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Adesso che lo dice un premio Nobel...

di Gianfranco La Grassa - 02/07/2010

 

 

 

Adesso che lo dice Krugman, si può essere sicuri che molti riprenderanno la tesi che il sottoscritto sostiene fin da subito dopo l’inizio di questa crisi. In particolare, “sbaveranno” per il piacere tutti i banaloni della “sinistra” che credono di essere progressisti quando si allineano al keynesismo (se sia proprio il pensiero del grande economista inglese lo discutano i suoi seguaci, personalmente ne faccio volentieri a meno).

Questa crisi assomiglierà alla lunga depressione di fine XIX secolo piuttosto che alla “molto più terribile” grande depressione iniziata il 1929. Questo il succo, molto succinto ma non alterato, del premio Nobel. Lasciamo perdere che avere questo premio due anni fa non è poi un gran titolo di merito; ormai da molto tempo esso è ampiamente squalificato. Non mi sogno però di sostenere che Krugman non sia un economista preparato e intelligente, cosa non poi tanto frequente in quel ramo sedicente “scientifico” da ormai alcuni decenni a questa parte. Il problema, appunto, è che è un economista. Vediamo un po’ che cosa si può scrivere sulle sue affermazioni.

Intanto non è lecito alcun paragone (“molto più terribile”) tra la “lunga” e la “grande” depressione. Alla fine del XIX secolo la depressione (anche indicata come stagnazione; e che viene solitamente datata 1873-96) è l’epoca in cui si accentua e prende grande slancio la “seconda rivoluzione industriale” con l’apertura di interamente nuovi settori produttivi; oserei parlare di nuove frontiere o orizzonti legati ad un ben più incisivo e stretto intreccio tra scienza, tecnologia e produzione. Si aprono nuove frontiere nel campo della produttività del lavoro con la riorganizzazione dei processi della sua estrinsecazione, pur se l’introduzione più ampia del taylorismo-fordismo (a partire dagli Usa) è appena successiva alla depressione (ma inizia già in essa). Tutto ciò ha conseguenze rilevantissime nella riclassificazione della stratificazione e segmentazione sociali.

Viene a quell’epoca in evidenza, fra l’altro, il più radicale passaggio dalla vecchia impresa – quasi identificata con la fabbrica (l’opificio di trasformazione dei prodotti) – alla nuova che s’imporrà largamente a partire dagli Usa, diventando nel giro di qualche decennio la vera forma dell’unità produttiva capitalistica. L’affermarsi di questa nuova impresa è stata vissuta, in particolare dai marxisti, quale semplice passaggio dalla concorrenza al monopolio (in realtà oligopolio, ma non sottilizziamo). La grande dimensione d’impresa, confusa per lo più appunto con quella della fabbrica, è stata da una parte trattata come processo di espansione della classe operaia; dall’altra come centralizzazione dei capitali. Anche di questo processo, su cui non posso qui soffermarmi, Marx aveva una visione di controllo e potere nella società. Sbagliò non prendendo attentamente in considerazione l’aspetto della complessificazione degli strati (in verticale) e dei segmenti (in orizzontale) sociali. Tuttavia, gli sclerotici marxisti, del resto ampiamente seguiti da molti economisti e sociologi radical, si sono fissati soltanto sulla centralizzazione della proprietà, sul possesso di pacchetti di maggioranza: prima assoluta, poi relativa, quella che comunque attribuisce il controllo della proprietà azionaria dell’intera impresa. Inoltre, come già notato, ci si limitò al mutamento delle “forme di mercato” (tali essendo concorrenza e monopolio) e non alle trasformazioni dei rapporti tra gruppi sociali.

I processi appena considerati condurranno poi nel tempo alla perdita relativa di rilevanza della “classe” operaia, che sia le correnti riformiste sia quelle rivoluzionarie del movimento operaio avevano ormai ridotto alle mansioni esecutive (alle “tute blu”), perdendo del tutto la grande acquisizione di Marx secondo cui chi avrebbe emancipato la società in direzione del socialismo e comunismo sarebbe stato l’operaio combinato o lavoratore collettivo, in quanto ricomposizione, non senza frizioni e contraddizioni, dei ruoli direttivi ed esecutivi nel processo produttivo.

