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Una zootecnia sostenibile

di Simona Capogna - 21/05/2010

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Il modello produttivo industriale ha portato ad una forte riduzione delle razze nel tentativo di selezionare geneticamente le “migliori”. Ma si sottovalutano le complicazioni sanitarie, etiche e ambientali.

Vas, che da 5 anni dedica la Campagna Mangiasano alla salvaguardia e valorizzazione della biodiversità, per il 2010 (International Year of Biodiversity) tratterà il tema della zootecnia sostenibile, perché il nesso tra allevamento e biodiversità è fortissimo, ma spesso sottovalutato.
 
Il modello produttivo industriale, che si è imposto nell’ultimo secolo anche al settore zootecnico, ha portato ad una riduzione significativa delle razze, nel tentativo di selezionare geneticamente le “migliori” (che permettono, cioè, di ottenere profitti nel breve periodo): solo nell’ultimo secolo sono scomparse circa 1000 razze e altre 2.000 sono in pericolo di estinzione. La perdita di biodiversità animale è, per certi versi, più grave di quella vegetale perché il pool genetico a disposizione è più ristretto e perché rimangono pochi esemplari selvatici da utilizzare per i programmi di conservazione, necessari per rispondere ai cambiamenti climatici, ai disastri naturali e ai problemi di sovranità alimentare di molti popoli del Sud del Mondo.
 
Il problema purtroppo è molto esteso perché riguarda non solamente i grandi “capannoni” che allevano in batteria migliaia di capi, ma anche le aie e le piccole stalle che ospitano pochi animali per autoconsumo.
Inoltre, si sta facendo strada l’idea che sia possibile utilizzare l’ingegneria genetica per “migliorare” ulteriormente le caratteristiche animali (mentre si sottovalutano le complicazioni sanitarie, etiche, ambientali che ne deriverebbero e le conseguenze socio-economiche della privatizzazione del pool genetico animale). D’altra parte, la zootecnia rappresenta già un “cavallo di Troia” per l’ingresso delle agro-biotecnologie nella catena alimentare visto che l’85% dei mangimi europei contiene colture transgeniche (basta guardare sulle etichette dei mangimi acquistati nei consorzi e prestare attenzione agli asterischi che accompagnano mais e soia, per scoprire che nella maggior parte dei casi si tratta di prodotti “geneticamente modificati”).
 
Il quadro sembrerebbe a tinte fosche, se non si guardasse a tutte quelle realtà che lavorano da anni sul territorio, recuperando animali autoctoni, rispettando il loro benessere e alimentandoli con prodotti locali e Ogm-free. Queste aziende, oltre ad offrire dei prodotti di qualità, contribuiscono direttamente a sradicare le cause della perdita di biodiversità, ripristinando degli ecosistemi in equilibrio e mantenendone l’integrità.
 
In qualche modo esse mettono in pratica ciò che è stato recentemente ribadito da varie associazioni internazionali e da Vas, nella raccomandazione trasmessa alla Conferenza delle parti della Convenzione della Biodiversità (che si terrà a Nagoya, l’ottobre prossimo): è necessario comprendere i motivi che conducono alla distruzione della biodiversità e agire in modo responsabile per la garantire la sua salvaguardia, con il contributo di tutti i soggetti istituzionali, sociali ed economici.