Da Darwin all’ordine della vita. Le ragioni di una rivoluzione (VI parte)
di Stefano Serafini - 14/06/2010
Fonte: Atrium
6. Antonio Lima-de-Faria
Nato nel 1921 a Cantanhede, in Portogallo, dopo la licenza in Biologia a Lisbona, dove serve come Assistente in Botanica per due anni, si trasferisce in Svezia presso l’Università di Lund, per il dottorato in Genetica. Qui dirige il Laboratorio (poi Istituto) di Citogenetica molecolare, dove prosegue ancora oggi, da Emerito, ricerche sull’organizzazione molecolare del cromosoma. Nella duplice veste di ricercatore e insegnante ha collaborato con alcuni fra i più prestigiosi istituti del mondo: John Innes Institute, Max-Planck Institut, C.N.R.S., A.I.E.A., U.N.E.S.C.O., Duke University, Cornell University, Università di Edimburgo, ecc. Pioniere della citogenetica molecolare, è noto per aver realizzato la prima fusione fra una cellula vegetale ed una umana.[1]
Dopo alcuni contrasti con l’Università di Harvard a seguito della pubblicazione nel 1969 dello Handbook of Molecular Citology,[2] un testo oramai classico ma allora assai innovativo, nel 1988 si guadagnò decisamente la patente di eretico, pubblicando Evolution without Selection. Form and Function by Autoevolution.[3]
Cosa afferma di tanto grave questo libro? Che l’evoluzione non procede per selezione naturale, ma per uno sviluppo intrinseco non soltanto ai viventi, ma a tutta la materia di cui essi sono composti, attraversando e regolando particelle subatomiche, molecole chimiche, disposizioni cristalline, organismi.
Lima-de-Faria si dedicò per diversi anni a uno studio singolare per un genetista: raccolse e confrontò migliaia di schemi morfologici e morfofunzionali caratterizzati da una speciale qualità, l’omologia, ricercandone la comune ragione soggiacente. Corni di animali, estrusioni vegetali e semilune minerali; scheletri di mammiferi, foglie, pietre aurifere; squame di pigne, folidoti, terreni inariditi; simmetrie di fiori, cristalli, invertebrati... La mentalità comune è portata a riconoscere nelle somiglianze, poniamo, fra il profilo di un albero spoglio e la diramazione dendritica dell’estuario di un fiume, nient’altro che accidenti, mere analogie senza senso. Lima-de-Faria sostiene invece che le somiglianze che osserviamo sono solo apparentemente bizzarre, e che anzi esse indicano la comune dipendenza dalle stesse leggi fisiche fondamentali, di tutti i livelli organizzativi della natura. In altre parole, la forma-funzione base della rete circolatoria, si riproduce obbligatoriamente nella distribuzione degli alveoli polmonari e nel sistema dei vasi sanguigni di un mammifero, come nei rami di un albero affondati nel cielo, o nelle dita del delta di un fiume. Alla base vi è il medesimo tipo di canalizzazione degli eventi fisico-chimici, dei quali è composta la nostra realtà. Anche la vita sottostà a tale canalizzazione materiale, e dunque è essa la forza fondamentale dell’evoluzione.
