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Sei una donna o un uomo finito o sei pronta (pronto) all’avventura?

di Francesco Lamendola - 09/07/2010


È una cosa che stringe il cuore pensare che la maggioranza degli esseri umani adulti vivono, pensano e sentono esattamente come se fossero finiti: vale a dire, come se non si aspettassero più dalla vita niente di diverso da ciò che hanno sperimentato finora.
L’espressione “un uomo finito” può sembrare un tantino melodrammatica, complice la letteratura decadentista; tuttavia rende bene la condizione esistenziale di chi ormai si lascia vivere per forza d’inerzia, con il pilota automatico inserito, senza più occhi per la bellezza, senza più fede nel domani, senza più credere in se stesso.
Un tratto caratteristico della nostra società, segnato dal crepuscolo della borghesia che aveva dato l’assalto al cielo, sorretta da un’immensa, presuntuosa fiducia in se stessa, è quella forma di ipocrisia per cui ciascuno si tiene il proprio malessere esistenziale nascosto bene in fondo, dietro la facciata d’obbligo della rispettabilità e della normalità; salvo poi lasciarsi andare alla disperazione in maniera improvvisa e rovinosa, magari con gesti clamorosi di violenza contro se stesso o contro gli altri, in genere contro le persone della cerchia più intima.
Non si può giocare impunemente con la propria disperazione: se la si ignora, prima o poi essa si vendica. È così che si spiega il dilagare di quella “malattia del secolo” che è la depressione: con il fatto che l’autenticità repressa, negata, ricacciata giù in fondo, non si rassegna ed urla tutta la sua protesta e la sua delusione; ma, non trovando alcuno sbocco verso l’esterno, finisce per imputridire e per contaminare la vita dell’anima.
Anche da questo punto di vista, si vede chiaramente quale sia il nostro problema più grave: l’incapacità di ascoltarci, l’aver perduto la facoltà di riconoscere ed accogliere le nostre esigenze più vere ed autentiche; mentre siamo diventati bravissimi nel recepire e nell’inseguire i bisogni artificiali più vuoti ed assurdi, creati in noi della macchina consumista. Non ci facciamo mancare nulla di ciò che è secondario, superfluo, inutile e perfino dannoso; ma priviamo la nostra vita di ciò che le è assolutamente essenziale.
In particolare, l’incapacità di riconoscerci, accettarci e mostrarci agli altri quali siamo veramente - in una parola, l’incapacità di essere noi stessi - ci impone il pagamento di uno scotto pesantissimo: la nullificazione della nostra vita sociale autentica, che è ormai ridotta ad una serie di rituali sempre più vuoti e insoddisfacenti, mentre avremmo un immenso, disperato bisogno di aprici, di mostrarci nella nostra essenza, di essere riconosciuti, accettati ed accolti non per la maschera che indossiamo, ma per ciò che siamo realmente.
Chi non riesce a guardarsi dentro, ad accettarsi e a lasciarsi vedere dagli altri per quello che è, non solo vive in maniera totalmente inautentica, ma si condanna perennemente alla più raffinata delle torture: come se una parete di cristallo lo separasse da sé e dal mondo, rendendogli impossibile gustare proprio quel lato della vita che la rende maggiormente degna di essere vissuta: il fatto di indossare la propria pelle, di muoversi con lealtà e naturalezza all’interno del proprio io e di instaurare con l’altro dei rapporti profondi, che non possono nemmeno essere immaginati in una situazione di nascondimento e di finzione.
In breve: per essere amici del mondo, bisogna prima imparare ad essere amici di se stessi; e non lo si è per il fatto di concedersi l’automobile ultimo modello, vestiti firmati ed ore e ore di sedute dall’estetista; ma quando si incomincia a volersi bene senza narcisismo, ad accettarsi e soprattutto ad ascoltarsi.
Certo, nell’aprirsi agli altri esiste pur sempre un rischio: quello di non essere capiti, di non essere accolti, di non essere ricambiati con altrettanta lealtà; tuttavia l’io maturo, pacificato con se stesso e cosciente delle proprie reali esigenze, è abbastanza forte da superare queste eventuali delusioni e da non lasciarsene scoraggiare ed abbattere.