Marx aveva errato nell’individuare questa tendenza dinamica, che supponeva intrinseca allo sviluppo capitalistico. Quest’errore di previsione andava semmai corretto, non certo messo da parte per inneggiare ad una classe operaia fatta di meri esecutori (privi “delle potenze mentali della produzione” sussunte sotto il capitale; detto da Marx, non da me), preparando così la lunga epoca dell’esaurimento e finale sconfitta del sedicente “movimento operaio”. Molte volte ho ormai scritto su questi argomenti, e non vi torno.

Qui mi premeva mettere in luce le radicali trasformazioni avvenute nella “lunga depressione” di fine ‘800. Nulla di così “epocale” si verificò nella “molto più terribile” (secondo Krugman) “grande depressione” del 1929. Solo un economista, che disputa tra i neoclassici e i neokeynesiani (e si mette dalla parte di questi ultimi), può essere così miope (e questo dimostra, fra l’altro, che i premi Nobel sono assegnati da tempo a meri “tecnici”, non a personaggi con una solida visione dei processi storico-sociali). Il bello è che Krugman ammette (o almeno mi sembra, perché non è poi così chiaro) che comunque non si esce dalla depressione del 1929 nel 1933 (anno di lancio del “mitico” New Deal) così come si afferma solitamente (in effetti si parla sempre di crisi 1929-33). L’economia ebbe in realtà piccoli sbalzi e nel ’37 fu di nuovo in forte perdita di velocità; con il ritardo normale nel corso di una crisi, la punta della disoccupazione negli Stati Uniti (la più alta dopo quella del 1932) si ebbe nel 1939.

Poiché, come già rilevato, nessuna trasformazione socio-produttiva dell’importanza di quelle di fine ‘800 (e primissimo ‘900) si era verificata, il “keynesiano” s’immagina che il merito spetti all’aver supplito, mediante spesa pubblica, alla carenza della domanda complessiva “privata” in paesi “opulenti” (ad alto sviluppo capitalistico e con elevata propensione, marginale, al risparmio). Un cervello “più fino” si rende però conto che, non essendo usciti dalla crisi nel 1933, il vero merito dello “scossone” positivo subito dall’economia capitalistica va ascritto non tanto al New Deal (semplice “pannicello caldo” utilizzato dal ’33 al ‘37) quanto alla seconda guerra mondiale (così come il merito dell’analogo superamento dell’altra “grande depressione” del 1907 era spettato alla prima guerra mondiale; questo è un “piccolo fatto” sempre messo tra parentesi dagli economisti). Ovviamente, il suddetto “scossone” positivo avviene subito negli Usa (che non sono teatro della guerra) e, dopo aver assorbito e risanato le devastazioni della stessa, nel resto del mondo capitalistico.

Il “cervello più fino” di cui sopra, quando è un economista keynesiano (pur se magari divenuto marxista alla guisa di uno Sweezy), che cosa pensa subito dopo avere “scoperto” che la crisi è risolta dalla guerra? La spesa per armi è il toccasana. Vengono prodotti beni che non alimentano l’offerta nel mercato perché inviati “al fronte” e presto distrutti o resi obsoleti, ecc. Generano però reddito che viene speso mettendo in moto il moltiplicatore dello stesso, e via discorrendo. Quando la guerra è finita, quando i paesi distrutti sono stati per l’essenziale ricostruiti, come alimentare ancora questa domanda? “Elementare Watson” risponde il keynesiano divenuto anche un po’ (o molto) “di sinistra”; come minimo “progressista” e “politicamente corretto”. Si deve dare slancio al Welfare State, meglio detto “Stato sociale” più che del benessere (quest’ultimo sa un po’ di spese superflue, di mero godimento di una vita poco frugale; mentre lo Stato sociale….. orsù, suvvia, vivaddio, volete mettere?!). Quindi via con le pensioni (“salario differito”) e con la sanità pubblica (“salario indiretto”). Se poi si va in pensione dopo 15 anni, sei mesi ecc. o se la sanità è uno spreco dietro l’altro, meglio ancora; si ha reddito da spendere e questo traina l’economia. La gran parte della spesa “pubblica” va in stipendi per gli impiegati, mentre poco resta per assicurare servizi minimamente decenti alla “collettività”? Sempre meglio; l’importante è assicurare che tutti abbiano da spendere: semmai bisogna convincerli a non risparmiare, ma ad acquistare il più possibile: “il vizio privato assicura il bene collettivo” e viceversa.

