Tra le tante cose divertenti e intelligenti del festival “Cinema Corto in Bra”, che si tiene in questi giorni nella mia cittadina, devo segnalarne una che mi sembra particolarmente adatta a questa rubrica.
Lo faccio soprattutto nella speranza di mettere una pulce all’orecchio degli agricoltori che si presuppone leggano queste righe. Ma non solo.
Si tratta naturalmente di un film, proiettato in anteprima nazionale giovedì scorso a Bra. È un documentario dal titolo emblematico: “The future of food”.
La pellicola è stata realizzata dalla regista statunitense Deborah Koons Garcia nel 2004, ma è stata presentata in Europa soltanto da poco (la scorsa settimana a Parigi) e spero che d’ora in poi avrà la più ampia distribuzione possibile.
In questa rubrica ho spesso scritto dell’annosa e complessa questione degli organismi geneticamente modificati. Non è mai facile spiegare perché è necessario opporsi a queste tecnologie, o quanto meno nutrire e mettere in pratica un forte sentimento di precauzione.
“The future of food” invece è quanto di più didattico, istruttivo, ci possa essere in tema ogm. In maniera semplice, diretta, si racconta l’epopea dell’agricoltura americana, dai primi interventi della chimica nel campo risalenti al primo dopoguerra, fino al brevetto della natura, all’ardire biogenetico di certe creazioni delle multinazionali dell’agribusinness.
In un’ora e mezza la regista californiana ci racconta, attraverso le voci di esperti e contadini, come si producono gli ogm, come funzionano e, cosa molto importante, perché si producono, ovvero in che sistema si vanno a inserire.
È la descrizione del panorama agricolo degli Usa, in mano a una crescente concentrazione di pochi grandi gruppi industriali, con un 2% di contadini rimasti nelle campagne che stanno perdendo i propri semi, la loro libertà e la loro dignità.
Le testimonianze più forti sono proprio le loro: Percy Schmeiser, agricoltore canadese alle prese con un’odissea legale contro la Monsanto di cui ho già scritto in questa rubrica (ma è tutta un’altra cosa vedere sua moglie in lacrime) e Rodney Nelson, del North Dakota, che racconta di una causa che gli è stata fatta sempre dalla Monsanto per supposto utilizzo illegale dei loro semi.
Il signor Nelson lamenta che il lavoro della sua famiglia, che per generazioni ha selezionato i propri semi, è stato cancellato in pochi anni, è andato distrutto per sempre: “È stato straziante vedere rovinare la nostra reputazione per qualcosa che non abbiamo fatto”.
Sarà interessante per gli agricoltori italiani vedere quello che può succedere in un sistema di produzione che dietro alle stupefacenti, enormi distese di campi coltivati, paesaggi sterminati di mais, colza e soia, nasconde questi drammi personali.
L’impossibilità di produrre come si vuole, in balia di un mercato altamente sovvenzionato, non potendosi curare come facevano i propri antenati di una natura che è in gran parte brevettata, e quindi di proprietà di qualcun altro.
Ma il film dice molto di più, perché parla davvero di quello che potrebbe essere il futuro del nostro cibo se l’agricoltura tradizionale, la biodiversità, i semi, il savoir faire ancestrale lasciassero del tutto il posto a ciò che ormai domina negli Stati Uniti: agribusinness, ogm, industrializzazione agricola (un controsenso che si evince già dal solo contrasto tra le due parole), sistemi distributivi e di produzione ultra-centralizzati.
Per fortuna, dopo oltre un’ora di toni preoccupanti, di un senso di impotenza che cresce progressivamente di fronte allo schermo, Deborah Koons Garcia ci dà importanti segnali di speranza e ci mostra quali sono le alternative che possono ancora garantire un futuro al cibo Usa, e anche al nostro: filiere corte, agricoltura supportata dalle comunità, ritorno al biologico, al locale, allo stagionale, ai piccoli mercati di paese o ai farmer’s market di città.
Secondo me il film andrà fatto vedere nelle scuole, il dvd dovrà essere sullo scaffale in salotto di ogni azienda agricola italiana: per questo spero che Slow Food riesca nel suo intento di curarne la distribuzione in Italia.
Sarebbe una cosa davvero inusuale per l’associazione che presiedo distribuire un film, ma credo che, visti i contenuti, ciò rientri perfettamente nella nostra missione e non vedo l’ora di farlo.
Nel frattempo, se volete maggiori informazioni, andate sul sito www.thefutureoffood.com.
Carlo Petrini