Ha scritto il gesuita, teologo e scrittore statunitense John Powell in «Perché ho paura di dirti chi sono» (titolo originale: «Why am I afraid to tell you who I am?», Chicago, Argus Communications Co.; traduzione italiana di Jacopo Dorsanio, Torino, Gribaudi, 1972, pp. 53, 57-61):

«Ho detto che l’essere pienamente umano non reprime le proprie emozioni - almeno nella misura in cui le ha sotto controllo - ma permette loro di affiorare alla superficie per riconoscerne le caratteristiche. Egli sperimenta la totalità della sua vita emotiva. Egli resta in “contatto” e in consonanza con le sue emozioni, consapevole di ciò che esse gli dicono sui suoi bisogni psicologici e sui suoi rapporti con gli altri.
Ma ho anche detto che questo non implica l’alzar bandiera bianca dinanzi alle proprie emozioni. Nella persona pienamente umana c’è equilibrio tra sensi, emozioni, intelligenza e volontà. Le emozioni devono essere integrate: per la qual cosa è necessario manifestarle ma non è aprioristicamente indispensabile modificarle. […]
Nonostante la nostra mancanza di volontà e la nostra riluttanza a dire agli altri chi siamo, ognuno di noi è mosso da un violento desiderio di essere compreso.
Lo sappiamo tutti: cerchiamo - assai maldestramente - di attirare amore su di noi; però, se non veniamo compresi da coloro del cui amore sentiamo il bisogno, qualsiasi tipo di comunicazione profonda si riduce a un rapporto che innervosisce e mette a disaggio, anziché dilatarci e ravvivarci.
Sì, lo sappiamo tutti: nessuno può realmente amarci senza realmente comprenderci. Chi invece si sente compreso, senza dubbio si sentirà anche amato.
Se non c’è almeno uno che mi comprenda e che mi accetti così come sono, io provo un senso d’isolamento. Le mie qualità e il mio denaro non bastano a consolarmi. Anche in mezzo a mille persone, continuo a sentirmi un solitario.
È una legge, innegabile come la legge di gravità: chi è compreso ed amato matura come persona; chi vive isolato morirà inaridito nella tenebrosa cella della sua solitudine.
Ciascuno di noi ha dentro di sé molte cose che gli piacerebbe condividere con gli altri. Abbiamo tutti un passato segreto, vergogne clandestine, sogni distrutti, speranze nascoste.
Però, al di sopra e in contrasto col desiderio di comunicare questi segreti, ciascuno non può non considerare la sua paura e quanto sia rischioso parlare di essi.
Belli o brutti che siano i miei segreti, essi mi appaiono - più d’ogni altra cosa - come quella sfera particolarmente intima di me stesso nella quale si realizza la mia unicità. Nessun altro ha mai fatto quelle precise cose che ho fatto io, nessun altro ha mai pensato i miei pensieri o sognato i miei sogni. Io non sono sicuro di riuscire a trovare le parole per mettere tutto ciò in comune con un altro, ma ancor meno sicuro io sono di questo: quale impressione farà tutto ciò sull’altro?
La persona che ha una buona “immagine del sé”, e che quindi accetta pienamente la verità del suo io, troverà in sé la forza per superare questo dubbio. È tuttavia improbabile che chi mai ha condiviso con altri il suo mondo interiore abbia il sostegno d’una buona “immagine del sé”.
Ed è una constatazione: quasi tutti abbiamo fatto cose, sperimentato sensazioni e sentimenti che non abbiamo avuto il coraggio di confidare, di condividere con qualcuno. Pensavamo di far la figura degli illusi, di apparire malvagi, ridicoli, vanesi. Temevamo che gli altri giudicassero la nostra vita come un continuo odioso inganno.
Così, mille paure ci trattengono nella cella della nostra solitudine.
Qualcuno ha paura di non farcela, di scoppiare in singhiozzi come un bambino. E qualcuno si sente bloccato dalla paura che gli altri non periscano quant’è importante per lui quel suo segreto. Normalmente, noi ci domandiamo in anticipo quale dolore proveremmo se l’interlocutore reagisse alla nostra confidenza col disinteresse, oppure fraintendendoci, mostrandosi traumatizzato, andando in collera o deridendoci. E ci domandiamo se non c’è pericolo che riveli il nostro segreto ad altri ai quali non vogliamo farlo sapere.
Può darsi che in un certo momento della mia vita io abbia fatto uscire una parte di me dalle tenebre della cella per condurla alla luce, sotto gli occhi d’un altro. E può darsi ch’egli non abbia capito. Cosicché io son corso, dandomi di stolto per ciò che avevo fatto, a rinchiudermi in una solitudine emotiva ancor più dolorosa.