Tuttavia, il dopoguerra viene caratterizzato per decenni da sviluppi e brevi crisi (dette recessioni per distinguerle dalle “grandi depressioni” tipo ’29); le politiche economiche si limitano al ben noto stop and go, all’alternanza di misure contrapposte di allargamento e restringimento dei “cordoni della borsa” da parte del sistema bancario e dell’apparato pubblico. Un alternarsi di inflazione (soprattutto dei prezzi) e di deflazione (soprattutto della produzione “reale”). Nel complesso, però, prevale nettamente l’inflazione dei prezzi e s’ingigantisce il debito pubblico (fenomeno particolarmente evidente nel nostro paese, ma non solo italiano). Alla fine si ha la reazione neoclassica, neoliberista: contenimento dell’inflazione (obiettivo fallito a lungo fino ai prodromi di una nuova vera depressione) e del debito pubblico, anch’esso obiettivo non proprio ben riuscito e comunque con larghi effetti di deflazione (ammesso che questa sia dovuta principalmente alle  nuove politiche economiche).

Ecco di nuovo strepitare i keynesiani che vogliono il ritorno all’antico, in una situazione mondiale totalmente mutata con la sparizione del “campo socialista” e gli Usa non più centro predominante globale. Intanto, come sempre avviene da metà ‘800 almeno, la ricchezza “fittizia” (finanziaria, molto effettiva finché dura) si accresce, e si accentra, assai più rapidamente di quella reale. Si profila il patatrac, che si cerca di dimenticare per oltre un anno. Infine il bubbone scoppia nel 2008 e allora tutti si mettono ad ululare che è la peggiore crisi dopo quella del ’29, qualcuno anzi sostiene che è come quella, in pochi (quelli del continuo sognare il “crollo del capitalismo”) che è peggiore e, ovviamente, finale. Sui giornali si offendono gli economisti che non prevedono nulla, che sono molto peggiori dei meteorologi (unica affermazione vera e sensata). Naturalmente, questi ignorantoni, accusati di essere incapaci di vedere al di là del proprio naso, continuano ad essere ospitati, pagati a peso d’oro, sui giornali e in TV, e pontificano senza cessa. Pure alcuni “critici critici”, perfino degli (auto)sedicenti “marxisti”, vengono recuperati e conoscono il loro periodo di gloria.

Nel 2009 tutto sembra acquietarsi; la situazione è grave ma non disperata, l’uscita dalla crisi si avvicina. Ci sono i soliti brontoloni, ma sono quelli dell’Apocalisse “nella manica” con la catastrofe imminente da sempre, dall’inizio dei tempi: catastrofe economica, ambientale, del convivere sociale, delle psicologie individuali, di tutto insomma. Non badarli è lecito, anzi doveroso, perché sono poveri malati di mente e andrebbero curati in luoghi appositi. Arriva comunque l’ulteriore botta del 2010 che dura tuttora, pur se si ricomincia – da parte di alcuni – a parlare di crisi in via di risoluzione. Nello stesso tempo, si riattizza la solfa prima accennata: gli economisti non ci azzeccano mai, ma si fanno scrivere e pontificare come e più di prima, ecc. ecc.

