S’immagini una seriosa conferenza su che cosa l’uomo considera eccelso. Sgrana i concetti l’oratore. «La giustizia e la temperanza fanno la felicità, insegnava Socrate nel Gorgia platonico»: boato di risate in sala, un signore anziano nelle ultime file piange. «Non si possono servire due padroni contemporanemente: o stai con Dio o stai con Mammona, dice San Matteo nel Vangelo». Risate, cachinni, pernacchie, lanci di stagnole appallottolate e di cycles. Una signora coi capelli grigi scuote la testa e se ne va. Entra un terrorista, musulmano ça va sans dire. Chiede ai molti ragazzi delle superiori spalmati sulle poltroncine spelacchiate chi è Mammona: a saperlo si avrà la vita salva. Silenzio. Ahmed, si chiama così il sanguinario barbuto che prima di fare il jihad lavorava per la Cia, vomita fuoco col suo Kalashnikov e ammazza tutti.
Intanto era una conferenza noiosa e la felicità, lo sanno tutti, la fanno i soldi. Oggi però le cose assodate cambiano così rapidamente che in un amen non sono più le stesse, anche se le parole per dirle restano quelle di una volta. Pure questo lo sanno tutti, forse. Prendiamo la ricchezza. E’ nata una categoria di super ricchi che neanche ci s’immagina, sideralmente lontani, iperbolici, fonte di stupore ormai soltanto matematico. La parola ai numeri: Lee Raymond, ex presidente del consiglio di amministrazione della Exxon Mobil ha ricevuto un pacchetto pensione, assegno mensile, stock options, autista, jet aziendale, «argent de poche» eccetera, di circa 400 milioni di dollari. Niente male anche per un’azienda che lo scorso anno ha sbriciolato ogni record storico guadagnando 36 miliardi e il prossimo anno, con la quotazione del greggio che si arrampica al passo di Messner sull’asse delle ordinate dei grafici, guadagnerà ancora di più. Richard Fairbank super manager di svariate banche, nel 2005 ha dovuto accontentarsi di 280 milioni di emolumenti.
Il povero Omid Koresani, direttore delle vendite di Google, ha da poco esercitato «Stock Options» per 288 milioni. Il giornalista trotskista americano David Walsh (ripreso in Italia dal «proscritto» dei «Frei Korps» ultracattolici Maurizio Blondet sul suo sito) aggiunge altre cifre: in America i ricchi più sfigati, quelli con un patrimonio di 1 milione, erano nel 2004 sette milioni e mezzo, in un paese di 300 milioni di persone. Poi si va su, fino alle vette per cui la società finanziaria Merrill Lynch ha inventato un acronimo: UHNW (Ultra High Net Worth), ricchezza netta ultra elevata, da un minimo di 5 milioni fino ai Bill Gates e John Walton, il signor Wal Mart. Nel 1957 la rivista Fortune contava in tutti gli States una cinquantina di persone che valessero 50 milioni di dollari. Il più ricco era J. Paul Getty unico sul picco dorato tra i 500 milioni e il miliardo. L’equivalente di quei 50 milioni, circa 350 milioni adesso, non basterebbe neppure ad arrivare vicino ai 400 ricconi della classifica di «Forbes» del 2005, che parte dai 900 milioni. Getty galleggerebbe miseramente tra il 31mo e il 42mo posto. L’uomo più danaroso nell’Inghilterra di Blair è Lakshmi Mittal, il magnate indiano dell’acciaio, con un patrimonio di oltre 22 miliardi. In India Lakshmi è popolarmente la dea della ricchezza: tout se tient, direbbe l’atrologa. Mezzo secolo fa i signori del dollaro si chiamavano Rockefeller, Harriman, Mellon, duPont, Astor, Withney, Ford e il quartetto della GM: Alfred P. Sloan Jr., Charles F. Kettering, John L. Pratt and Charles S. Mott. Spesso eccentrici, quasi esoterici, gente contaminata dalla radiazione disumanizzante del denaro che talvolta sapeva estrarre un brandello d’anima come il coniglio dal cilindro. Un mondo abbacinante e crudele che puzzava di cuoio e avana, magistralmente raccontato da Geminello Alvi nel «Secolo americano». I paperoni di oggi sono il prodotto di una mutazione genetica: la maggior parte dei 400 semidei di Forbes è diventata opulenta grazie a «investimenti», «hedge funds», «compravendita di aziende e di immobili».
La metafisica figura italiana del «cummenda» che si faceva il Ferrarino ma con la sua fabbrichetta dava lavoro a tanti poveri disgraziati è remota, uno spezzone di cinema muto. Paul Allen, co-fondatore della Microsoft si è comprato un «gigayacht» da 250 milioni, 126 metri, sette ponti, due piattorme di atterraggio per gli elicotteri, piscina, campo da basket, cinema, auditorium per 250 e uno studio di registrazione. Nella gara a chi ha il conto in banca più lungo, Larry Ellison, amministratore delegato della Oracle, altro gigante del software, si è fatto costruire uno yacht da 137 metri: 5 piani, 82 camere, una enorme cantina, una dozzina di tender più grossi della barca di D’Alema, un generatore che potrebbe tenere accesa Vercelli o Viterbo. Il tutto per 377 milioni. David Walsh prova a dire una cosa di sinistra: «Questo non è semplicemente osceno o ingiusto, è socialmente irrazionale e immensamente distruttivo. Come è possibile fare crescere una società se il principio che la guida è l’abilità di un’élite oligarchica di accumulare sempre più ricchezze personali». Nella lotteria del chi l’aveva già detto (da Gesù a Engels a Guénon, senza dimenticare zia Maria), Georg Simmel merita la palma di chi l’ha cantata più chiara. Nel 1900 la sua «Filosofia del denaro» illuminava sinistramente il passaggio dalla qualità alla quantità, lo squartamento dell’individuo sotto il peso del numero: l’era del sottovivere. Michael Silverstein, ex dirigente del Boston Consulting Group autore insieme all’ex collega Neil Fiske, di «Trading Up: the New American Luxury», ha seguito il filo rosso di questo nuovo mondo che oscilla tra senso di onnipotenza e nihilismo disperato. La ricchezza diventa sete inestinguibile nel paese delle fontane e anche la classe media è accalappiata dai simboli del lusso che alla fine sono soltanto nomi e non cose, medievali abracadabra. Il mondo sembra correre a grandi passi verso il pianeta dei naufraghi di Serge Latouche con una élite di Sardanàpali fuori di melone nell’iperuranio del potere e sotto, fuori delle mura, un enorme mondo tribale di underdogs, Untermenschen, Lumpenproletariat. Chiamala, se vuoi, globalizzazione.
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