Invece, può darsi che qualcuno abbia ascoltato il mio segreto, abbia accettato la mia confidenza con intensa partecipazione. Ricordo le parole che usò per darmi forza, la sua voce che mi comunicava comprensione, il suo sguardo dal quale appariva che aveva capito. Ricordo i suoi occhi incoraggianti. Ricordo come la sua mano strinse la mia: c’era una violenza d’affetto grazie alla quale mi sentii compreso.
Fu una grande esperienza liberatrice: dopo di essa, mi trovai ricco dio una nuova vitalità. E questo, semplicemente perché era stato soddisfatto il mio immenso bisogno d’essere ascoltato in modo partecipe, d’essere preso sul serio e d’essere compreso da qualcuno.
Solo attraverso questa forma di condivisione una persona arriva a CONOSCERE SE STESSA. L’introspezione non serve,. Confidiamo pure tutti i nostri segreti alle docili pagine del diario personale, ma per conoscere noi stessi e sperimentare la pienezza della vita ci è indispensabile l’incontro con un amico in carne ed ossa.
L’amicizia diventa allora una grande avventura. Essa è una scoperta sempre più profonda di chi sono io e di chi è il mio amico, via via che continuiamo a rivelarci nuovi e più reconditi aspetti di noi stessi. Essa mi apre la mente, mi allarga gli orizzonti, mi riempie di nuova consapevolezza, approfondisce i miei sentimenti, mi fa cogliere il senso della mia vita.
Ma le barriere non cadono mai in maniera definitiva. L’amicizia e la reciproca autorivelazione ci mettono ogni giorno dinanzi ad una qualche novità  poiché l’essere persona umana implica cambiamento e sviluppo quotidiani.  Il mio amico ed io ci evolviamo e le differenze diventano sempre più palesi. I nostri due processi evolutivi non tendono alla realizzazione di un’identica persona: io sto lentamente realizzando la mia persona e lui la sua.
Cosicché scopro in te, che mi sei amico e confidente, gustie preferenze diverse, sentimenti e speranze diverse, reazioni diverse alle nuove esperienze.  E mi rendo conto che non basta dirti chi sono una volta per sempre. Io devo CONTINUAMENTE dirti chi sono  e tu devi CONTINUAMENTE dirmi chi sei, perché entrambi CONTINUAMENTE ci evolviamo.
Può accadere che proprio quelle cose dalle quali prima ero attratto verso di te ora mi appaiono ostacoli alla nostra comunicazione.
All’inizio, la vivacità dei tuoi sentimenti controbilanciava la mia tendenza marcatamente più intellettuale, il tuo comportamento estroverso equilibrava la mia introversione. , il tuo realismo correggeva gli eccessi delle mie qualità intuitivo-artistiche. Grazie a questa complementarietà, la nostra era un’amicizia ideale.
Ora, invece, quando io voglio spartire con te le mie idee, resto male nel vedere che non ascolti con interesse le mie argomentazioni razionali ed oggettive. Ora, quando voglio mostrarti che manchi di logica nel passare da un sentimento all’altro, mi dai l’impressione che la cosa non ti riguardi.
All’inizio, regnava fra noi una perfetta sintonia.
Ora, il tuo desiderio di aprirti agli altri e la mia introversione che mi spinge sempre di più a rinchiudermi nella solitudine sembrano dividerci.
Eppure, la nostra amicizia può e deve continuare: ci troviamo infatti, proprio adesso, sulla soglia dell’esperienza umana più bella e più fruttuosa. Sarebbe un grave sbaglio tornare indietro.
Possiamo ancora condividere, con la stessa intensità, tutte le cose che condividevamo quando per la prima volta io ti dissi  chi ero e tu mi dicesti chi eri. Solo, ora questa condivisione sarà più profonda perché entrambi siamo più profondi.  Se io continuerò ad ascoltarti con lo stupore e la gioia di allora e tu farai lo stesso, le radici della nostra amicizia diventeranno più salde scendendo più addentro nei nostri cuori. E noi capiremo quanto sia insulso nasconderci qualcosa l’uno all’altro dopo aver messo tutto in comune.»
Ricapitolando.