Finalmente arriva qualcuno che avverte: questa non è una crisi come le altre, ma un mutamento d’epoca. Ohibò, finalmente delle persone sensate. “Manco pe’ gnente”; il mutamento d’epoca sarebbe la crisi di un mondo senza morale, che deve tornare ai sani principi dell’insegnamento cattolico, della Chiesa (e perché non del Corano o di qualsiasi altra religione? Quanto a sfoggio d’etica, non ce n’è una che resti indietro rispetto alle altre). E si arriva allora ad un Krugman (e qualche altro, ma pochissimi) che avanza un’ipotesi senz’altro più acuta delle altre: questa crisi assomiglia alla depressione o stagnazione (non priva di balzi di crescita alternati a tonfi, con un trend sostanzialmente “orizzontale”) di fine ottocento (quasi un quarto di secolo, un’intera generazione). Non vi è dubbio che ci fa un figurone, è il classico monocolo nella terra dei ciechi. C’è però un “ma”, una piccola dimenticanza, tipica “da economista”.

 

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Si è già sopra rilevato che la fine del XIX secolo è stata caratterizzata da buona parte della “seconda rivoluzione industriale” con innovazioni di grande momento, in cui la scienza con le sue ricadute tecniche scopre “nuovi continenti” e questi alimentano nuovi settori produttivi. Si preparano innovazioni di processo della portata del taylorismo-fordismo, vi sono decisive trasformazioni sociali con ascesa del “movimento operaio”. Importante è poi il passaggio all’impresa moderna poiché annuncia l’avvento della nuova formazione dei funzionari del capitale, che in alcuni decenni sostituirà il capitalismo borghese (di matrice inglese). Del resto, in un periodo di tempo appena più lungo, anche il movimento operaio verrà messo fuori gioco perché attardatosi, in tutte le sue correnti (la “comunista” in particolare), su una interpretazione del capitalismo di tipo economico e giuridico, di cui sono state considerate quasi solo le forme mercantili e proprietarie.

Queste trasformazioni sono quelle decisive o prendono il davanti della scena riducendo a loro effetto quella che è la loro causa? Intanto va ricordato come siano quelle caratterizzanti gran parte del secolo XX, in senso appunto sociale e non meramente economico, fino alla “terza rivoluzione industriale” che si accelera e acquista particolare rilievo negli ultimi due decenni. Le “grandi depressioni” (1907 e 1929) stanno dentro l’epoca iniziata con la “lunga depressione”, non sono quindi della stessa natura e importanza di quest’ultima. Questo punto va rimarcato e tenuto fermo. L’epoca a cavallo tra otto e novecento è stata detta dell’imperialismo; tuttavia, troppo spesso confuso con il colonialismo, con la lotta tra potenze per la suddivisione del globo in gran parte ancora non capitalistico e contadino. Lenin intuì questa confusione, ma sbagliò affermando che, delle cinque caratteristiche da lui attribuite all’imperialismo, la più rilevante era la prima, la formazione del capitale monopolistico; anch’egli era d’altronde orientato dal marxismo (non esattamente dal pensiero marxiano) che metteva l’accento sulla centralizzazione e finanziarizzazione del capitale.

La caratteristica che si sarebbe dovuto valorizzare è invece l’ultima: la lotta tra potenze per la divisione del mondo in sfere d’influenza; una divisione continuamente rimessa in discussione a causa dello sviluppo ineguale delle formazioni capitalistiche (altra intuizione di Lenin) e dal conseguente mutamento dei rapporti di forza tra i vari gruppi nazionali capitalistici a livello mondiale. La “lunga depressione” di fine XIX secolo è sintomo e portato del declino dell’Inghilterra quale paese predominante (centrale) e della nascita di alcuni concorrenti (non certo in termini puramente economici) che si disputeranno la nuova predominanza. Innanzitutto gli Usa, le cui basi di nuova potenza in forte ascesa furono poste con la guerra civile o di secessione; inoltre la Germania (soprattutto dopo la guerra franco-prussiana) e appena più tardi il Giappone che inflisse una dura lezione alla Russia, frustrando le sue aspirazioni di diventare una di queste potenze e ponendo in evidenza la sua intrinseca debolezza (che la rese teatro della rivoluzione del ’17).

