Darwin sotto tiro
di Marco Mazzeo - 09/06/2010
Preceduto da inifinite polemiche, il libro di Fodor e Palmarini uscito da Feltrinelli con il titolo «L'errore di Darwin» punta alla riformulazione dell'intero paradigma evoluzionista. Un obiettivo
ambizioso la cui pecca non è quella di essere troppo radicale, ma di esserlo troppo poco.
Qualche mese dopo l'edizione inglese, è nelle librerie italiane l'ultima fatica di due importanti scienziati cognitivi, Jerry Fodor e Massimo Piattelli Palmarini, il cui titolo parla chiaro: Gli errori di Darwin, (Feltrinelli, pp. 272, euro 25). È un libro connotato da un forte intento polemico che, senza reticenze, prende di petto uno dei cardini del pensiero occidentale contemporaneo, almeno nella sua versiona laica e scientifica. Di sicuro i due autori un primo risultato l'hanno raggiunto, perché in poco tempo il libro ha suscitato una serie di polemiche particolarmente accese, avviate su riviste e giornali di lingua inglese - da «Nature» al «Boston Review» - poi anche sulla stampa italiana. Come mai tanto clamore? Il fatto è che Fodor e Palmarini hanno toccato due nervi scoperti. Il primo è di ordine politico: negli Stati Uniti (ma non solo, si pensi alla Moratti), la lotta all'evoluzionismo è
uno dei capisaldi dell'integralismo religioso dei «teo-con», la destra americana conservatrice. Sarà un caso, ma anche in Italia la polarizzazione dei giudizi sul testo sembra aver seguito, almeno finora, un andamento simile.
Il «Giornale» (3 aprile), «il Foglio» (dal 25 marzo si contano una decina di interventi tra articoli e interviste) e l'«Avvenire» (22 aprile) hanno pubblicato recensioni positive, mentre su
«La Repubblica» (29 marzo) e il «Corriere della Sera» (23 marzo) sono apparsi commenti più critici.
Il secondo aspetto della questione è più complesso e il nervo scoperto riguarda uno degli assi portanti della ricerca scientifica e filosofica contemporanea: l'idea di Darwin secondo cui la fortuna delle specie vegetali e animali dipende dal loro grado di adattamento all'ambiente.
Ma facciamo un passo indietro e proviamo a guardare la situazione in una prospettiva decentrata.
Due schieramenti in campo. Negli ultimi decenni il dibattito evoluzionista si è organizzato in due
schieramenti. Uno ha insistito sull'importanza della genetica e dei fattori ereditari; l'altro ha messo in rilievo il ruolo dei fattori ambientali nel far sì che una specie resista alla selezione e un'altra
no. In un libro di diversi anni fa, ma che si ricorda anche grazie al suo titolo emblematico, Ripensare Darwin (Einaudi, 1999), il biologo Niles Eldredge ha definito la prima posizione «ultradarwinista» e la seconda «naturalista» (più di recente la contrapposizione è stata
riproposta da K. Sterelny, La sopravvivenza del più adatto. Dawkins contro Gould, Cortina, 2004). Gli ultradarwinisti concepiscono la selezione naturale come una disposizione attiva, cioè come una
competizione per il successo riproduttivo; i naturalisti invece la intendono in modo più debole come filtro passivo, un insieme di fattori ambientali e climatici che fa selezione sulle popolazioni degli
organismi viventi. Fodor e Palmarini hanno il merito di scompaginare le carte in tavola e
proporre un'opzione alternativa: non una terza via socialdemocratica o compromissoria ma una proposta che punta in alto, ossia nientemeno che alla riformulazione dell'intero paradigma evoluzionista. L'attacco è doppio: il fuoco di fila prima punta su Darwin, poi si sposta sui suoi
seguaci più zelanti. Darwin avrebbe compiuto un errore di fondo poiché avrebbe confuso la selezione naturale con la selezione artificiale. Cosa c'è di male nello studiare animali in allevamento per vedere come è strutturata la logica della loro selezione allo stato brado? Quel che
non funziona, sostengono i due autori, è che la selezione artificiale contiene in sé una finalità (le preferenze dell'allevatore che, ad esempio, sceglie di far riprodurre galline che gli garantiscono dalle uova grandi piuttosto che galline che producono uova microscopiche), mentre la selezione naturale è tale, cioè naturale, perché è non teleologica, ossia è priva di direzione. Il problema non è marginale: se questa estensione analogica non è lecita, siamo lontani dall'aver compreso come la selezione naturale agisca sugli organismi. Premiando un tratto, ad esempio la grandezza delle uova, l'allevatore individua la proprietà specifica dell'animale che è bene mantenere a discapito delle
altre (il colore delle piume, la lunghezza delle zampe, ecc.). L'allevatore ha un fine e in base ad esso focalizza la scelta su un tratto specifico dell'animale. Ed ecco il punto: ma se la natura è un
processo non finalizzato come può avvenire la selezione? Come può scomporre un animale nei suoi tratti costitutivi e preferirne uno
piuttosto che un altro? La natura non è un soggetto individuale e non ha una mente: non sceglie e non scompone nulla, a meno che non si creda che dietro di essa si nasconda una qualche divinità. Secondo Fodor e Piattelli Palmarini, rimarrebbe solo una possibilità: la selezione naturale può essere un principio esplicativo se può essere descritta meccanicamente come una legge scientifica vera e propria che consenta di fare previsioni. Ma questo è esattamente quel che l'evoluzionismo non è in grado fare. Di qui l'affondo: la selezione naturale non è un processo basato su una mente e non è formulabile nei termini predittivi di una legge scientifica.
