto di natura “pubblica” piuttosto che privata. Barnier questa settimana visiterà Washington e New York per discutere proprio di questo con il Ministro del tesoro americano Timothy Geithner, il Governatore della Fed Ben Bernanke, il Presidente della Goldman Sachs Lloyd Blankfein e altri “addetti ai lavori”. Vedremo cosa succederà e quali saranno gli esiti di questi incontri. Per il momento c’è solo da leggere con attenzione e con una certa preoccupazione le notizie riportate nelle pagine finanziarie dei nostri quotidiani.