L’hanno chiamata “nazionalizzazione” e hanno subito gridato allo scandalo. Nessuno dei giornalisti impegnati a scagliarsi contro l’iniziativa “demagogica” e “populista” del presidente boliviano Evo Morales ha ritenuto necessario fornire qualche informazione in più, ad esempio che il referendum sulla nazionalizzazione del gas tenutosi nel 2004 ottenne il 95% di sì. Oppure che i contratti che il presidente vuole ridiscutere - trattativa che le 21 compagnie straniere presenti nel paese finora si sono guardate bene dall’avviare - sono illegali e incostituzionali perché non hanno mai ottenuto l’approvazione del Congresso. Altra informazione significativa: prima della “nazionalizzazione” la Procura generale boliviana aveva incriminato tre ex presidenti della repubblica (Jorge Quiroga, Gonzalo Sanchez de Losada e Carlos Mesa) più otto ministri degli Idrocarburi e quattro ex-presidenti dell’impresa statale boliviana, tutti accusati di avere intascato laute mazzette in cambio della cessione alle corporation internazionali di buona parte dei profitti del settore estrattivo, l’unica fonte di ricchezza del poverissimo paese.
Morales insomma non vuole affatto buttare fuori le compagnie straniere ma, come Chavez, vuole costringerle a ridiscutere i contratti-capestro imposti illegalmente. La ventata di rinnovamento che sta spazzando l’America Latina, unita all’aumento dei profitti del settore energetico che rende ancora più scandalosa la tradizionale rapina del sottosuolo, spingono i paesi produttori come la Bolivia e il Venezuela di Chavez lungo la china dell’ora o mai più. Una china certamente più rischiosa per il presidente boliviano perché il gas, a differenza del petrolio, ha bisogno di molti più investimenti - e quindi delle compagnie straniere - ma la Bolivia di questo dispone, oltre che dell’evidente sostegno del ben più potente vicino petrolifero. Al di là quindi dell’isteria di prammatica perfino alcuni giornali dell’ortodossia liberista come il Financial Times consigliano le compagnie di fare buon viso a cattivo gioco perché i tempi della cuccagna - ovvero della rapina - stanno per finire. Del resto anche il candidato di sinistra alla presidenza del Perù, Ollanta Humala, ha fatto sapere di volersi muovere nella stessa direzione qualora riuscisse a vincere le elezioni.
Le compagnie devono insomma rassegnarsi: niente più palloni in cambio di petrolio - come recitava il “contratto” firmato nel 2001 dall’Agip con gli indigeni huaorani dell’Ecuador - né la formula 82-18 imposta alla Bolivia, dove 82 sta per la percentuale incassata dalle compagnie private e il 18 per cento sarebbero le royalties da pagare allo Stato. Peccato che quel 18 per cento rappresenti una cifra virtuale - il monitoraggio della quantità di gas estratto è affidata alle compagnie private - che, almeno secondo le conclusioni dei giudici boliviani, è stata quasi integralmente evasa da quando, nel 1996-97, ebbe luogo la privatizzazione selvaggia che «consegnò in mani straniere il controllo e la direzione di un settore strategico», come ha dichiarato il presidente.
Morales vuole semplicemente ribaltarla, questa formula, per avvicinarsi al tipo di rendimento considerato accettabile per gli investimenti nel settore che normalmente si aggira sul 12 per cento, sempre, naturalmente, che non si tratti di fare affari con quattro straccioni indigeni.
Già perché lo scandalo sta tutto qui, come aveva ben capito Enrico Mattei di cui si festeggia in questi giorni il centenario della nascita: la politica delle concessioni petrolifere in cambio di royalties ridicole - come quelle che negli anni Venti del Novecento consegnarono il petrolio mediorientale in mano anglo-americane - non era più proponibile già cinquant’anni fa, figuriamoci ora.
Sarebbe necessaria invece, come scriveva Mattei, "una politica il più possibile priva di reminescenze imperialistiche e colonialiste, volta al mantenimento della pace, al benessere di chi quella risorsa possiede per dono della natura e chi la utilizza per forza della sua industria".
Nella transizione a questo nuovo modello di relazioni commerciali con il Sud del mondo, Mattei aveva immaginato per l’Italia un ruolo che i suoi dirigenti - troppo “atlantisti” o semplicemente razzisti - non ebbero il coraggio di assumersi. Il ruolo di un paese amico che avrebbe potuto mettere al servizio dei produttori le capacità tecnologiche delle proprie imprese in cambio di un giusto compenso. Chissà se Zapatero, Kirchner e Lula - quest’ultimo presidente del paese principale importatore di gas boliviano attraverso la Petrobras - saranno in grado di raccogliere la sfida che i governi italiani di allora fuggirono come la peste.
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