Certamente gene e cromosoma influenzano la forma e la funzione nel vivente, come è stato ben chiarito dagli esperimenti sull’ereditarietà, però non la creano. In effetti gene e cromosoma sono prodotti tardivi dell’evoluzione della vita, che iniziò senza di loro grazie a processi autocatalitici e di autoassemblaggio. Persino la stabilità esisteva prima dell’eredità, ad es. nei minerali. L’avvento del gene ha prodotto ripetizione, un aumento dell’ordine, velocità, fissaggio delle alternative e aumentata capacità di combinazione, ma esso si è comunque innestato in un percorso evolutivo precedente (subatomico, atomico e molecolare) del quale rappresenta il frutto e il prosieguo.[4]
Se l’evoluzione fosse stata basata sulla variabilità indiscriminata, sul “caso e la necessità”, secondo Lima-de-Faria essa non avrebbe mai potuto aver corso, e si sarebbe dissolta nel caos. Ecco perché l’evoluzione va compresa analizzando innanzitutto le origini di quelle rigide trame che ne hanno generato la costanza.[5]
Assai importante è anche il tema della periodicità biologica, che si rifà al concetto della periodicità chimica, inizialmente proposta da Newlands nel 1860 (legge degli ottavi). Ritenuta una follia dai chimici del tempo, fu solo grazie all’opera e alle previsioni realizzate di Mendeleev che tutti riconobbero la realtà di un ordine armonico e ciclico nell’apparente caos della materia elementare. Quest’ordine verrà successivamente approfondito dal modello atomico. Ad atomi diversi può ben corrispondere un ugual numero di elettroni roteanti nel guscio esterno, il che comporta l’insorgere di alcune proprietà simili anche in elementi dal peso atomico enormemente diverso.
La funzione del volo e la forma alare compaiono indipendentemente in specie diverse. Nessuna relazione genetica occorre fra un rettile (pterodattilo), un uccello, un mammifero (pipistrello), un insetto, o un pesce (p. es. il pesce volante Cypselurus heteururus, capace di librarsi fuori dell’acqua per alcuni minuti). Ma essi possiedono tutti un’evidente comunanza morfofunzionale. La capacità di volare compare periodicamente nella storia dei viventi, all’improvviso e senza precedenti genetici. Esistono 30 phyla di invertebrati, ma solo in uno di essi il volo ha fatto la sua comparsa. Negli insetti tale funzione ha raggiunto livelli di straordinaria perfezione. Nei rettili, compare inaspettatamente nei pterosauri, e altrettanto fra i pesci (i teleosti, già presenti da 190 milioni di anni), gli uccelli, ed i mammiferi.[6]
La maggiore pecca del neo-darwinismo consiste nell’abbracciare l’ignoranza dei reali meccanismi fisico-chimici implicati nei processi evolutivi, accontentandosi della spiegazione non fisicalista caso-selezione. Accettando come motore dello sviluppo biologico la selezione, cioè un’opzione di scelta, non si pensa neppure più di prestare attenzione al meccanismo materiale che incanala l’evoluzione, e che necessariamente deve rispondere alle leggi fisico-chimiche. La selezione impedisce inoltre di accettare l’evidenza dell’omologia, poiché è logicamente incompatibile col tentativo di spiegarla. Lima-de-Faria definisce perciò la selezione «oppio dei biologi».
Da quanto abbiamo visto sopra, il genetista di Lund sta ripercorrendo con l’armamentario della sua enorme competenza biomolecolare fascinosi sentieri già battuti un secolo fa (ad es. da D’Arcy Thompson),[7] e assai prossimi alla biologia post-darwiniana.
In questo volume [Atrium, IX (2007) 1] sono contenute due sintesi della sua teoria, da lui scritte nella forma di una lettera al card. Christoph Schönborn, e di un articolo recentemente apparso in una miscellanea dell’Accademia delle Scienze di Russia.
7. Il Disegno Intelligente e il caso Schönborn
Non riteniamo di inserire il movimento del Disegno Intelligente (Intelligent Design) nel percorso che abbiamo tracciato fin qui. Esso ha infatti una strada autonoma, e per molti versi esterna al dibattito fra gli addetti ai lavori, compresi i più acerrimi anti-darwiniani. La stessa origine del movimento lo identifica piuttosto come un filone di critica culturale (dignitoso e interessante) al paradigma socio-scientifico del darwinismo, per così dire al “modo di pensare darwinista”. E ciò vale anche quando esso avanza sul terreno della discussione scientifica strettamente intesa, per evidenziare la fragilità del fondamento.
