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La sinistra alla destra di Tremonti

di Luca Ricolfi - 11/06/2010




Vedremo alla fine, quando la manovra diventerà legge, quale sarà il suo contenuto effettivo: quali tagli, quali meccanismi per ripartirli, quante tasse in più.

Nessuno dubita, tuttavia, che il risultato finale non potrà essere molto diverso dal punto di partenza: alla fine, ossia nel 2012, la manovra provocherà un taglio della spesa pubblica di 15 miliardi di euro, e un aumento della pressione fiscale di 10 miliardi. Detto in altri termini, la riduzione di 25 miliardi del deficit pubblico è fatta per il 60% (15 miliardi su 25) di minori spese, per il 40% di maggiori entrate (10 miliardi su 25).

Molto è stato detto, finora, sull’iniquità della manovra, sulla sua incapacità di colpire davvero gli sprechi, nonché sulla sua intrinseca ingiustizia territoriale. Proprio in questi giorni sono state rese pubbliche le prime stime degli effetti della manovra, ed è divenuto evidente il paradosso che essa racchiude: giusto alle soglie del federalismo fiscale, il governo si appresta a varare misure incapaci di premiare i territori virtuosi, che poco sprecano e poco evadono le tasse, e di punire quelli viziosi, che molto sprecano e molto evadono le tasse. Vedremo nei giorni prossimi se a questi difetti della manovra il Parlamento sarà in grado di porre qualche rimedio.

Qui vorrei invece sollevare un altro ordine di interrogativi. Ammettiamo per un attimo che, alla fine, grazie a un qualche «miracolo politico», la manovra risulti perfettamente equa, e chiediamoci: può funzionare? 15 miliardi di spese in meno e 10 miliardi di tasse in più sono in grado di sortire gli effetti sperati? Esiste un’alternativa credibile alla manovra?

La prima risposta che mi viene è una parafrasi di quel che Giovanni Sartori ebbe a scrivere a proposito delle tesi un po’ estremistiche, e certamente politicamente scorrette, di Oriana Fallaci sull’Islam: «uditi i critici, ha ragione Oriana». Sì, uditi i critici di Oriana-Tremonti, mi viene da dare ragione al ministro dell’Economia. L’osservazione principale dei critici è che la manovra si preoccupa solo del risanamento dei conti pubblici, aumenta ulteriormente una pressione fiscale che è già vicina al massimo storico, e potrebbe avere effetti recessivi. Anche se spesso avvolta in parole meno crude, la sostanza del discorso è questa: caro Tremonti, tu vuoi abbassare il rapporto fra deficit e Pil riducendo il deficit, ma così facendo freni anche il Pil. Detto ancora più esplicitamente: da anni le tasse soffocano la crescita e la manovra non farà che peggiorare ulteriormente la situazione, perché i risultati della lotta all’evasione fiscale (8 miliardi) non saranno usati per ridurre le aliquote che gravano sull’economia regolare, e inoltre i tagli a Regioni, Province e Comuni costringeranno gli enti locali a «mettere le mani nelle tasche degli italiani». Insomma: più tasse e tariffe, meno deficit, ma anche meno crescita, quindi alla fine della fiera sacrifici inutili.

E’ sbagliata la diagnosi dei critici?

Nessuno può dirlo con sicurezza, ma a me pare non priva di fondamento. Il tasso di crescita del Pil dipende negativamente dalle tasse, in particolare dall’aliquota societaria (Ires + Irap) e dal cuneo fiscale. E’ inutile illudersi: finché non abbassiamo (sensibilmente) l’una e l’altro non torneremo a crescere a un ritmo sufficiente a ridurre il debito, per quante «riforme a costo zero» facciamo, tipo liberalizzazioni e deburocratizzazioni (che comunque sono utili e vanno fatte al più presto, anziché essere sempre annunciate e mai portate fino in fondo). E se non torneremo a crescere il cosiddetto risanamento si farà semplicemente facendo tirare la cinghia alla gente, in un Paese incamminato su un sentiero di dolce (perché lento) declino.

Dove i critici non mi convincono, e mi inducono (provocatoriamente) a dare ragione a Tremonti, è sulle alternative. Dopo un paio di anni passati a invocare «stimoli all’economia», quasi tutti si sono resi conto che, se Dio vuole, Tremonti non ha dato retta ai suoi critici, e che se lo avesse fatto saremmo nell’occhio del ciclone come la Grecia. Ora i medesimi critici dicono a Tremonti che il gettito sottratto agli evasori deve destinarlo alla riduzione delle aliquote, anziché riversarlo nel calderone della riduzione del deficit pubblico. Qualche giorno fa, a Ballarò, l’ha detto molto esplicitamente - in faccia al ministro dell’Economia - l’onorevole Enrico Morando, illustre esponente del Partito democratico. Tremonti gli ha risposto più o meno così: dunque volete tagliare la sanità, proprio voi di sinistra! Perché se i soldi della lotta all’evasione fiscale (8 miliardi) me li fate usare per ridurre le aliquote, allora devo trovarne altrettanti per ridurre il deficit, e quindi diventa inevitabile colpire anche la sanità, che noi (governo) abbiamo invece voluto salvare.

Ma ci rendiamo conto? Abbiamo un governo di centro-destra che difende lo Stato sociale, e un’opposizione di centro-sinistra che, almeno nella sua componente liberal, fa una critica «di destra» alla politica economica del governo, accusandola di soffocare la crescita, ma poi non ha il fegato di trarne le conseguenze: per poter abbassare le aliquote, la spesa pubblica va tagliata di più e non di meno di quello che il governo sta cercando di fare.

Ecco perché, alla fine, Oriana-Tremonti ha sempre ragione. La parola «crescita» è il mantra di tutti i critici. Molti di essi, da ultimi Carlo De Benedetti (proprietario di Repubblica) e Stefano Fassina (responsabile economia del Pd) l’accompagnano con la richiesta esplicita di abbassare le tasse sui produttori. Ma nessuno completa il discorso, perché completarlo significherebbe proporre sacrifici ancora più duri di quelli che il «cattivo» Tremonti sta imponendo agli italiani.