L’imperialismo è stato fin troppo caricato di singolarità. Ogni fenomeno storico è specifico; eppure è nello stesso tempo un seguito di eventi, alcune caratteristiche dei quali si ripresenta con diverse manifestazioni “puntuali”. Ho denominato multipolarismo la fase storica in cui una potenza declina e altre sorgono, in competizione fra loro, per prenderne il posto. L’epoca della “lunga depressione” è precisamente una fase di crescente multipolarismo che sarà poi seguita dal più aperto policentrismo conflittuale (con il suo seguito di eventi anche bellici assai radicali). La “stagnazione” di fine ‘800 va così definita solo in termini di crescita economica (del Pil diremmo oggi); fu però epoca di grandi trasformazioni sociali, di innovazioni, di scoperte scientifiche, di mutamenti culturali, ecc. Soprattutto, appunto, cambiò radicalmente il quadro delle influenze geopolitiche delle varie nazioni/potenze. I rapporti di forza a livello internazionale si modificarono notevolmente ma in modo non immediatamente tanto visibile, non del tutto percettibile. A parte alcuni scontri bellici, ci fu un grande movimento di diplomazie, di bracci di ferro seguiti da superficiali mediazioni e riappacificazioni, ecc. La politica – il livello delle mosse tattiche e strategiche per attaccare e difendersi, per aggirare l’ostacolo o affrontarlo a muso duro, per mostrare la volontà di cooperare che nasconde la preparazione dei prossimi tranelli e giravolte, e via dicendo – si mostrò in tutto il suo “splendore” di inganno, menzogna, raggiro; in ogni caso di astuzia.

Sembra incredibile che in così pochi si accorgano che ci troviamo oggi in un’epoca multipolare, in cui gli Usa hanno ancora un “surplus” notevole di forza, ma non possono più comportarsi da “padroni” del mondo; ed ecco la loro tattica (o, se si preferisce, strategia) del “serpente” che prende il posto di quella della “tigre” di pochissimi anni fa. Ecco le altre potenze in rafforzamento, ma ancora troppo deboli per scontri più “robusti”, manifestare una tendenza al compromesso e ad “improvvisi” allineamenti alle posizioni statunitensi, che lasciano nello sconcerto gli sprovveduti sempre alla ricerca del loro “paladino”, cui affidare i loro sogni di una “Umanità rigenerata”. Piaccia o non piaccia, questo è il modo in cui una parte dell’Umanità (quella piccola parte che domina) si “rigenera” coinvolgendo drammaticamente tutti gli altri che non decidono nulla. Inaudito che, proprio nel paese del grandissimo Machiavelli, siano così numerosi gli incapaci di capire questa banale “verità”. O si segue l’evolversi di questa “rigenerazione” dei dominanti o è meglio ritirarsi a fare l’eremita, a contemplare le “eterne Verità” rivelate da Dio o da qualche “Filosofo” in vena di prendersi per Dio.

Siamo con molta probabilità dentro una fase che ricorda quella della “lunga depressione” di fine ‘800 perché stiamo entrando in un’epoca di multipolarismo, quella che precede l’aperto policentrismo. La “volta scorsa” l’umanità non ce la fece a liberarsi dei (pochi) gruppi dominanti – nazionali, o sciocchi sostenitori della “transnazionalità” che prende il posto del fallimentare “internazionalismo”! Ed è già fallita anch’essa! – prima dell’affermarsi dell’aperto policentrismo con il suo seguito di drammi. Questa volta invece ci riuscirà? Non lo so, non sono nato per fare il Profeta e nemmeno, più modestamente, colui che legge l’avvenire nella sfera di cristallo. Di una cosa sono certissimo: non si tratterà mai della Rivoluzione Proletaria Mondiale. Intanto allora, se vogliamo essere utili a qualcosa, seguiamo questa epoca multipolare, attrezzandoci a capire che quanto vien detto ufficialmente non è mai ciò che accade realmente.