Tale caratterizzazione è tutt’altro che una debolezza. Onde evitare un dialogo tra sordi, è bene rammentare che la diffusione delle idee derivate per vie diverse dal pentolone che ancora ribolle sotto il nome di Charles Darwin a 125 anni dalla sua scomparsa, ha una grande influenza, la cui forza sta proprio nel richiamarsi alla dignità scientifica. Come ha giustamente risposto il cardinale Christoph Schönborn al fisico Stephen M. Barr (Università del Delaware), il quale lo accusava di confondere i soggetti della contesa,[8] sarebbe giusto mantenere distinte da una parte la teoria scientifica del neo-darwinismo («l’idea che il motore principale dell’evoluzione è la selezione naturale che agisce sulle variazioni genetiche casuali»), e dall’altra la vera e propria pretesa teologica di dichiarare l’evoluzione un processo «privo di guida e non pianificato». Ma allora perché mai tale pretesa teologica continua aggressivamente a parlare in nome della dottrina scientifica – la quale da parte sua volentieri le presta i panni – e molto spesso proprio per bocca degli scienziati? Niente di straordinario: come anche si è visto nella prima parte di questo scritto, la dottrina scientifica non è del tutto innocente nelle proprie intenzioni.
Una distinzione, secondo noi, può essere operata a partire dal contesto di applicazione dello strumento Evoluzione. Nell’ambito teorico (accademico o privato), fatti e teorie dovrebbero servire allo sviluppo della conoscenza. Nell’ambito della comunicazione pubblica, generalmente, tendono a influenzare la società.
È il secondo il campo proprio delle iniziative del Disegno Intelligente, tese a contrastare lo Scarabocchio Fortunato del “darwinismo teologico”. Insomma, rovesciando l’obiezione di Barr, sarebbe un errore considerare lo Intelligent Design una teoria scientifica, e dunque attaccarla come tale. Le sue intenzioni sono chiare: proporre un insieme di sistematiche obiezioni al darwinismo scaduto in teologia di quart’ordine;[9] combattere un’ideologia sul piano della cultura e del ragionamento, affrontandola con i suoi stessi strumenti, cioè armandosi nella fucina degli argomenti scientifici.
I sodali di questa operazione sono scienziati prestati, per così dire, dal laboratorio al dibattito culturale, ed intervengono sulla base della propria formazione ben consapevoli di quello che stanno facendo, e del terreno sul quale si trovano. Chiaramente le questioni interne alla scienza della vita, delle quali abbiamo cercato di fornire qui un breve e incompleto tratteggio, entrano in tale contesto, ma unicamente in senso strumentale o, se vogliamo, stragiudiziale. Anzi, la punta di diamante del movimento, il biochimico cattolico Michael Behe (Lehigh University), ha dichiarato esplicitamente di non trovare persuasive le «teorie non-darwiniane», i cui meccanismi esplicativi alternativi alla selezione vengono da lui rifiutati in nome dell’intervento di un’intelligenza.[10]
Dicevamo dell’origine del Disegno Intelligente. Non molti sanno che essa risale all’impegno intellettuale e organizzativo di un giurista, non di un biologo, rimasto profondamente colpito nel leggere la critica al paradigma darwiniano esposta dal chimico e medico australiano Michael Denton col libro Evoluzione, una teoria in crisi.[11] Il professor Philip Johnson insegna legge presso l’importante Università di Berkeley (USA), non è dunque una persona qualunque, e dispone di una cultura e un’intelligenza non comuni. Sebbene l’argomento non attenga al suo ambito professionale, egli vi si appassiona. Da umanista approfondisce la letteratura sull’argomento, incontra personalmente importanti biologi dell’evoluzione con i quali avvia accese discussioni, e nel 1991 pubblica un libro che espone il suo meditato giudizio e si intitola, appunto, Darwin on Trial (Darwin alla sbarra).[12] I darwinisti, dice il verdetto, sono in realtà dei materialisti metafisici travestiti da scienziati. Le loro prove fanno acqua da tutte le parti, e vengono sostenute contro ragione in obbedienza a una fede dogmatica e assolutista.