Ma allora che roba è? Il punto è indubbiamente nodale. Purtroppo è proprio sul più bello che
il tessuto argomentativo risulta scomposto. A questo punto, infatti, il filo conduttore del libro oscilla. A volte perora una tesi fortissima che non ammette appello: la selezione naturale sarebbe un processo «banale», «vuoto», un «gioco truccato» e teoricamente «insostenibile».
In altre occasioni, la direzione critica assume una piega sfumata e più conciliante: quel che si contesta non è la validità tout court del principio, ma che questo possa costituire da solo un fondamento sufficientemente solido per l'evoluzionismo. Il problema sarebbe diverso: «la selezione non è tutto» perché - come afferma Piattelli Palmarini in un'intervista recente - «crea sottospecie ma non specie» (La Repubblica, 29 marzo 2010). L'oscillazione è svelata nelle pagine conclusive quando si ammette che il titolo del libro è quel che in gergo giornalistico si chiama uno «strillo»: spararla forte per richiamare l'attenzione del lettore, anche se il testo contiene in realtà una
versione più tenue della storia. Diversi commentatori (ad esempio, Mary Midgley su The Guardian del 6 febbraio o Cavalli Sforza sulla Repubblica del 6 aprile) hanno ribadito che sarebbe ingeneroso rimproverare Darwin di non essere aggiornato: sarebbe come pensare di prendere in castagna Aristotele perché definendo gli esseri umani «animali politici» non ha parlato dell'attuale crisi
economica della Grecia. Quando il libro indugia in questo tipo di operazione perde mordente, spesso ripete idee note da tempo (ad esempio, la critica all'idea di Darwin secondo cui i processi evolutivi devono essere graduali risale almeno alla fine degli anni Settanta e a Stephen Jay Gould). Nel contempo, non c'è dubbio che il lavoro di Fodor e Piattelli Palmarini sia prezioso.
Facciamola finita col conformismo. Negli ultimi decenni, non tanto nelle scienze biologiche, quanto in quelle della mente e del linguaggio si è innescata una sorta di competizione nel professarsi darwinisti che spesso è andata avanti per eccessi di zelo. La cosiddetta «psicologia evoluzionistica» ha applicato la logica di selezione e adattamento ai processi culturali e storici in modo a volte parossistico (l'idea disneyana dei «memi» cara a Dawkins e Dennett) se non proprio caricaturale (la convinzione di Steven Pinker, altro autore bersaglio del libro, secondo la quale il tratto repubblicano/democratico avrebbe un qualche fondamento genetico). Farla finita con il conformismo tipico dell'adepto (roba che sarebbe meglio lasciare a Scientology) e aprire a tradizioni della ricerca biologica spesso ritenute inconciliabili con l'evoluzionismo (ad esempio la
biologia che insiste sui vincoli dimensionali e morfologici che la materia impone agli organismi viventi) per il materialismo odierno non può che essere un segno di vitalità.
A parte alcune imprecisioni, la proposta epistemologica di Fodor e Palmarini, se ha una pecca, è di essere non troppo ma troppo poco radicale. Il libro, infatti, non si limita a definire la selezione
naturale un concetto vago ma facendo questo lo accosta in modo piuttosto
sprezzante a un altro concetto, quello di «storia naturale» (le ricostruzioni a posteriori su cui si basano, ad esempio, i più importanti musei naturalistici del mondo), che proprio perché storico
sarebbe non scientifico e poco interessante. Affermare che una teoria della storia non è affatto una teoria perché non è in grado di procedere per leggi universali, come invece fa la fisica, sembra affrettato e vagamente positivista. L'idea, paventata dai due autori, che ci sia un unico modo di fare scienza è questa sì - per utilizzare una delle espressioni elargite dal libro a Darwin ma anche a Marx - «roba dell'ottocento».