La vita dell’anima ha bisogno dell’autenticità, come del pane; non si tratta di un lusso di cui si potrebbe anche fare a meno, ma di un elemento assolutamente indispensabile per coabitare serenamente con se stessi e con gli altri. Non possiamo pretendere che gli altri ci capiscano, ci accolgano e ci amino se noi stessi, per primi, non facciamo il minimo sforzo per capirci, per accettarci e per volerci bene.
Dobbiamo imparare a volerci bene nel modo giusto, però: questo è essenziale. Ogni giorno possiamo vedere come dei genitori, i quali amano i propri figli in modo sbagliato, di fatto impediscono loro di crescere, di maturare affettivamente e di volare via dal nido, incontro alla loro vita: ebbene, la stessa cosa può accadere a noi stessi, se non impariamo a volerci bene nel modo giusto.
Ciò significa che non dobbiamo indulgere nel soddisfare ogni nostro capriccio e nemmeno che dobbiamo darci sempre ragione, anche quando abbiamo torto marcio: al contrario, dobbiamo imparare a giudicare equamente le nostre scelte; non per ergerci a giudici inesorabili di noi stessi, ma per comprendere quali siano le nostre autentiche esigenze e quali siano le strade per cui le possiamo realizzare.
Una volta che si sia imparato ad amare il proprio sé nonostante le sue debolezze, le sue cadute e le sue insufficienze, ma senza nascondersele e senza barare al gioco, si può incominciare a relazionarsi con gli altri in maniera matura e responsabile. Gran parte delle delusioni, delle ferite e delle amarezze che la vita affettiva ci riserva sono dovute alla nostra incapacità di vedere quali sono le reali motivazioni che ci spingono verso l’altro, che fanno velo al nostro sguardo e ci portano a caricare l’altro di aspettative smisurate da parte nostra.
Aprirsi all’altro con fiducia e amore, ma anche con piena consapevolezza di ciò che si è e di ciò che si cerca, è la più sublime esperienza che si possa fare nel corso della propria vita di relazione; anche perché, come osserva giustamente John Powell, solo nella relazione con l’altro noi possiamo trovare la reale misura di noi stessi. Nessun libro, nessuna teoria e nessuna introspezione potranno mai darci la stessa pienezza, la stessa gioiosa rivelazione.
A questo punto ci si potrebbe domandare se la conquista della propria autenticità vada perseguita dapprima scendendo nelle profondità dell’io e poi aprendosi agli altri; oppure se le due cose debbano procedere insieme, di pari passo. Di fatto, nella vita le cose sono più sfumate e l’alternativa è meno drastica: perché è impossibile scendere nel proprio io, senza incontrarvi anche il mistero dell’altro; e, viceversa, è impossibile incontrare il mistero dell’altro, senza trovarvi anche la rivelazione del proprio io più profondo.
Una cosa è certa: non si incontra se stessi sfuggendo il contatto dell’altro per paura; ma, semmai, cercando la solitudine come una strada necessaria, ma temporanea, per imparare ad affinare lo sguardo e a scorgere più lontano e con maggiore chiarezza le cose che contano, tralasciando quelle che tendono a fuorviare con la loro esteriorità brillante, ma vuota.
Vivere pianamente la chiamata della nostra vita, significa vincere il timore e mettersi pienamente in gioco, non con irresponsabile leggerezza, ma con la piena e matura coscienza di quel che si è e di quello che si desidera trovare.
In ultima analisi, tutti cerchiamo la stessa cosa; ma procediamo nel buio, a tentoni, e non senza rovinose cadute. Le persone di animo vile fanno di tutto, consapevolmente o meno, per spegnere la tenue fiammella di chi, a sua volta, procede nell’oscurità; le persone di animo nobile si adoperano con ogni mezzo per tener viva la propria fiamma e, al tempo stesso, per ravvivare quella dei compagni di viaggio, i quali - di tratto in tratto - si affiancano loro.
Imparare a camminare senza spegnere la fiammella dell’altro, per invidia o per goffa inesperienza, è già un cominciare a mettersi sulla strada giusta, districandosi dal labirinto dei sentieri ciechi e ingannevoli. Il passo successivo sarà quello di far risplendere alta e con più forza la propria fiammella, per indicare la strada a coloro i quali ne hanno bisogno.
Possiamo fare del bene agli altri, nel tempo stesso in cui ne facciamo anche a noi stessi. Ma, per arrivare a tanto, dobbiamo divenire leali e trasparenti come acqua limpida, come un vetro terso.