Il libro interessa diversi scienziati statunitensi. Non su riviste scientifiche, ma sul quotidiano New York Times, Michael Behe prende posizione a favore di Johnson con l’articolo “Darwin al microscopio”.[13] Behe è autore di un bestseller che sviluppa le tesi del Disegno Intelligente – La scatola nera di Darwin. La sfida biochimica all’Evoluzione[14] – e scatena un vasto dibattito pubblico, ma esterno all’accademia. Gli esempi coi quali spiega l’irriducibilità, cioè la necessità di una progettazione tutta in una volta di certi meccanismi biologici, e dunque l’impossibilità che essi siano stati prodotti per accumulo progressivo di variazioni casuali, sono semplici ed efficaci: la trappola per topi, pur essendo infinitamente più semplice di una cellula, non potrebbe funzionare se solo una delle sue parti venisse rimossa. Una trappola che ancora non si fosse “evoluta” a sufficienza in tutti i componenti non potrebbe catturare nessun topo, e l’artigiano (la selezione) la getterebbe via. Altrettanto certi batteri non potrebbero muoversi se il loro flagello mancasse anche di uno soltanto dei suoi tre componenti (propulsore, rotore e stabilizzatore). La tesi è che molti meccanismi molecolari che permettono alla vita di esistere, andrebbero dunque spiegati come prodotti progettati da “una intelligenza” non meglio determinata, piuttosto che come il frutto di “un caso” progredente a tentoni, la cui improbabilità risulterebbe talmente alta da ridurre persino l’età dell’universo a un tempo infinitamente esiguo.
Prendendo le mosse dalle idee di Behe, nel 1997 il matematico William Dembsky[15] propone un filtro probabilistico per calcolare se un evento possa essere ragionevolmente individuato come prodotto o meno da un’intelligenza. I volti dei presidenti degli Stati Uniti scolpiti sul monte Rushmore, ad es., verranno letti da un archeologo del futuro come prodotto di intelligenza, perché 1) la probabilità che siano stati scolpiti dal caso, ad es. dagli agenti atmosferici, è bassissima, e 2) sono specifici a una conformazione identificabile, cioè la rappresentazione di volti umani, per di più storicamente significativi. Egli naturalmente ritiene che tale filtro vada applicato anche all’osservazione dei fenomeni viventi, caratterizzati da estrema complessità ed evidente teleonomia.
Nel 2000 è il turno del citologo molecolare Jonathan Wells.[16] Egli denuncia la frode ideologica delle “icone dell’evoluzione”. Sebbene la comunità scientifica li abbia invalidati da tempo, nelle scuole, nei manuali, nella volgarizzazione scientifica continuano a circolare quattro fantasmi: l’esperimento col quale nel 1953 Miller avrebbe ricreato la vita in laboratorio;[17] la raffigurazione continuista dell’albero filogenetico;[18] la ricapitolazione della filogenesi da parte dell’ontogenesi di Haeckel;[19] l’archeopterix come “anello di congiunzione” fra rettili e uccelli.[20] L’accusa rivolta al darwinismo è insomma quella di fare propaganda ingannevole tra i non scienziati.
