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“The road”, da un romanzo di Cormac McCarthy

di Claudio Asciuti - 11/06/2010

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Abbiamo già avuto modo di parlare del grande Cormac McCarthy, scrittore per palati raffinati e cuore saldo, classe 1933, considerato uno dei più grandi autori americani viventi; che nascosto nella sua casa di El Paso, Texas, continua da anni a inquietare la coscienza del suo paese. L’opportunità era venuta con l’edizione italiana del film Non è un paese per vecchi (2005), sceneggiato e diretto dai fratelli Ethan e Joel Cohen, vincitore di quattro Oscar e tratto da un suo romanzo noir che metteva in scena il “lato scuro” della provincia americana, con i suoi corrieri della droga, i suoi piccoli spacciatori e la gente comune che finisce in mezzo ai loro traffici.
Con The road (2009), diretto da John Phillcoat e sceneggiato da John Penhall, (con la musica eccezionale di Nick Cave) su un romanzo originale di McCarthy del 2006, La strada (Einaudi, 2007) siamo di fronte ad una ulteriore deviazione dall’abituale genere; ci avviciniamo ai territori della fantascienza colta, della fantapolitica, della critica alla società americana effettuata quando la società americana è scomparsa e rimangono solo gli individui singoli, in cerca di alleanze e di comunità. Il romanzo è un’epopea, il resoconto del viaggio (uno dei miti fondatori della cultura europea, prima che americana), che padre e figlio affrontano verso il mare. Una catastrofe, di cui tutto si ignora, ha sconvolto gli States e presumibilmente il mondo intero, e la civiltà, fragile sotto la sua ferrea organizzazione, è collassata su sé stessa. Padre e figlio sono vissuti per anni in una casa isolata assieme alla madre, sopravvivendo il più possibile, fino a quando la donna, non resistendo più alla pressione, ha deciso di cercare la morte sola, allontanandosi. Così i due sono partiti verso la costa, verso il mare, verso condizioni di vita migliori, in una sorta di Anabasi moderna, affrontando una serie di prove che segnano il passaggio dalla vita “protetta” del figlio a quella “sulla strada”, ma senza la perdita dell’innocenza che rimane il suo carattere distintivo, al di là del cinismo del padre: una sorta di tradizionale “rito di passaggio” all’età adulta, segnato da una sorta di epica greca: quando il padre dà al figlio la consegna “noi portiamo il fuoco”, è facile intravvedere in queste parole l’idea dell’eroe civilizzatore, del Prometeo che ruba il fuoco agli Dèi donandolo agli uomi e inizia la civiltà.
Il viaggio dei due passa attraverso immagini di mari di cenere, di solitudine, di incontri pericolosi,di nevi e di freddo; l’idea di McCarthy, che è tipica della fantascienza del “dopocatastrofe” (pensiamo soltanto a romanzi come Morte dell’erba di John Christopher, o L’ultima spiaggia di Nevil Shute) ma molto più radicale di buona parte di essa, è che nel mondo ridotto in polvere, la regressione spinga l’uomo a far riemergere i suoi più o meno sopiti istinti ancestrali, fino a quelli di predatore, a quelli cannibalici, qui necessitati dal fatto che animali e campi sono spariti, e al di di là di quel che si può ritrovare in termini di scatolette e di succhi di frutta, l’essere umano diventa commestibile. Dove non c’è più legge o solidarietà, e il diritto del più forte (sancito dal numero e dalle armi) impera, all’individuo singolo non resta che trasformarsi in preda sempre in stato di allerta. E’ la classica denuncia della violenza di McCarthy, ma nello stesso la sua fascinazione; e la morte del padre, una volta raggiunta la costa, che potrebbe preludere alla fine del bambino, si conclude con la sua adozione da parte di un padre e una madre con due figli. Ma comunque con poca speranza: basta leggere l’explicit del romanzo: Una volta nei torrenti di montagna c’erano i salmerini. (…) Sul dorso avevano dei disegni a vermicelli che erano mappe del mondo in divenire. Mappe e labirinti. Di una cosa che non si poteva rimettere a posto. Che non si poteva riaggiustare. Nelle forre dove vivevano ogni cosa era più antica dell’uomo, e vibrava di mistero. (pag. 217-218)    
Si racconta che McCarthy scrisse La strada dopo averne venduto i diritti, forse con l’idea che il testo fosse facilmente sceneggiabile, e se in effetti lo confrontiamo con gli altri lavori, la sua stringatezza e la sua semplicità espressiva sono ragguardevoli: pochissimo dialogato, narratore in terza persona, descrizioni scarne e secche di eventi e di paesaggi, che acquiscono spessore (e realtà) grazie alla maestria dello scrittore.
