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Se nessuno controlla lo stato delle dighe

di Frasca Polara - 28/05/2010

http://www.valledinon.tn.it/images/diga%20di%20santa%20giustina%202.JPG
 
Ha un risvolto poco noto, ma comunque preoccupante, il disastroso terremoto dell’Aquila. Un risvolto che ha segnato una sorta di campanello di allarme: lo stato delle 541 dighe italiane e specie di quelle abruzzesi. Un risvolto che ha costretto tutti gli organismi di sorveglianza (dalla Commissione grandi rischi all’Enel produzione, dalla Direzione generale dighe all’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia) ad effettuare un monitoraggio, ancora in corso, sullo stato degli sbarramenti italiani. Perché parliamo di risvolto del terremoto abruzzese? Perché il 14 aprile dell’anno scorso, appena sei giorni dopo la disastrosa scossa che ha distrutto l’Aquila, una scossa di magnitudo 4,9 era stata registrata con epicentro prossimo alle tre dighe collegate al grande lago artificiale di Campotosto, il secondo più grande invaso d’Europa. Ora, è vero che già in conseguenza delle prime scosse in città, i tecnici dell’Enel avevano fatto defluire dalla diga molte migliaia di metri cubi d’acqua per diminuirne la portata .
Ed è vero anche che, stando ai dati ufficiali, la diga di Campotosto è stata realizzata per resistere ad un terremoto di magnitudo 6. o addirittura 7, della scala Richter. Ma il presidente vicario della Commissione grandi rischi, Franco Barberi (che non è noto come un allarmista), ha sottolineato come «non possiamo sapere ciò che potrebbe accadere qualora una più forte scossa attivasse gravemente la faglia e questa impattasse a sua volta la diga». Ecco allora, anzitutto, la necessità di un monitoraggio sullo stato del calcestruzzo della megadiga, "vecchia’ di settant’anni. Anche qui: vero è che la natura alcalina del calcestruzzo preserva dalla corrosione i ferri dell’armatura, ma le dighe operano in ambiente misto (acqua da un lato, aria dall’altro) che può intaccare e modificare proprio l’alcalinità del calcestruzzo. Da qui, a catena, l’eventualità della corrosione dell’acciaio che, aumentando anche di tre volte il suo volume, può sollecitare la struttura con conseguenti lesioni. Ma ecco anche la necessità di fronteggiare eventuali, improvvisi pericoli sfruttando le nuove tecnologie (sms, mail, messaggi radiotelevisivi) per un’allerta veloce e tempestiva capace di salvaguardare vite umane. Il governo è stato investito di questi problemi da più parti ma, per ottenere una insufficiente risposta ci sono voluti tredici mesi, sino all’altro ieri, quando il ministro per i rapporti con il Parlamento Elio Vito (e perché non, invece, uno più competente della delicata materia?) ha trasmesso alla Camera un rapporto dal quale emerge un primo dato molto limitato: dopo il terremoto dell’Aquila è stato avviato, direttamente dalla Direzione generale dighe (che dipende dal ministero per le Infrastrutture) e a supporto di non precisate "azioni di protezione civile", un programma di monitoraggio idrologico e idraulico finalizzato, tra l’altro, alla conoscenza degli afflussi d’acqua ai serbatoi e all’entità dei rilasci effettuati dagli sbarramenti. Questo primo intervento ha coinvolto 425 dighe su 541, tra cui le tre sull’invaso di Campotosto. Perché solo questo tipo di monitoraggio, che però non riguarda la struttura fisica delle dighe? Qui una sottile distinzione: perché per i più grandi invasi (potenzialmente i più pericolosi) sono stati o verranno effettuati controlli ad hoc. Come per le dighe abruzzesi: «Accertata la mancanza di danni significativi alle strutture», comunica Vito. E tuttavia da due riunioni tecniche di tutti gli organismi coinvolti nei controlli «è emersa la necessità di valutare con particolare attenzione gli aspetti geologici relativi al bacino di Campotosto». Non solo, ma Eucentre (fondazione mista Protezione-Università di Pavia-Istituto di geofisica) è stata incaricata di realizzare una simulazione dell’impatto che un sisma rilevante potrebbe avere su una delle tre dighe di Campotosto, quella di Rio Fucino, che merita una particolare attenzione. Come dire: il più è ancora da fare, anche in Abruzzo. Sui sistemi di allerta, sollecitati in particolare dai radicali, nemmeno una parola del ministro Vito.