Sempre sul New York Times, dal vecchio continente ha intinto la penna in questo contesto l’arcivescovo di Vienna cardinal Christoph Schönborn. Discendente di un’aristocratica famiglia austriaca, domenicano, teologo acuto e raffinato, mons. Schönborn ha una grande influenza in Vaticano, ed ha posizioni assai vicine a quelle dell’attuale Pontefice (la sua candidatura al soglio di Pietro era peraltro stata data per probabile). Con il brevissimo articolo “Alla ricerca di un disegno nella natura”[21] egli risveglia di fatto l’attenzione dell’Europa verso il Disegno Intelligente, e puntualizza autorevolmente la posizione della Chiesa cattolica nei riguardi della scienza e della teoria dell’evoluzione:
«L’evoluzione nel senso di una comune origine può esser vera, ma l’evoluzione in senso neo-darwiniano, cioè un processo privo di guida e non pianificato di mutazioni casuali e selezione naturale, non lo è.»[22]
Citando Giovanni Paolo II aggiunge:
«Parlare di caso per un universo che presenta una tale complessa organizzazione nei suoi elementi e una tale meravigliosa finalità nella sua vita, equivale a rinunciare alla ricerca di una spiegazione del mondo così come esso ci appare.»[23]
L’uso strumentale, da parte dei neo-darwinisti, di una vaga espressione di papa Wojtyła nel 1996 («l’evoluzione è più che un’ipotesi») viene condannato. Ciò che contraddice sia la fede che la ragione umana, non può certo venire accettato dalla Chiesa, il cui «insegnamento perenne» indica nella natura un disegno leggibile dall’uomo. La Chiesa, aggiunge il cardinale, ha sempre dovuto difendere le proprie verità di religione, ma adesso si trova nella strana situazione di doversi fare paladina della stessa ragione umana.
Cosa ha permesso il maturare di una simile situazione, definita dallo stesso arcivescovo come «bizzarra» (odd)? Parrebbe qui che Scienza e Religione si siano addirittura scambiati il testimone. Assistiamo forse a un mutevole giuoco delle parti tra Bellarmino e Galilei?
La nostra impressione è che la disperazione orgogliosa e suicida dell’Isolda wagneriana, la quale invoca la distruzione della nave sulla quale è portata, abbia infine toccato la scienza, principessa di un ideale verde, ma ormai tradito. L’invocazione è, proprio a causa di quel tradimento, inane: il potere dell’antica, regale magia è ormai disperso, e la scienza naviga prigioniera, senza poter più guidare né arrestare il suo corso, ma condotta dove altri desiderano.
Non tutta la scienza, certamente. Noi confidiamo anzi che il sipario teatrale cali al più presto su questo dramma riduttivo e autodistruttivo, destinato altrimenti a concludersi con una dissoluzione nell’irrazionale. Ci auguriamo che l’animismo tecnologico delle masse (tecno-cult), l’abbandono delle facoltà scientifiche universitarie da parte delle giovani generazioni, lo spirito ideologico e fanatico, l’ignavia burocratica, e soprattutto l’oblio della ricerca della verità, pura, integrale, onorata, coraggiosa e senza condizioni, in cambio dell’ombra del potere (o dell’ombra del tavolo del potere da cui cadono briciole), abbandonino finalmente la grande tradizione intellettuale costitutiva della nostra cultura. Ben vengano tutte le risorse della civiltà ad aiutare un simile risveglio, come significa lo scambio epistolare qui presentato fra il cardinal Schönborn e il professor Lima-de-Faria.
[1] A. Lima-de-Faria - T. Eriksson - L. Kjellén, “Fusion of human cells with Haplopappus protoplasts by means of Sendai virus”, Hereditas 87 (1977), 57-66.
[2] North-Holland, Amsterdam, 1969.
[3] Elsevier Science Biomedical Division, Amsterdam - New York - London, 1988. Trad. It. Evoluzione senza Selezione. Autoevoluzione di Forma e Funzione, Nova Scripta, Genova 2003.
[4] A. Lima-de-Faria, Evoluzione senza Selezione, op. cit. pp. 333-338.
