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Sicuri che a Cannes siano comunisti?

di Maurizio Cabona - 21/05/2010

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Chi, nel secolo e mezzo d'Unità italiana, ne leggesse la storia partendo solo dall'autobiografia della nazione firmata colletivamente da Cinecittà, troverebbe paradossale che per metà di essa viga una costituzione il cui incipit è esplicito: "L'Italia è una repubblica fondata sul lavoro". Qui, a giudicare da film e film-tv, lavorano infatti solo parroci e puttane, carabinieri e poliziotti; in qualche caso, anche giornalisti e ladri.
Nemmeno il vecchio neorealismo, con le sue pretese sociali, ha seriamente rappresentato i campi e le fabbriche (negli uffici, allora, andavano solo i privilegiati). Si spiega anche così il titolo ambizioso - La nostra vita - di quest'ultimo film di Daniele Luchetti in concorso ieri qui al Festival di Cannes e da oggi nelle sale italiane. Dopodomani forse la Palma d'oro non lo premierà, ma almeno nelle ultime ore anche sulla Croisette s'è diluita la cappa di discredito derivato all'Italia non tanto dal documentario Draquila di Sabina Guzzanti, quanto da accuse e insulti al Festival stesso che l'ha accolto. In proporzione a ciò che di critico e ipercritico s'è visto negli ultimi giorni sugli schermi di Cannes verso i politici americani, Washington avrebbe dovuto ritirare l'ambasciatore a Parigi. Gli osservatori francesi si stanno forse convincendo che la pervicacia nel fare brutte figure internazionali da parte di esponenti del nostro governo sia un po' il prezzo che la maggioranza paga per compattare, di rimbalzo, il consenso interno. Infatti gli estremisti dei due fronti, pro e contro Berlusconi, si sostengono reciprocamente: perché entrambi non sopravvivrebbero al silenzio. Ma dove trovarlo del resto in un paese che applaude ai funerali?
Torniamo però alle cose serie. Come le Expo, i campionati del mondo e le Olimpiadi, un grosso Festival non è - non può esserlo - una manifestazione neutrale. Ognuna di queste costose operazioni mostra di che cosa è capace chi le organizza. Partecipare assicura prestigio (soft-power, si dice oggi). Un tempo nei grossi Festival si vinceva in trasferta e si perdeva in casa: nel senso che, per esempio, un film italiano era premiato al Festival di Cannes e uno francese alla Mostra di Venezia; e poi uno americano o uno russo vincevano al Festival di Berlino. Così s'imponeva all'attenzione del pubblico straniero un prodotto che altrimenti all'estero sarebbe stato ignorato. E in questo clima si sono sviluppate le coproduzioni italo-francesi e franco-italiane, rimaste famose nel mondo per gran parte dell'età repubblicana, come La dolce vita, Il sorpasso, Il gattopardo… Poi i paesi europei - formalmente uniti dall'economia e poi anche dalla moneta - si sono sempre più culturalmente allontanati. Quasi nessuno a Roma guarda più al cinema di Parigi e viceversa: il cinema francese in Italia non arriva al due per cento degli incassi; il cinema italiano in Francia incassa meno di quello cinese e di quello iraniano. Tutti - a Roma come a Parigi, a Berlino e Londra - guardano invece a Hollywood. Prima delle guerre neocoloniali cominciate nel 1991 e tuttora in corso, si poteva pensare che ciò fosse solo un male. Ma oggi solo Hollywood ha saputo surrogare col cinema all'abdicazione degli editori dall'informazione. Nei grossi Festival non tutto è contro-informazione, ma il fatto che ci siano in concorso a Cannes film come quello di ieri - Fair Game ("Gioco leale") di Doug Liman, con Sean Penn e Naomi Watts - pone un rimedio seppur tardivo alle menzogne di Stato. E non su trascurabili dettagli: il film di Liman - regista della serie spionistica Bourne - racconta un fatto che la stampa italiana riferì senza risalto: un'agente della Cia e il marito, già ambasciatore degli Stati Uniti, furono messi in pericolo, angariati e anche diffamati dalla Casa Bianca per non essersi prestati alla frode delle cosiddette "armi di distruzione di massa" dell'Iraq, pretesto della sua invasione. E non è acqua passata. E non è affare altrui: per via di presunte grosse acquisizioni irachene di uranio dal Niger, la frode coinvolse anche l'Italia.
All'ex ambasciatore americano che rifiutò di avallare la menzogna di Stato ci fu una giornalista che in un locale pubblico gridò: "Comunista"! Chi ricorda il clima di allora anche in Italia (l'isterismo della Fallaci che trovava enorme spazio sul Corriere della Sera, la crociata dell'estremismo cattolico che veniva sdoganato come utile alla diffamazione dell'Islam e all'arabofobia…), non deve stupirsi di quello di oggi, che ne è solo una variante. "Comunista" per molti è la Guzzanti; "comunista" per molti è il Festival di Cannes; "comunista" è perfino chi non si unisce a chi lo grida. Il buffo è a dare del comunista agli altri sono spesso giornalisti e politici che un tempo davano agli altri del "fascista".
Il fatto è che certe cosiddette destre (non solo italiane) sono state e sono incapaci di concepire un loro cinema, perciò vogliono censurare il cinema degli altri e i Festival che li ospitano. E ciò deriva anche da un dato spesso trascurato: che certe destre non hanno idee: hanno convinzioni. E le convinzioni non si discutono. Le idee sì. I grossi Festival hanno ospitato e ospitano film discutibili. Nel migliore dei casi, lo fanno appunto perché se ne discuta; nel peggiore, lo fanno per ostentare una posizione.
Nel 2001 Nanni Moretti presentò a Cannes La stanza del figlio, uno dei suoi lavori meno interessanti, ma ebbe la Palma d'oro negatagli in precedenza. La ebbe per meriti pregressi, ma anche perché gli italiani, una settimana prima, avevano riportato alla presidenza del Consiglio Silvio Berlusconi. Quella vittoria di Moretti era più contro che per l'Italia; era un dispetto; era un altolà. Nel 2006 Nanni Moretti presentò a Cannes Il caimano; però stavolta Berlusconi perse le elezioni due settimane prima: e Moretti non prese neppure la coppa del nonno… Non si riduca comunque tutto al fatto che Berlusconi è qui visto come "di destra" e le giurie dei Festival (non solo di Cannes, dunque) si considerano "a sinistra". Infatti Silvio Berlusconi è visto dagli ambienti del cinema - i quali includono ormai anche l'ex vice presidente americano Al Gore - come l'ex imprenditore televisivo che in Italia e in Spagna ha portato, e tentato d'esportare in Francia, un modello di televisione che ha spinto il cinema sulla stessa via e in un rango subordinato.
Ovunque, nell'ostilità per il presidente del Consiglio italiano c'è, con quello politico, un più denso movente socio-personale, quasi inestirpabile come lo sono le allergie. Perciò le ripetute affermazioni di Berlusconi sono state lette non come vittorie dell'anti-intellettualismo (come nel caso di De Gaulle e Nixon), ma di scarsa sensibilità per la cultura. Del resto, da imprenditore tiene conto dei gusti dei consumatori, in genere poco raffinati; e da politico tiene conto, come Bossi, di un elettorato che l'ha adottato più per i difetti che per i meriti. E ha fatto di necessità virtù. Così, quasi inconsapevolmente, la sua area politica avrebbe corrisposto alle intenzioni di ideologi neocon, che volevano la destra italiana come sezione del Partito repubblicano e la sinistra italiana come sezione del Partito democratico. Quelli degli Stati Uniti.