Non semplicemente per malafede degli attori in gioco. Il fatto è che gli interessi contrapposti delle varie potenze non sono oggettivamente componibili. Fin che una di queste è nettamente superiore alle altre – epoca monocentrica: diciamo inglese tra il 1815 e metà di quel secolo o poco dopo; americana tra il 1991 e il 2001-3 – tutto sembra andare quasi bene (a parte le ricorrenti crisi economiche più o meno gravi o semplici “recessioni”). L’epoca bipolare fu qualcosa di eccezionale, una fase di pace nel “primo mondo” e di atrocità nel “terzo”. Una fase, i cui effetti durano ancora “per trascinamento”, ma cesseranno fra qualche tempo; e ancora non la si è compresa a causa dell’annebbiamento provocato dall’ideologia dello scontro tra capitalismo e “socialismo”. Adesso però cominciamo, per primi barlumi, a capire come il capitalismo fosse la formazione dei funzionari del capitale (ormai totalmente vincitrice del capitalismo borghese, che alcuni ritardatari si affannano a combattere ancora) mentre il “socialismo” era una nuova formazione sociale in gestazione, che oggi si esprime nella crescita di nuove potenze. La sfera economica di queste ultime è caratterizzata dalle forme del mercato e dell’impresa, mentre quella politica (gli apparati, ecc.) hanno diversità ancora non ben colte e valutate.

Una volta finito il bipolarismo, durato pochissimo il monocentrismo statunitense, il mondo è di nuovo nel caos. La potenza in solo relativo declino riesce ancora a difendersi e a contrattaccare efficacemente. Questo fatto è responsabile della mutazione della “recessione” in più aperta e netta “crisi”, di cui tutti vedono però soltanto il lato economico. Qualcuno, come Krugman, intuisce che non si tratta di “grande depressione” (tipo ’29) ma di “lunga depressione” come alla fine dell’800. Non si capisce però che si tratta di fenomeni diversi, per niente ben espressi con il ricorso ad aggettivi come “grande” e “lunga”. E’ più che probabile (non credo a soluzioni diverse) che gli Usa non riprenderanno (non pacificamente almeno e non a breve termine) la predominanza monocentrica; per cui si rinunci all’idea del centro regolatore di un sistema economico uniformemente capitalistico con le sue “normali” crisi economiche periodiche. Tale paese è però in grado di resistere, ed in questa resistenza metterà in atto tutte le manovre possibili, fra cui quelle economiche e finanziarie, uno strumento della politica (come insieme di mosse tattiche e strategiche).

Gli attori di queste mosse credono a volte di poter inseguire la “cooperazione”; solo che ognuno vuole che questa sia vantaggiosa per lui e, quando vede che così non è, pensa siano gli altri a ingannarlo, si mette in sospetto e reagisce. Alla fine ognuno si muove con intenti di raggiro, per cui le intenzioni dichiarate sono del tutto diverse dagli obiettivi perseguiti. Non basta. Quando gli attori cominciano ad essere in discreto numero, e in grado di pensare e agire per i propri interessi, il risultato delle azioni è differente da quello perseguito da ognuno di essi. Nessuno è soddisfatto e ognuno attribuisce questa insoddisfazione o alla malafede degli altri oppure – quando si tratti di attore di fatto subordinato ad altro più forte (mettiamo l’Italia nei confronti degli Usa) – si inventa diversivi del tipo della “mancanza d’etica” negli affari, dei banchieri troppo avidi di forti guadagni, da colpire con durezza salvo poi fare dietrofront per paura di ulteriori collassi (sappiamo di chi si sta parlando, no?).

Prima di arrivare al policentrismo con i suoi duri scontri anche bellici (molto diversi sicuramente dalle guerre novecentesche), è possibile sperare nel rovesciamento dei gruppi dominanti (e subdominanti)? Finora non ci si è riusciti, ma sperare è sempre lecito. Ogni speranza va però abbandonata se non si capisce a quale fenomeno siamo di fronte, in quale epoca stiamo vivendo. Oggi, a parte questo barlume (però distorto e quindi alla fin fine sviante) di un Krugman, abbiamo solo molti chiacchieroni che si buttano a pesce sulla “superficie” della fase storica (certo drammatica per i singoli, per i dominati, non lo nego) creando il più grande caos di idee che si possa immaginare. O riprendiamo il timone in mano o “andiamo al diavolo”.