[5] «Per il darwinismo ed il neo-darwinismo la variabilità (caratterizzata da casualità e multidirezionalità) è l’elemento principale dell’evoluzione mentre la costanza di forma e funzione sembrerebbe riguardare piuttosto l’ereditarietà. È questo il motivo per cui il concetto di ereditarietà nacque separatamente da quello di evoluzione. Ogni volta che la costanza di un piano organizzativo o di una funzione è stata sottolineata in un contesto evolutivo da embriologi, anatomisti o paleontologi, i difensori della sintesi moderna hanno invece preferito sottacerla dando piuttosto enfasi alla variabilità. Quel che veramente risulta fondamentale nell’evoluzione è invece proprio il processo opposto a ciò che per tanto tempo è stato considerato di primaria importanza: fondamentale è cioè la struttura basilare che mantiene la costanza, giacché è questa a possedere le chiavi d’accesso ai tipi di variazioni che possono avvenire» (Ivi, pp. 40-41).
[6] Cfr. A. Lima-de-Faria, “Biological Periodicity with Reference to Higher Mammals and Humans”, in: Principles of Medical Biology, Volume 1B (Evolutionary Biology), JAI Press, Greenwich 1994, pp. 253-319; Id., Biological Periodicity. Its Molecular Mechanism and Evolutionary Implications, JAI Press, Greenwich 1995.
[7] On Growth and Form, op. cit.
[8] Cfr. S. M. Barr, “The Design of Evolution”, First Things, 156 (Ottobre 2005); C. Schönborn, “The Designs of Science”, First Things, 159 (Gennaio 2006). Entrambi gli articoli sono rintracciabili in Internet.
[9] Felice espressione di G. Sermonti, quando si cerca di coinvolgerlo nel dibattito pseudoscientifico evoluzionismo-creazionismo.
[10] M. J. Behe, “Darwin under the Microscope”, The New York Times, 29/10/1996, p. 25.
[11] M. Denton, Evolution: a Theory in Crisis, Adler & Adler, Bethesda 1985.
[12] P. Johnson, Darwin on Trial, Inter-Varsity Press, Westmont 1991.
[13] Art. cit.
[14] Darwin’s Black Box. The Biochemical Challenge to Evolution, The Free Press, Glencoe 1996.
[15] William A. Dembski, The Design Inference: Eliminating Chance Through Small Probabilities, Cambridge University Press, Cambridge (Mass.) 1998. Si veda anche Id., No Free Lunch: Why Specified Complexity Cannot Be Purchased Without Intelligence, Rowman and Littlefield, Lanham 2002.
[16] J. Wells, The Icons of Evolution, Regney, Washington 2000.
[17] In realtà Stanley Miller era riuscito a produrre in laboratorio solo un semplice amminoacido.
[18] “L’albero di Darwin” vede i “rami” delle diverse specie dipartirsi lineari l’uno dall’altro, tutti uniti da un tronco comune, e slanciarsi nel cielo sereno delle ère. Si tratta di un’astrazione assai lontana dai dati paleontologici, che testimoniano invece un’evidente discontinuità, per cui al massimo si dovrebbero raffigurare “cespugli”, “rami” e “tronchi” separati, che esplodono improvvisamente tutti insieme circa 540 milioni di anni fa, nel Cambriano.
[19] Haeckel desiderava tanto ardentemente dimostrare la comune ascendenza dei viventi, che giunse a ritoccare le immagini degli embrioni con i quali sosteneva la somiglianza delle specie nelle prime fasi dello sviluppo. Una somiglianza, quella fra gli embrioni di specie diverse, ovviamente dimostrata successivamente falsa.
[20] Animale con il corpo e la coda da rettile e ali e penne da uccello, il suo fossile più significativo venne ritrovato a soli due anni dalla pubblicazione de L’origine della specie di Darwin. Sospettato da molti di essere “un pollo di Piltdown”, cioè un falso (ad es., tra gli altri, dal fisico Lee Spetner e dal famoso astrofisico Fred Hoyle), non dimostrerebbe comunque alcuna derivazione, con la sua costituzione “a mosaico”. La sua struttura bislacca dà inoltre di che pensare sul funzionamento della selezione naturale: un simile “mostro” dalle ossa piene e dalle ampie ali volava male, e camminava ancor peggio.
[21] C. Schönborn, “Finding Design in Nature”, The New York Times, 7 luglio 2005.