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L’equivoca “empatia” e la caccia ai vampiri

di Claudio Risé - 02/07/2010


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Forse negli ultimi cinquant’anni abbiamo sopravvalutato le virtù dell’empatia (sentire come l’altro, mettersi nei suoi panni). L’abbiamo messa al centro di tutto: educazione dei giovani, rapporti coi dipendenti, con gli stranieri e i diversi, relazioni uomo-donna. Adesso però ci accorgiamo che sempre più spesso un giovane sgridato cade in depressione (e a volte si toglie la vita), sul lavoro ci si sente «empaticamente» controllati, l’intolleranza cresce, e fra maschi e femmine è guerra.
Sembra proprio che l’ubriacatura di empatia sia stata soprattutto un modo di aggirare i conflitti che crescevano in una società in rapido cambiamento.
Con lo slogan dell’empatia ad ogni costo chi deteneva il potere (i politici, i genitori, gli insegnanti) doveva mettersi nei panni dell’altro (il giovane, la donna, il diverso di qualsiasi tipo, lo straniero). In questo modo, però, si è in fondo occupato lo spazio proprio di questi «altri», impedendo loro di farsi davvero carico delle propria diversità. Si è così reso più difficile alle identità «altre» di rafforzarsi e sviluppare le proprie capacità di resistenza e discussione nei confronti del potere.
La scuola ne è un esempio: a furia di «empatia» molti insegnanti hanno spesso perso l’abitudine di insegnare (e di imparare cosa insegnare), e gli studenti sono rimasti in gran parte ignoranti, e per giunta depressi.
Questo «alleggerimento» della posizione dell’altro, infatti, l’ha reso ancora più debole e dunque sempre più scontento. I giovani che per un quattro si buttano dalla finestra sono, di solito, «bravissimi ragazzi», che non hanno mai litigato coi genitori, o quasi. Anche gli altri giovani, detti «antagonisti» o «disobbedienti», che si mettono in fondo alle piazze gridando dai megafoni «fascista» o «buffone» a chiunque parli, membro del governo o capo partigiano, o parente delle vittime di stragi hanno in fondo perso la capacità della parola, di distinguere tra le situazioni, partendo dalla propria identità, ormai annegata nel brodo di empatia/tolleranza/disinteresse.
L’empatia in cui sono cresciuti ha loro impedito di trovare veri argomenti contro l’autorità; ma quindi anche verso le proprie debolezze o passività. Facendo spazio «empaticamente» alla posizione di insegnanti e genitori, non hanno più spazio per sé: per credere nelle proprie trasgressioni, e in questo modo riconoscerne le criticità, consumarle, e poi gettarle via.
Non a caso il cinema e la letteratura di fantascienza da più di vent’anni presenta (con sempre maggior successo) questi personaggi invasivi, i Cyborg, gli Avatar, che ti entrano dentro e poi ti controllano. Anche la nuova popolarità della figura del vampiro, che cibandosi di te ti rende simile a lui, ripresenta questa situazione, che è contemporaneamente un desiderio ed una grande paura: l’amore come fusione con l’altro, dove tu perdi la tua identità e diventi immortale, ma anche morto alla vita della luce, acquisendo un’identità fredda e notturna.
Un Narciso fantasma, che ai aggira nottetempo vestito di nero, a volte anche elegantemente, come i ragazzi che frequentano i sempre più popolari blog degli aspiranti vampiri, alla ricerca di qualcuno che succhi il loro sangue, e insegni a loro a fare altrettanto.
Come rimediare dunque? Forse rileggendoci gli avvertimenti del filosofo francese Paul Ricoeur, che all’«equivoca empatia», che allora cominciava a diventare popolare, contrapponeva cinquanta anni fa il «rispetto» (con la sua connaturata distanza) dell’altro in quanto diverso da te, unica strada per arrivare ad una vera e profonda simpatia.