La sceneggiatura e la regia non hanno fatto altro che trascrivere con una certa abilità il testo, bilanciando la serie di (scarsi) dialoghi e primi piani e mezzi busti del Padre (Viggo Mortensen, intenso come sempre), del Figlio (una promessa: Kodi Smith-McPhee), della Madre, che appare nelle analessi (Charlize Theron, oramai lontana dallo stereotipo della mannequin), del Reduce (Guy Perce) e del Vecchio (un irriconoscibile Robert Duvall), con grandi aperture su boschi inceneriti, carcasse di auto incendiate, navi in secca, strade deserte e piene di rifiuti, case sinistrate e vuote; aperture che premono sui protagonisti e li confinano a comprimari della grande tragedia che ha colpito il mondo, per la maggior parte reali e non digitalizzate come è il vezzo del cinema odierno (aggiungiamo, fra le righe, che pur essendo un ottimo film The road ha avuto scarso successo in patria, e ha rischiato di non essere distribuito neanche in Italia); improvvisamente lo sguardo del regista coglie le figure umane che lottano, si inseguono, si uccidono in un bosco o in mezzo alla nebbia, o nello spazio chiuso di uno scantinato vengono rinchiusi per essere poi utilizzati come cibo. Una luce livida cola sul mondo, e il cielo sempre grigio contrasta con le notti sempre buie. Sottili citazioni da pellicole come Rashomon (1950) di Kurosawa e Stalker (1979) di Tarkovski con il loro richiamo alle rovine e alla pioggia ci portano diretti alle radici del grande cinema. Poi ci sono gli oggetti che costituiscono una chiave di narrazione, una linea che attraversa il film e spesso diventa motivo innescatore o raccordo di altre immagini; gli onnipresenti carrelli della spesa; il revolver del padre con soli due colpi; le scatole di cibo e le lattine di frutta sciroppata. Le aggiunte al romanzo sono poche, ma su di una è il caso di soffermarsi perché apre uno spazio che non esisteva nel testo originario, e la dice lunga sulle lobby hollywoodiane. Il testo di McCarthy, come abbiamo detto, è sostanzialmente agnostico, con grandi sfumature pagane; parlando con il vecchio, il padre gli domanda se ha scambiato il figlio per un angelo, poi gli domanda se crederebbe a lui come a un dio. Il vecchio risponde: Dove gli uomini non riescono a vivere gli dèi non se la cavano certo meglio. Vedrà. Stare soli è il minore dei mali. Quindi spero che quello che mi ha appena detto non sia vero, perché essere in viaggio con l’ultimo degli dèi sarebbe terribile. (pag. 131) Siamo a un passo da Nietzsche e dall’idea che l’umanità sia la malattia mortale della Terra. Le cose andranno meglio quando non ci sarà più nessuno. (…) Quando ce ne saremo andati tutti qui resterà solo la morte, e anche lei avrà i giorni contati. (pag. 132). Ma Hollywood risponde a una logica diversa, e anche un film d’autore è costretto a cedere a compromessi, ed ecco quindi l’inserimento dell’interno di una chiesa in cui padre e figlio trovano riparo, richiamo alla cristianità che McCarthy si era ben guardato dallo sviluppare. Cosa di poco conto, verrebbe da dire, se pensiamo al profluvio di citazioni bibliche da cui siamo sommersi dal mondo americano. Infatti. Ma se guardiamo con più attenzione al libro e al film, e con un occhio alle date, un altro termine di paragone ci può venire da Codice genesi (The Book of Eli, 2009), dei fratelli Robert e Allen Hughes; anche in questo caso un mondo catastrofico e desertificato, un pellegrinaggio attraverso i resti dell’Amerika che somigliano all’Australia del ciclo di Mad Max, predoni e assassini (risolti qui in uno stile fra il western, il videogioco e il kung-fu film), austostrade deserte e ponti interrotti e carrelli del supermercato e tutto ripreso attraverso film e digitalizzato. Un banale plagio da McCarthy, con la differenza sostanziale che qui il protagonista ha lo scopo di far “riscrivere” non uno dei tanti “codici” religiosi che impestano letteratura e cinema da anni, ma addirittura la Bibbia (quella di Re Giacomo, che in Usa si trova ovunque), di cui è rimasta una sola copia, dal momento che le altre sono state distrutte… Escamotage per escamotage, verrebbe voglia di dire; il cristianesimo per annunciare la “buona novella” deve addirittura far incarnare il figlio di Dio; nel mondo futuro per far scrivere un testo deve mandare qualche suo emissario che sembra un samurai. In confronto a questo pastrocchio neocon The Road ci riporta direttamente nelle braccia del mito primigenio di tutte le cose: “Nelle forre dove vivevano, ogni cosa era più antica dell’uomo, e vibrava di mistero...”.